DEMOCRAZIA O BARBARIE (1/3): CRITICA DELLA DEMOCRAZIA PERVERTITA.

Le correnti democratiche nella storia

sono come il battito continuo delle onde:

si infrangono sempre contro uno scoglio,

ma vengono incessantemente sostituite da altre.

R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, 1912

Il punto centrale della comparazione tra democrazia antica e moderna è nello spirito del tempo, solo dopo nelle forme giuridiche e procedurali. Semplicemente, ciò che diede il nome alla cosa democratica ateniese e greca era lo spirito forte di un tempo che voleva portare i cittadini a governarsi da sé, senza intermediari o strati superiori. Quella moderna invece, pone una funzione intermedia tra cittadini e potere. Essa ha due caratteristiche principali, richiede una delega basata su riconoscimenti di competenza nel portare avanti le istanze delegate; quindi, punta a limitare la partecipazione politica ad un singolo atto di voto ogni quattro anni del delegante. Se la originaria democrazia attraeva la gente, la seconda la respinge. Questa seconda è di natura spettatoriale (ed infatti ormai è un cardine della società dello spettacolo), la prima mobilita scopo, intento e fine, motivazione, coinvolgimento, azione, partecipazione. Tutte cose che si vogliono evitare dal fronte oligarchico.

La prima forma, la unica ed originaria, oggi la diciamo “diretta” solo perché dopo abbiamo inventato la delegata, ma dire che la delegata merita comunque il nome di democrazia è nostro arbitrio. Cioè se si toglie l’essenza ad una cosa, quella cosa cambia sostanza o si può continuare a trattarla della stessa sostanza nonostante la si sia devitalizzata? Non importa se ci sono o meno effettive cause di forza maggiore nel doverlo fare, in sé per sé la cosa senza essenza cambia di fatto sostanza. Una democrazia delegata è una variante light della forma oligarchica, non una variante light di democrazia propriamente detta. Salta ad altra categoria come bruco a farfalla, ghiaccio ad acqua a gas.  

Al fondo di questa questione, c’è una contraddizione fondamentale. Dalla prima forma scritta di ragionamento politico in quel delle Storia di Erodoto – Dialogo dei persiani- in cui troviamo l’orazione del sostenitore del sistema oligarchico Megabizo, al contemporaneo sostenitore dell’epistocrazia Jason Brennan (Contro la democrazia, LUISS, Roma), via Anonimo oligarca, Platone e schiere indefesse di antidemocratici, l’obiezione è sempre la stessa: il popolo non sa, non è in grado di sapere, di dirigere processi complessi in vista di fini politici adeguati.

Credo questa obiezione sia corretta (sebbene l’argomento andrebbe precisato e discusso a fondo), ma noto due/tre cose. La prima è che nessuno si pone allora il problema di adeguare questo popolo incapace ad emanciparsi dalle catene della sua ignoranza, la seconda è che non si capisce se è così incapace a tenere redini politiche in salde mani, come può esserlo nel delegare con consapevolezza e ragione un terzo che ne rappresenti le istanze men che primitive. Infine, in tale modalità delegata su basi primitive, il corpo politico si troverà una disparata panoplia di istanze particolari e nessuna che converge verso l’interesse generale.

In gioco si sono due ordinatori sociali. Diciamo “ordinatori” i paradigmi di governo del sistema sociale sia quello dei valori immateriali, sia quello delle funzioni materiali. La democrazia campeggia al centro di una idea di società ordinata dal politico, quella che abbiamo che è un sistema repubblicano a governo misto (Uno-Pochi-Molti), è ordinata dall’economico. Tant’è che c’è chi non prova vergogna a chiamarla anche “democrazia di mercato”, alla festa dell’ossimoro. In gioco c’è il tempo individuale e sociale. Grandi porzioni di tempo da dedicare alla politica, in democrazia, altrettanto grandi porzioni di tempo dedicate a produrre, comprare e consumare nel caso di quella di mercato, poiché è proprio il mercato che distribuisce le carte, il gioco è quello, l’egemonia temporale sull’esistenza personale.

La delega dà la richiesta legittimità, con essa approvate le forme della vostra servitù volontaria. La date “dal basso” ad un “alto” che scegliete come? Qui torniamo alle basi di competenza. I cittadini sanno davvero quali sono i problemi o meglio le cause, come andrebbero risolti nell’interesse generale? Perché se non lo sanno (e date le penose condizioni dei sistemi formativi, informativi e ridistributivi di conoscenza attuali si può più che dubitare), non si capisce allora il quale mai sarà il contenuto delle delega stessa. Alla fine, diamo una delega vaga e non imperativa, non la controlliamo più di tanto, non possiamo revocarla, dura quattro anni.

I deleganti, nel tempo, non acquisiscono alcuna conoscenza della trama complessa dell’arte di governo e del come questa si applica alla rugosa realtà. Non ricevono informazioni da chi si dovrebbe applicare ad una qualche trasformazione del mondo, così rimangono in uno stato di vago istupidimento idealista. Lì si forma una biforcazione che porta il delegato ad un livello di ingaggio con la realtà molto complessa, il delegante invece rimane fuori della realtà politica.

Questa massa di delegati va a formare l’oligarchia che governa le leggi, il fisco, i fatti militari e polizieschi. Alcuni dovrebbero aver avuto mandato critico o di opposizione o alternativo. Nel tempo però, loro stessi, anche quelli in buonafede, si rendono conto degli errati presupposti di delega e debbono autonomamente decidere come riformularla o reinterpretarla. Tanto sembrerà sempre un tradimento. Sempre che non scelgano per interesse personale, di fregarsene dello spirito del mandato e confluire di fatto nei modi della gestione oligarchica dominante svoltando la propria vita personale con occasioni che capitano una volta sola nella vita e per i più mai.

Diventano così anche loro “classe politica” che in base a supposte competenze, si riserva un universo chiuso che tende ad automantenersi al potere. Il tradimento della delega offre in campo politico, l’arrivo di altri delegati che vendicheranno la “truffa” precedente in una coazione a ripetere di aspettative tradite, sì che il delegante, alla fine, nutrirà una sfiducia totale in questa forma di fare politico. Altresì, se i delegati che si supponevano democratici hanno tradito, c’è sempre la possibilità si offrano i delegati demagogici, finto democratici ed in realtà aspiranti oligarchici che vanno di scorciatoia.

La democrazia di mercato o liberale è una forma precisa dell’antico “regime misto” (Uno-Pochi-Molti) che sfocia nel repubblicanesimo che però cambia nome e si presenta come versione moderna e adattata della antica democrazia lì dove parola e cosa sono legati in radice piantata nella storia. Avvenne tra Stati Uniti ed Europa più o meno nello spirito culturale e politico di metà XIX secolo. Ma ci vorrà la messa in Costituzione dei sovietici del suffragio universale nel 1918 per procedere almeno a questa estensione del diritto di delega universale. Tuttavia, solo nel 1945-6 si compirà il processo anche in Francia ed Italia ed addirittura solo nel 1965 nella ex-più grande democrazia del mondo, gli Stati Uniti. Neanche un secolo.

La messa in Costituzione della democrazia liberale o di mercato e comunque “rappresentativa” era un compromesso di co-paternità delle nostre nuove società uscite dalla tempesta bellica e ideologica della prima metà del Novecento. La parte liberale, conservatrice, cristiana, popolo ma anche sue élite, mediava con la parte socialista e comunista popolare. Tuttavia, va segnalato che la tradizione socialista e comunista non sapeva nulla di democrazia, ritenuta forma ambigua di potere comunque “borghese”, a cui in genere si preferiva la speranza rivoluzionaria. Socialisti e comunisti, purtroppo, avevano deficit di conoscenza sia in politica che in economia, essendo radicalmente alternativi era anche ovvio fosse così. Alla fine, li parve pacificatore almeno accettare in qualche modo la forma repubblicana ed accettarono anche loro di chiamarla democrazia, del tutto ignari della non corrispondenza tra parola e cosa. Da allora siamo tutti obbligati a mostrare questa reverenza sacra verso il dettato costituzionale, una intera classe di giuristi la presiede con riti e simboli di alta cultura, etica e segni di garanzia di cosa ottima, fondativa, giusta. Eraclito diceva che bisognava le leggi come le mura della città e nulla è sentito più patriottico che difendere la Costituzione.

Sta il fatto che non c’è scienziato storico politico che non potrà che confermarvi che l’elezione di delegati politici è di tradizione feudale ed aristocratica. La Magna Charta (1215) racconta di queste prime assemblee baronali che si vollero mettere in dialettica col potere dell’Uno monarchico. Dopo 443 anni, sempre in quel di Inghilterra, l’assemblea dei delegati dei ceti alti sempre più attratti dal gioco economico e finanziario, fece un colpo di stato (Gloriosa rivoluzione 1688-89) contro le prerogative del monarca ed ottenne finalmente il potere primo, quello ordinativo. Da lì inizia quello che chiamiamo capitalismo moderno che equivochiamo come forma puramente economica quando è sociopolitica e culturale, via ordinatore economico che s’impossessa di uno Stato e relativa potenza (fiscale, giuridica, militare).

L’atto di delega politica avviene una volta ogni quattro anni circa, l’unico atto politico attivo richiesto da questa versione pervertita della democrazia è saltuario e dilatato molto nel tempo. Nessuno mai dai romani ai liberali ha mai rivendicato discendenza con Atene, tutti o con Sparta o più spesso con Roma. Dall’Arco di trionfo a Parigi e Capitol Hill a Washington, i simboli parlano.

Alla nuova forma con le oligarchie in mezzo al potere spesso presidenziale e con sotto il popolo delegante, corrispose la forma politica di partito. Nessun partito però è mai stato democratico, anzi, da Robert Michels con la sua “ferrea legge dell’oligarchia” a Simone Weil si mostra con chiarezza come siano stati perfetti riflessi delle forme degli apparati di governo costituzionali. In teoria, in democrazia reale, non si capisce perché un cittadino dotato di intelligenza politica in proprio debba ficcarsi in questi poco agili vagoni di consenso semi-militare in cui i capi rendono nota la “linea” politica per l’intero gruppo. Un insulto all’esercizio dell’intelligenza in proprio.

Sebbene, come abbiamo accennato, i guardiani del concetto siano ritenuti i giuristi, il concetto di democrazia reale risponde invero ad un assente gruppo di “culturalisti”, non saprei come altro chiamarli. Questo perché si ha democrazia, almeno le sue condizioni di possibilità, osservando almeno cinque fattori di sistema che nulla hanno a che fare con le leggi.

In breve, si tratta di informazione, conoscenza, dibattito, ridistribuzione e tempo. Sia che vogliate partecipare attivamente alla gestione politica della comunità nella forma di reale democrazia, sia anche per dare deleghe, è necessario avere molta informazione corretta e plurale in punto di vista, su oggetti e fenomeni su cui apporre giudizio. Questo strato sempre aggiornato di informazioni va processato da impianti di conoscenze adeguati. Gli impianti di conoscenza fanno la differenza. Il dibattito tra cittadini e non quello che cittadini passivi instupiditi dalla stanchezza lavorativa guardano fare da “esperti” tali autodefiniti o definiti dal sistema dominante, servirebbe anche a condividere, omogeneizzare e diffondere in medietà un corpo comune di informazioni e conoscenza di modo da riuscire ad esprimere l’interesse e non già quello particolare che potrete sommare quanto vi pare, senza da ciò arrivare mai a comporre il generale. Dibattere serve anche ad articolare il pensiero rendendosi conto se è logico, razionale, difendibile e non una collezione di pregiudizi, presunzioni, esagerate induzioni, emozioni. Ma per ridistribuire conoscenza, deve esserci un impegno altro alla tendenziale eguaglianza culturale, eguaglianza tendenziale certo e almeno delle possibilità. Tutta la storia dello sviluppo della scolarità di massa aveva questo intento sebbene oggi meglio sappiamo che non è solo questione di scuole. Tutto però ha una super-condizione a priori: il tempo. Se avete tempo per tutto ciò vuol dire che o non lavorate o lavorate poco, altrimenti con poco tempo rimasto dall’attività lavorativa, ognuno di questi punti sarà sotto-determinato. La quantità di tempo dice di quale ordinatore governa la società, se è politico o economico. I greci usavano la schiavitù per riservarsi il tempo per tutto ciò e quindi fare politica in proprio invece che accumulare denaro e simboli di denaro

Alcuni pongono di necessità una maggiore o tendenziale eguaglianza economica, ma è una falsa precondizione poiché se messi in condizioni di agire pienamente nel senso politico democratico provvederanno come prima cosa perseguire questa loro comprensibile necessità. E comunque una democrazia deve essere compresa tra due severi limiti di diseguaglianza economica e culturale contenuti e continuamente abbassati.

Si noti come oggi, nella democrazia liberale di mercato, di informazione e conoscenza siano monopolio delle oligarchie mentre il dibattito vis-à-vis non esiste anche perché siamo sia spoliticizzati, che de-socializzati e individualizzati. Nessuno si cura più della ridistribuzione anche perché servono fasce ignoranti per svolgere i lavori di più basso livello mentre la ritenuta “alta formazione” è costosa e il capitale culturale ha peso -a volte- anche più di quello economico e finanziario. Per altro anche l’alta formazione è solo legata alle pratiche professionali o econocratiche e comunque ha soglie di accesso.

Quanto al tempo, è dalla convenzione ILO del 1919 che è settato sulla formula 8-8-8, fatto salvo il recupero del sabato mattino qualche decennio fa. Ma di recente, la mitologia del 7/24 sta spingendo ad investire sempre più tempo nella disponibilità professionali anche grazie alle catene info-digitali. Ci nacque il movimento operaio sulla riduzione dell’orario di lavoro e sebbene andiamo incontro a spaventose e repentine scomparse di necessità di produrre direttamente come esseri umani, visto l’impeto della diffusione quali-quantitativa delle macchine elettro-digitali, nonché date le considerazioni culturaliste fatte, risulta enigmatico il fatto che nessuna intelligenza critica abbia pensato di portare il tema i dibattito o direttamente in politica. Viepiù risalendo a Marx che più e più volte nei suoi testi, indica la riduzione dell’orario di lavoro come unica ed effettiva precondizione per l’avvento del “regno della vera libertà”. Avendo potuto far quella fortunata scelta sul piano personale, non posso che confermare.

Ormai l’introiezione del quietismo politico è totale, siamo in effetti sempre più incarcerati in forma totalitarie, spoliticizzate, semi oligarchiche (anche senza “semi-“), semi autoritarie e del tutto postdemocratiche secondo giudizio comune ed esperto. Un futuro infrastrutturato sempre più dall’info-digitale, bio-psico-comportamentale promette ulteriori chiusure, controllo, manipolazione. La forma neoliberista che è una estremizzazione della tradizione liberale spinge con forza oltre ogni limite che supera di slancio i minimi ed ultimi residui di principio politico.

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Per atterrare alla storia recente, la più recente svolta anti-“democratica” avvenne a partire da complessi fatti, azioni e ragionamenti, prodotti dalle ansiose e preoccupate élite soprattutto  a partire dalla prima metà degli anni Settanta, ovviamente a partire da Washington. Il punto era presentare il primato necessario del politico come “governabilità” diciamo implicitamente, governabilità della sempre maggiore complessità economica, finanziaria, demografica, politica, sociale. Il potere politico andava aspirato in alto, in mani sicure ed esperte (lì si comincia col refrain dell’espertocrazia), la politica doveva diventare un brutto ricordo di eccessi, doveva rendersi irreperibile ed infrequentabile. Del resto, negli Ottanta, si offrirono invece a piene mani le promesse dell’edonismo individualizzato, narcisista, egoico.

Siamo alla fine del processo di de-democratizzazione, ma dispiace sottolinearlo, la biforcazione tra democrazia reale e pervertita risale alle illusioni costituzionali, al secolo che portò dal repubblicanesimo elitista al rinominarsi democratici per forme con niente sostanza. Noi, non siamo mai stati davvero democratici.

Platone, Aristotele, Polibio, Machiavelli, Bodin, Hobbes, Locke, Montesquieu, Burke, Fichte, Kant, Hegel, Stuart Mill il gotha del pensiero politico occidentale, quando non sono silenti sulla democrazia sono contrari o ferocemente contrari. Filosofi per cui il loro pensiero politico è poi intrecciato a quello più generale, dando un tono strutturale al rifiuto dell’autonomia popolare. VI ci sono accordati anche gli economisti da Pareto a Schumpeter a Hayek. Tra Spinoza e Rousseau rimane poco e talvolta confuso com’è nella tradizione comunista marxista-leninista poi definitivamente troncata da Stalin.

Per ragioni ignote, c’è lo sterminio totale delle fonti democratiche dei tempi ateniesi, una frase di Protagora, qualche discorso di Demostene, l’orazione di Pericle sempre che Tucidide (con simpatie oligarchiche) l’abbia riportata a dovere. Non ci è stato invece risparmiato l’Anonimo oligarca, Senofonte, tutto Platone ed in parte Aristotele. Nulla ci è arrivato dalle tante altre poleis democratiche greche, siciliane, delle Magna Grecia.

Hanno portato alcuni anche a scattare nel riflesso critico che constatando comunque gli errori politici della tormentata stagione della democrazia ateniese, dicono che ci sono ben evidenti ragioni per rifiutarla. Non si capisce però gli “evidenti errori”, tragedie, catastrofi, drammi, collassi riempienti la grande e sinistra piscina di sangue umano di cinquemila anni di oligarchie dove vadano conteggiati.

Queste menti semplici, ti parlano di schiavi, stranieri, donne, talassocrazia e del monarca di fatto per quanto elettivo Pericle di duemilaquattrocento anni fa come se avessero davanti uno stupido che ragiona di politica stupidamente, come loro, a “modelli”.

Da quanto abbiamo detto si tratta di riconoscere lo statuto di democrazia a quella antica esperienza storico-politica, andare ad estrarne i principi, rielaborali, provare a ripiantarli adattandoli ai nostri ben diversi paesaggi socio-storico-culturali revocando l’utilizzo del termine al repubblicanesimo delle oligarchie.

Che è poi quello che andremo a fare nel prossimo articolo dove affronteremo in positivo l’ipotesi di una democrazia radicale, alla luce della dicotomia “democrazia o barbarie” che vi fa premessa.  

(Questo articolo è 1 di 3 a seguire)

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti e più anni ritirato a "confuciana vita di studio", svolge attività di ricerca multi-inter-transdisciplinare da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità e pubblica su specifiche riviste di sistemica. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio, in particolare sull'argomento "Mondo e complessità". Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore. A seguire: "Europa al bivio. Tra radici e sfide" a cura di Vincenzo Costa, Marcianum press, 2024 Venezia e "L'era multipolare: competizione o cooperazione" a cura di Gabriele Germani, La Città del Sole, 2024, Napoli.
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4 risposte a DEMOCRAZIA O BARBARIE (1/3): CRITICA DELLA DEMOCRAZIA PERVERTITA.

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  2. Sandro Marrone ha detto:

    La nostra Costituzione tenta di risolvere i difetti della democrazia delegata con due articoli molto importanti: il 49 e il 67.

    Il primo assegna ai partiti il compito fondamentale di contribuire a determinare la politica nazionale, ma non riconosce loro alcun potere sulle istituzioni repubblicane: i partiti in quanto tali figurano nel solo articolo 49 e in nessun altro.

    Nello stesso articolo i partiti vengono definiti come spontanee associazioni di cittadini che mettono in comune ideali e interessi e li promuovono. Sono quindi il luogo della partecipazione del cittadino alla vita pubblica e, dal momento che i partiti compilano e presentano le liste con le candidature alle elezioni della assemblea legislativa, le loro idee e interessi vanno ad essere rappresentati in Parlamento.

    Nell’ottica della ideologia liberale i partiti sono entità spontanee di diritto privato che alimentano l’organo di diritto pubblico per eccellenza, cioè il Parlamento, senza alcuna commistione tra loro. In Parlamento entrano le idee elaborate nel confronto dialettico tra i partiti, non entrano né direttamente né indirettamente i partiti in quanto tali.

    Infatti l’articolo 67 definisce i membri del Parlamento come rappresentanti della Nazione, come persone alle quali spetta il compito di contemperare le loro idee o gli interessi che rappresentano col superiore interesse collettivo: con quello della Nazione.
    Dove con Nazione si intende non solo il popolo, ma il popolo su un territorio con la sua profondità storica e culturale.

    Va da se che il partito definito come associazione tra cittadini non può che essere democratico, che altrimenti la partecipazione del singolo cittadino sarebbe subordinazione gerarchica, non libera. Per cui il partito ha da essere democratico, cioè l’assemblea degli iscritti deve essere sovrana, non subordinata ad alcuna autorità superiore. Una specie di soviet, quindi. E infatti l’articolo 49 prescrive ai partiti il metodo democratico.

    Va da se anche la totale autonomia del rappresentante della Nazione implicita nella stessa definizione data dall’articolo 67, che se il membro del Parlamento fosse soggetto ad una autorità diversa dalla propria coscienza deferirebbe la sua funzione a quella autorità, la quale diverrebbe depositaria della rappresentanza e della funzione legislativa.

    L’ordinamento derivante dalla nostra Costituzione non sarà la massima espressione possibile della democrazia, ma era la forma migliore possibile per il tempo e le circostanze.

    Purtroppo sia l’articolo 49 che l’articolo 67 avrebbero dovuto essere attuati con leggi apposite. Il primo con una legge che imponesse il metodo democratico e la personalità giuridica all’associazione; il secondo con una legge che punisse ogni tentativo di violare l’intangibilità e la libertà di coscienza dei membri del Parlamento.

    A 76 anni di distanza dall’entrata in vigore della Costituzione queste leggi non sono mai state promulgate, per cui i due articoli sono rimasti inoperanti.

    Questo ha trasformato la democrazia in qualcosa di simile ad una oligarchia, con i vertici di partito non-democratici che selezionano le candidature scegliendo persone ad essi fedeli, in modo che una volta eletti seguissero le loro disposizioni.

    Non è dunque per un caso che la democrazia rappresentativa nella sua versione reale sia molto lontana da qualunque formula ordinamentale che possa dirsi democratica. E’ evidente che sarebbe un errore madornale giudicare l’una col metro storto dell’altra.

    Costituzione, articolo 49 “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.”

    Costituzione, articolo 67 “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.”

  3. Alberto Rizzi ha detto:

    L’analisi di quella che chiamo “democrazia identificativa” (perché l’elettore si identifica col personaggio interpretato nei vari talk show da un politico, anziché nel suo programma; chiudendo quel cerchio mediatico, per cui negli Anni ’60 del secolo scorso venivano fermati per strada Raymond Burr o Alberto Lupo, per chieder loro consigli giudiziari o medici), è sostanzialmente corretto e non può che trovarmi d’accordo. Noto però che ci siano dei “blocchi di pensiero”, che possono vanificare il tentativo di migliorare le cose; sempre ammesso che, al punto a cui siamo arrivati, siano migliorabili.
    Per esempio temo che sia un dato di fatto che “il popolo”, nella sua maggioranza, non sarà mai in grado di gestire razionalmente questioni complesse: come ho scritto a commento di un post precedente, l’istruzione più o meno obbligatoria degli ultimi due secoli ha allargato il numero di chi ha un certo grado di conoscenze, ma non ha scalfito più di tanto la percentuale di chi le ha in profondità; e in maniera approfondita le sa usare, applicandole a un dato argomento.
    Si va contro la matematica e non c’è nulla da fare. È mia convinzione che si vada anche “contro Natura”, essendo il metodo democratico praticamente mai usato: che io sappia, solo i licaoni lo usano e solo in una ben determinata circostanza. Mi si potrà obiettare che l’uso del libero arbitrio può mettere in discussione le leggi di Natura: non mi sembra molto saggio, però sia pure e industriamoci dunque a perfezionare per quanto possibile il metodo democratico; che – dal mio punto di vista – non è né migliore né peggiore degli altri.

    Un sistema che potrebbe permettere di rimettere in gioco la volontà partecipativa di singoli volonterosi (che però rimarrebbero sempre una minoranza), stava nella proposta del M5S del referendum vincolante e senza quorum, da inserire nei regolamenti comunali. Norma guarda caso mai applicata, in quei Municipi dove arrivarono a governare in tempi non sospetti: e che mi fece scattare il primo campanello d’allarme quando vi militavo.
    Va da sé che, per introdurlo, occorre arrivare a governare almeno a livello comunale; e a volerlo fare, bisogna pure tener conto d’altre varianti, sempre legate al degrado del corpo elettorale, di cui magari scriverò in altre occasioni. Però, anche se rimane un’arma a doppio taglio, la sua introduzione è uno dei pochi motivi validi – secondo me – per scendere in questo marcio agone elettorale e comunque sempre rimanendo in ambito comunale.

    Riguardo alle fonti che porterebbero testimonianza della validità del metodo ateniese (che considerò lo specchietto per le allodole, che aprì la porta al cambiamento della forma in cui si esercita il Potere, senza alterarne la sostanza e cambiare chi realmente i gruppi che lo detengono – “I gattopardi” docet), faccio sommessamente notare che la manipolazione delle assemblee era presente anche allora; e che funzionava benissimo.

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