DEMOCAZIA O BARBARIE (2/3): LA DEMOCRAZIA RADICALE.

Ma cosa significa autonomia?

Autos, sé stesso¸nomos, legge.

È   autonomo chi dà a sé stesso le proprie leggi.

C. Castoriadis, La rivoluzione democratica, Eleuthera, 2022

In Occidente, da tempo vige un sistema politico-giuridico detto “democrazia”. Riconosciuto ormai in crisi nel senso comune non meno che in quello esperto, terminale o meno non si sa, si presume esso abbia invece avuto una fondazione corretta e giusta rispetto al concetto. In Italia, ci si appella a spirito e lettera della Costituzione, ad esempio e se ne rimpiange la vigenza ormai corrotta.

Un democratico radicale, purtroppo, non riconosce neanche a quel tempo e forma piena di buona intenzione il crisma di “democrazia”, si trattava di repubblicanesimo e tra le due forme c’è differenza. Ecco allora che il democratico è radicale, semplicemente nel senso che intende la democrazia come significato alla radice “Essere radicale significa cogliere la cosa alla radice (Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione)”. Si tratta quindi di un problema di nome e cosa dove la cosa è la radice che dà crisma al nome. Qual è allora quella radice?

Semplicemente il sistema che in atto storico aveva quel nome anzi quel nome ha battezzato. Si tratta della democrazia dell’Antica Atene. Cornelius Castoriadis, più di ogni altro[i], può dirsi teorico della democrazia radicale ed ha più volte specificato che -ovviamente- nessuno si sogna di intendere quella esperienza politica come un “modello” da copia-incollare senza riguardo ai diversi contesti e tempi assai diversi. Tra i duemila e cinquecento anni di distanza ed i trentacinquemila maschi adulti con schiavi come unici detentori di diritto di cittadinanza, quindi politici, ed oggi, c’è ovviamente un abisso non colmabile. Si tratta invece di operare una “estrazione di principi”, principi poi da rielaborare e declinare nei nostri contesti e tempi ben diversi.

È quello che a modo sua fece il liberale Benjamin Constant quando si pose il problema della continuità e trasformazione della “libertà degli antichi e dei moderni” (Discorso del 1819 pubblicato e circolante poi nei successivi decenni). A modo suo ovvero oligarchico liberale. Constant, più di ogni altro, è tra coloro che hanno pervertito una antica tradizione luminosa e splendente che retro fondava lo stesso senso di orgoglio storico occidentale, orgoglio culturale storico e politico prendendo la parola e mettendoci sotto una variante in aperta contraddizione.

Democrazia radicale nasce nel 462 con la riforma di Efialte, poi ucciso, fino al 404, dentro un più ampio periodo democratico durato dal 508/7 (riforma Clistene) al 322/1 (abolizione da parte macedone). Venne interrotta da due riprese violente degli oligarchi, la sua seconda fase è detta politeia ed ha caratteri meno tumultuosi e costituzionali, ma a tratti demagogici. Tale periodo, complessivamente, sfiora i due secoli o li supera a seconda di quanto si vuole includere l’opera fondativa di Solone. La democrazia radicale ha gradi parentela con l’anarchia ma poiché è votata ad amministrare uno stato vi differisce in realtà alla radice.

Siamo quindi in riflessione per l’ambito storico-culturale europeo occidentale, non certo per altre dimensioni mondo. Ora qui non siamo in un trattato di “scienza” politica; quindi, non possiamo entrare troppo nel merito. Nel voler tentare però la consigliata “estrazione dei principi” un primo elenco dovrebbe essere: 

  1. Il sistema elettivo è ritenuto da tutti gli studiosi di storia e teoria politica proprio dell’ambiente aristocratico, non democratico. Ciò poi non vuol dire che ne è escluso l’utilizzo in via di principio, anche ad Atene c’erano cariche elette. Comunque, il sistema della delega non può -in prospettiva- essere il portante e senz’altro non l’unico.
  2. Il sistema democratico dovrebbe prevedere l’estrazione a sorte. Limitato da una serie di fattori poco noti ma già applicati ad Atene ovvero l’esame di idoneità del candidato nei demi, la sua effettiva preparazione e probità, il suo offrirsi spontaneamente ma conscio degli impegni di rendicontazione finale della sua carica e pena per gli errori più gravi eventualmente commessi, la limitazione del mandato, la sua revocabilità, la sua non ripetizione, il suo essere di servizio civile e non di carriera. L’estrazione era quindi su liste limitate, qualificate, di consapevoli dell’impegno. Solo uno stolto si priverebbe di tecnici, esperti, studiosi. Basta consultarli attivamente senza che qualche matto decida che debbano esser loro a governare per conto della loro oligarchia di riferimento. Un sistema di esperienze cumulate si può mantenere negli ambiti di governo come consiglieri senza poteri.
  3. Il sistema democratico dovrebbe essere una forma politica attiva e decisionale a vari livelli che va dal locale al nazionale secondo logiche, flussi e riporti molto più densi e complessi di quelli che ci sono nei nostri paesi. Per fare incursione nei tempi e luoghi nostri forse dovevamo abolire le regioni più che le province. Forse si sottovaluta il fatto che il “demos”, prima che la generica “cittadinanza” o “popolo”, era una precisa unità territoriale di tipo circoscrizionale. Furono le riforme di Clistene nel senso di queste unità comunitarie piccole a dare inizio alla democrazia classica ateniese (Dieci tribù, trenta trittie, 139 demi scompaginando logiche famigliari, di classe e territorio di residenza). Là si sviluppò la essenziale forma del “vis à vis” ovvero il collante sociale interpersonale, la reputazione, la fiducia, l’intesa, il rispetto anche di chi non ci assomiglia poi così tanto e tuttavia, ci piaccia o meno, è concittadino.
  4. C’è poi una questione essenziale di tipo culturale che è tanto affascinante quanto qui intrattabile. Una democrazia politica esiste se immersa in un soffice bagno morbido e pervasivo di cultura politica, cultura generale, informazione, conoscenza qualificata e diffusa, dibattito e partecipazione continuata, appassionata, eticamente doverosa. L’ambiente culturale democratico era in sincronia con la più straordinaria infiorescenza di filosofia mai registrata nei consessi umani occidentali. Teatro, lessicografia, retorica, logica, poesia, scuole dell’espressione e del ragionamento. Purtroppo, qui da noi, anche quando s’è fatta riflessione critica e dibattito su come deve essere una democrazia, lo si è fatto in logica giuridica, importante certo, ma troppo meccanica per generare effettiva democrazia in atto. Nei fatti, isonomia e filosofia nascono intrecciate. Tutto ciò era a forma diretta ed indipendente il sistema che oggi governa la rete dell’informazione alla cittadinanza, ovviamente di proprietà di capitale o di variabile maggioranza di governo.
  5. L’espressione diretta degli interessati alle decisioni politiche va ricercata in più modi ed è decisiva. Questo è una parte dell’aspetto detto “diretto” ma l’assemblearismo non spiega tutta la democrazia, nelle nostre società poi sarebbe assai difficile da perseguire come fondazione unica. I 6000 votanti medi a scrutinio segreto nell’Assemblea generale, erano un quinto gli aventi diritto, ma si esprimevano almeno quaranta volte l’anno non una ogni quattro anni. Era per altro in sistema binario col Consiglio dei Cinquecento che ne aiutava la razionalizzazione. Vasta e molto complessa però era sia la macchina delle istituzioni statali, sia il sistema politico che si esprimeva nei demi. Sulle questioni attinenti i criteri di decisione, quando unanimi, quando a maggioranza, c’è da scendere in dettaglio. Ogni partecipazione politica aveva un minimo di remunerazione per quanto poco più che simbolica. Una cosa era certa, fare politica ed amministrare la cosa pubblica era rischioso e senza profitto economico diretto o indiretto.
  6. Pur non vietando i partiti, una vera democrazia dovrebbe puntare -nel tempo- a non averne bisogno (Simon Weil). Mentre si dovrebbero fare più libere associazioni tra gente che più o meno la pensa allo stesso modo ma anche no, l’importante è tornare a discutere, approfondire, condividere. Questi gruppi omogenei relativamente c’erano anche in Atene, ma si forza la definizione a definirli propriamente partiti.
  7. Valori decisivi e fondanti sono ovviamente l’isonomia, l’isegoria, l’isocrazia (-iso, lo stesso, l’uguaglianza) la parresia. Non gli spieghiamo qui ma chi vuole se ne potrà facilmente fare una idea con una piccola ricerca. Segnalo con paressia, l’ultimo corso tenuto da Micheal Foucault al College de France, un tema di nuovo radicale, ma produttivo e concreto, sforzarci di dirci e sopportare la verità nel senso di quella che ci sembra tale.
  8. In una democrazia, la lotta di classe, la lotta ideologica, financo la sperabilmente poco probabile –stasi– (guerra civile), ogni conflitto si dovrà operare internamente, tramite i meccanismi politici e giuridici, appunto, democratici. Si fece una legge antica, prima della democrazia, che obbligava a partecipare alla guerra civile, si veniva puniti perché non si faceva la guerra civile e non per aver fatto la guerra civile! Perché non si prendeva parte, massimo insulto ai principi di comune convivenza.
  9. In pratica, democrazia è solo il regolamento della dinamica politica in un sistema sociale ordinato del politico e non dall’economico. Tutte le ideologie e le posizioni di principio, le preferenze etiche e le immagini di mondo sono invitate ad alimentarla. Discutendole e pervenendo a sintesi o anche senza sintesi, tanto alla fine si dovrà pur decidere qualcosa di determinato. Governare ed esser governati a turno, migliora dell’uno e dell’altro per via dell’immedesimazione e la doppia esperienza acquisita, bilanciando gli eccessi.
  10. Il sistema democratico ha come obbligo il cercare di ridurre costantemente le distanze tra fasce di popolazione (economiche, culturali etc.), è una società corta che oscilla intorno un “giusto mezzo” che però è equilibrio che non si raggiunge mai, pena la morte del sistema. In termini di geometria politica, se la forma del potere dell’Uno e dei Pochi è triangolare e piramidale, la democrazia è circolare e sferica.
  11. La democrazia deve avere una produzione giuridica costante, è un regime auto-istituente e deve cambiare o ritoccare o evolvere sé stessa di continuo, democraticamente. Questo stesso catalogo è solo uno dei possibili. L’unica forma legittima di democrazia sarà quella che la democrazia in atto si darà.
  12. Una piena democrazia non si raggiunge mai, è un tendere a… Essa è stesa nel tempo progressivo, si costruirà col tempo necessario. Abbiamo visto più e più volte, soprattutto con le “rivoluzioni” come comprimere il tempo del cambiamento di cose complesse porti a varie catastrofi. Non ci si può far niente con la realtà complessa, il suo tempo naturale prescinde dai nostri desideri di immediatezza semplificata.
  13. L’ostracismo ovvero l’espulsione dalla convenzione civile di chi non gioca il gioco correttamente, è forse la più antica delle pratiche punitive dei gruppi umani. Lì dove cacciare il reprobo dal gruppo, nel lungo Paleolitico, significava dargli morte certa per prevalenza della Natura. Nelle città-Stato democratiche, era la confisca dei diritti civili, fiscali, politici, giuridici, a volte la fisica cacciata fuori le mura. È la massima sanzione della comunità ed ha un alto valore simbolico.

Ciò comporta almeno altri due punti strategici rilevanti.

Il primo è la sostituzione netta e totale delle funzioni ordinative della società dall’economia alla politica. Economia, finanza, sistemi proprietari, collocazione e regolamento di mercato, altre forme economiche non di capitale verranno evoluti e decisi per prova ed errore, ma considerando che non si capisce perché li consideriamo uno alla volta e reciprocamente alternativi. Una follia per normare attività umana sociale così complessa e determinata da variabili contesti. Le forme economiche dovranno pluralizzarsi. Ma soprattutto perdere progressivamente il ruolo ordinativo, che dà ordini, che fornisce l’ordine.

La seconda è che democrazia consuma molto tempo (autoformazione continuata, acquisizione conoscenza, bagno informativo, ridistribuzione quanto più egalitaria possibile di tali acquisizioni e caratteristiche valide per ogni cittadino, capacità e facoltà di discussione e dibattito, pubblico e privato etc.) quindi i cittadini debbono averne più di quanto la formula astratta 8-8-8 neanche in vigore oggi, consenta. Del resto, oggi andiamo senza averne neanche contezza, verso una riduzione della necessità di lavoro umano, per varie altre ragioni, se ne dovrebbe fare di necessità virtù.

Ne consegue che la prima e fondamentale battaglia delle idee dovrebbe avere ad obiettivo la riduzione dell’orario di lavoro, ovviamente salvo il reddito e la facoltà di ridistribuzione dello stesso. Non importa se l’obiettivo è praticabile in concreto, va posto come battaglia culturale per infrangere la depressione acquisita dal “There is no alternative”. Ci si deve liberare dell’introiezione dei limiti di compatibilità del sistema se si vuole combattere il sistema. E si deve sfidare lo stesso sistema prevedendo ed anticipando la certa riduzione di lavoro umano quale prevedibile per lo sviluppo delle nuove tecnologie info-digitali. Così si recupera anche leadership culturale, autonomia di analisi, capacità di parlare di realtà da tutti condivisa.

Una cosa è certa o dedicate tempo a produrre e consumare o a fare politica per trasformare le società e le sue forme ordinative.

Quanto alla funzione fondamentale di dialogo e dibattito la democrazia ha a che fare con la doxa non con l’episteme. Avrebbe anche a fare con gli endoxa di Aristotele, ma non è questo il luogo per parlarne.

Se questo è il modo di intendere il termine-concetto “democrazia” restaurato per riavvio e ripristino, si capirà perché non si riconosce all’attuale forma diritto di uso della sua espressione. La cosa detta democrazia al tempo in cui il concetto è nato, non corrisponde neanche un po’ a quella attuale. Altresì quella con quei principi era democrazia per quanto agli inizi, contradditoria, elementare per molti versi, imperfetta certo. Strano atteggiamento però abbiamo verso quella forma antica eppur gloriosa, una delle cose che fa grande la nostra civiltà, la giudichiamo su un tempo-vita di scarsi due secoli, mentre alle forme del monarca e del tiranno, dell’aristocrazia e dell’oligarchia diamo la storia di cinquemila anni di varianza e varia applicazione.

[La maggior parte delle informazioni riportate su la democrazia ateniese sono tratte da Mogens Herman Hansen, La democrazia ateniese del IV secolo a.C., LED Milano 2003. Con la Costituzione degli ateniesi di scuola aristotelica, universalmente ritenuti i testi più documentati).

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La democrazia reale ha forma, dinamica e ruolo che ha il mercato in economia, un sistema auto-organizzato, l’unica forma conosciuta di sistema adattativo in complessità. Solo che l’analogia è imprecisa. Un mercato è fatto di procedure impersonali, una democrazia è fatta di essere umani intenzionali.

Essa, quindi, risulta la miglior forma per fasi storiche come queste in cui il cambiamento è radicale, continuo, profondo, inedito (non se ne ha esperienza pregressa). Dovendo rincorrere adattivamente tale mondo che corre chissà dove, l’ente auto-organizzato è l’unico che può farcela, anni di studi sulla complessità in più campi questo dicono.

Certo sappiamo quanto tempi di decisione ricattino le procedure democratiche, di contro però una democrazia reale trasmette informazione reale in diretta alle sue componenti che così aumentano coscienza di processo, accettandone meglio incertezze, contraddizioni, ritardi, non esponendosi al malcontento da delusione che ha sempre offerte di esser sanata da qualche malintenzionato politico.

Purtroppo, forme mentali ereditate dalla storia e filosofia politica del XIX secolo, arrivano fino a sognare nuove forme economiche opposte alle vigenti capitalistiche. Ma qualcuno s’è poi posto il problema di come perseguirle? Non so, c’è davvero gente che crede che col sistema repubblicano liberale, arriveranno a costruire una massa critica politica in grado di costruire quel tipo di società? Quel sistema è strutturalmente fatto per riprodurre oligarchie. Che da un macchinario oligarchico spunti fuori un sistema socialista è pensiero magico.

Il primo nostro dovere oggi dovrebbe essere ripoliticizzare la società ed il dibattito pubblico. Venendo da anni ed anni di desertificazione e degrado del politico, tocca alzare la voce ed imporre al dibattito pubblico un riorientamento, un risveglio e richiamo dalla fuga nell’impotenza. Noi non decidiamo davvero più nulla della nostra forma di vita associata, siamo soci passivi. Di contro, sembra che qualcuno pensi che da cinquemila anni di oligarchie, oplà, usando il “metodo x” dimagrisci dieci chili in una settimana, in un mese impari il mandarino, in tre sei verso il Sol dell’avvenir. Se l’alternativa è certa sempre possibile, meglio dirci in sincerità che non è dietro l’angolo. Per questo parliamo di teoria perché senza non c’è azione efficace.

I democratici radicali hanno sempre due fronti. Quello delle oligarchie imperanti e i democratici degenerati, i demagoghi. I demagoghi si travestono da democratici per benefici personali, essere leader adorati, essere eletti a qualche funzione che dà reddito e prestigio, fingersi dalla parte del popolo per poi usare il popolo per diventare oligarchi 2.0 o piccoli tiranni. Occorre evitare che inquinino le posizioni sinceramente democratiche con la loro sciatteria interessata.. Per non parlare di quelli che si limitano a sfruttare disagio psichico e povertà culturale altrui, agitando mondi di oscuri padroni del mondo per spaventare e raccogliere il riconoscimento per aver detto finalmente la tremebonda Verità. Elite, salotti, gruppi di interesse e conventicole certo esistono, si pensi solo ai massoni che le nostre democrazie accettano senza fare una piega ed anzi, qualcosa più che “accettano”. Ma si fallisce diagnosi del mondo a ridurre le sue dinamiche alle intenzioni degli ottimati, oltretutto è fargli troppo onore.

I democratici radicali non debbono ricorrere alla scusa del potere troppo forte per avere ascolto e condiscendenza delle loro richieste, le richieste non si richiedono, si pesano e per pesarle, il democratico radicale dovrà sempre rivolgersi in primis al proprio simile, costruendo massa. Oggi, in politica, abbiamo il riflesso a rivolgerci sempre in alto, ma dovremmo prima rivolgerci a chi ci sta accanto. Le masse poi sono destinate al conflitto, altro che “richieste”.

Alla fine, il problema della democrazia è tremendamente semplice. Una tendenziale eguaglianza a livello di conoscenza ed informazioni su natura e possibilità realistiche della propria società, farebbe dell’intero sociale l’unica realtà naturale che possa gestire sé stessa. Il problema è che questa semina redistributiva molto non la vogliono fare, usano conoscenza ed informazione come proprio “piccolo potere”, magari mentre si proclamano dalla parte del popolo. I tempi tra semina e raccolto vanno spesso anche oltre la singola estensione di vita personale, toccherebbe avere una narrazione che esalti l’eredità che lasciamo come in antichità c’era quella su quella su ciò che ricevevamo dagli antenati. Ci sono da superare i meccanismi di “servitù volontaria” e c’è ovviamente la strenua resistenza delle élite con mezzi straordinari. Infine, son sempre d’intralcio, le piccolezze umane.

Tuttavia, abbiamo modelli a cui riferirci, la chiesa cristiana ad esempio. Non v’è dubbio che l’unico grande teorico della politica culturale strategicamente attiva, Antonio Gramsci, trasse ispirazione diretta dall’osservazione ed analisi del complesso storico della chiesa cristiana che in Italia aveva la sua patria storica. Dalle prime predicazioni alla formazione dei primi piccoli gruppi, agli ordini mendicanti (francescani e domenicani) obbligati ad andare tra la gente ed ottenere riconoscimento, salvando così i destini della chiesa stessa ai tempi in crisi di credibilità e fiducia. A seguire le proprie scuole, l’egemonia dell’immaginario, la vicinanza pratica agli svantaggiati che catturò la fiducia, menti, cuori e braccia. Avviene anche nel mondo arabo e sudamericano. Certo, occorre accettare la dilatazione del tempo, lavorare anche non in vista del proprio tornaconto. Ma è perché pochi iniziarono a loro tempo, che ci troviamo sempre a dover riiniziare daccapo.

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Quella della democrazia radicale, non può che essere una prospettiva lunga nel tempo, da costruire per tentativi ed errori, autocorreggere, sperimentare pronti a decelerare. Ma costruire un percorso significa comunque approcciarlo, farvi primi passi, esplorarlo da subito. Il concetto di “tendere a…” dice che si deve porre sull’orizzonte che si muoverà con noi rendendosi irraggiungibile, deve essere una sorta di “desiderio irresistibile” che ci spinge a rincorrerlo e sebben mai raggiungerlo, muoversi nella sua direzione. Nel cammino però, costruiremo le sue stesse condizioni di possibilità future e le prime forme valide nel presente.

Chi scrive non immagina o sogna un partito, né un movimento politico da accendere chissà come e con chi. Si rivolge ai democratici reali, agli intellettuali più di altri, i costruttori di pensiero. C’è bisogno di azione, altro che di pensiero! Tuonano subito i pragmatici. Peccato che, come genere, ci siamo evoluti per tre milioni di anni, pensando prima di fare o non fare o anche fare e tentare ma poi pensare. C’è bisogno di pensiero ed una volta tanto, costruttivo, positivo, di esercizi di stie critico sono piene le biblioteche. Il capitalismo non lo supereremo mai per rosicchiamento critico-critico. C’è bisogno che l’intelletto torni –en meson-, in mezzo alla piazza lì dove c’è anche il mercato, lì dove c’è la gente. Alzare il livello dell’intelletto generale una priorità per tutti noi. Ognuno faccia il suo, la Via del cambiamento non ha monopoli, stiamo talmente a pezzi che vale tentarle tutte e del resto il modo “prova ed errore” tante volte ha dato dimostrazione di portare benefici. Ai poveretti amanti della matitina rossa e blu, forse converrebbe pensare alle responsabilità che hanno sul dibattito pubblico invece che fare da ammazza idee in piena sindrome nichilista, giustificatoria della propria insipienza. 

Parlando assieme anche di come porre il periodo della necessaria “lunga traversata” a tutto ciò lontano nei tempi, a servizio di un’azione immediata almeno del ripristino dei livelli minimi di democrazia, nell’informazione, nella conoscenza, nella cultura, nell’educazione civica, nel rispetto reciproco, nel ritorno della politica con idee ed aspirazioni, del dialogo. Per ripristinare la vigenza ordinativa del politico ed usare il politico per la trasformazione sociale, non abbiamo altro modo che costruirci una sistema sempre più democratico, nel reale senso del concetto.

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Nei prossimi tre decenni, le società occidentali ma in specie quelle europee, saranno chiamate a profonde trasformazioni adattative ad un contesto mondo del tutto inedito. Questo dà maggiormente il senso di questa nostra perorazione verso una democrazia reale. Ci sono infatti non sottovalutati motivi ideali di fondo, tuttavia l’urgenza è un’altra: solo un sistema autorganizzato mostra facoltà adattive veloci e complessive quali il ritmo del cambiamento imporrà. Porre come esito alternativo la barbarie, non è concessione romantica o catastrofista, è muoversi lungo l’asse ordine o disordine. Una democrazia reale è in grado di gestire un disordine moderato adattandosi ed adattandolo, altrimenti, oltre certi livelli di oscillazione, le richieste imperative di Ordine! a qualsiasi costo, ci faranno ripiombare un qualche tragedia storica quale qui in Europa abbiamo collezionato in abbondanza di casi.

Per liberarci da questa vera e propria coazione a ripetere e sbloccare la nostra evoluzione, abbiamo bisogno di ripristinare il dominio del politico ordinato da un modo democratico che porti i Molti a diretto contatto con la realtà a cui dovremo adattarci modificando le nostre forme sociali, le mentalità, il nostro essere soci naturali di una società di cui dobbiamo definire il comune interesse generale senza tutori, in maniera finalmente adulta, uscendo da servitù volontaria e infantile minorità passiva.

Invitiamo quindi i più che è possibile a considerare la trincea di DEMOCRAZIA o BARBARIE come luogo comune in cui attestarci, lo impone la fase storica come gramscianamente s’imponeva realisticamente la guerra di posizione rispetto a quella di movimento.


[i] FONDAZIONI TEORICHE DI DEMOCRAZIA RADICALE: Esistono almeno due ambiti teorici che muovono da e per questo concetto. Il primo è centrato sul pensiero del filosofo greco-francese Cornelius Castoriadis. Il secondo è una costellazione di filosofi e pensatori di politica che comprende a vario titolo Laclau-Mouffe, con intorno Zizek, Ranciere, Badiou, Negri, Hardt, Deleuze, Lacou Labarthe, Nancy, Abensour, Agamben in parte Foucault e con riferimenti al lavoro di Lacan e Deridda. La posizione di Roberto Esposito ci sembra più mediana tra le due. La nostra iniziativa di politica culturale è orientata dal primo. Il senso quindi di “democrazia radicale” nel nostro caso è semplicemente dovuto alla questione delle radici di significato. Radicale quindi poiché va alla radice in senso genealogico, poiché dovrebbe esser bene comune, non si capisce chi la immagina radicale in un senso estremo della sensibilità politica. Disputarci il senso prima di averla è il miglior modo per non averla, mai. Confesso un certo disagio teorico verso quella costellazione populista, post-moderna, idealista e talvolta platonica, psico-linguistica, a tratti confusa e astrattamente ribellista franco-italiana. Cercando radici, mi tengo il greco.

C. Castoriadis, è stato un filosofo, critico sociale, economista, psicoanalista greco-francese , autore di L’istituzione immaginaria della società (Mimesis edizioni, Milano, 2022) e co-fondatore del gruppo Socialismo o barbarie. Si segnala che, come “economista”, il greco è stato per svariati anni il capo economista (dirigendo e coordinando una squadra di 130 tra economisti, econometristi, statistici ed informatici) dell’OCSE-OECD per la Divisione degli Studi sulla Crescita. Il gruppo “Socialismo o barbarie” agì tra 1948 e 1967, con la collaborazione, tra gli altri, di Claude Lefort e Edgar Morin. Volendo continuare il suo sforzo intellettuale, pur con le nostre inadeguate ed insufficienti forze, riteniamo che oggi la trincea vada posta non sul socialismo ma sulla democrazia nel suo senso ripristinato. Per questo, fa cornice della nostra riflessione l’idea del bivio fondamentale dato da DEMOCRAZIA o BARBARIE.

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DEMOCRAZIA O BARBARIE (1/3): CRITICA DELLA DEMOCRAZIA PERVERTITA.

Le correnti democratiche nella storia

sono come il battito continuo delle onde:

si infrangono sempre contro uno scoglio,

ma vengono incessantemente sostituite da altre.

R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, 1912

Il punto centrale della comparazione tra democrazia antica e moderna è nello spirito del tempo, solo dopo nelle forme giuridiche e procedurali. Semplicemente, ciò che diede il nome alla cosa democratica ateniese e greca era lo spirito forte di un tempo che voleva portare i cittadini a governarsi da sé, senza intermediari o strati superiori. Quella moderna invece, pone una funzione intermedia tra cittadini e potere. Essa ha due caratteristiche principali, richiede una delega basata su riconoscimenti di competenza nel portare avanti le istanze delegate; quindi, punta a limitare la partecipazione politica ad un singolo atto di voto ogni quattro anni del delegante. Se la originaria democrazia attraeva la gente, la seconda la respinge. Questa seconda è di natura spettatoriale (ed infatti ormai è un cardine della società dello spettacolo), la prima mobilita scopo, intento e fine, motivazione, coinvolgimento, azione, partecipazione. Tutte cose che si vogliono evitare dal fronte oligarchico.

La prima forma, la unica ed originaria, oggi la diciamo “diretta” solo perché dopo abbiamo inventato la delegata, ma dire che la delegata merita comunque il nome di democrazia è nostro arbitrio. Cioè se si toglie l’essenza ad una cosa, quella cosa cambia sostanza o si può continuare a trattarla della stessa sostanza nonostante la si sia devitalizzata? Non importa se ci sono o meno effettive cause di forza maggiore nel doverlo fare, in sé per sé la cosa senza essenza cambia di fatto sostanza. Una democrazia delegata è una variante light della forma oligarchica, non una variante light di democrazia propriamente detta. Salta ad altra categoria come bruco a farfalla, ghiaccio ad acqua a gas.  

Al fondo di questa questione, c’è una contraddizione fondamentale. Dalla prima forma scritta di ragionamento politico in quel delle Storia di Erodoto – Dialogo dei persiani- in cui troviamo l’orazione del sostenitore del sistema oligarchico Megabizo, al contemporaneo sostenitore dell’epistocrazia Jason Brennan (Contro la democrazia, LUISS, Roma), via Anonimo oligarca, Platone e schiere indefesse di antidemocratici, l’obiezione è sempre la stessa: il popolo non sa, non è in grado di sapere, di dirigere processi complessi in vista di fini politici adeguati.

Credo questa obiezione sia corretta (sebbene l’argomento andrebbe precisato e discusso a fondo), ma noto due/tre cose. La prima è che nessuno si pone allora il problema di adeguare questo popolo incapace ad emanciparsi dalle catene della sua ignoranza, la seconda è che non si capisce se è così incapace a tenere redini politiche in salde mani, come può esserlo nel delegare con consapevolezza e ragione un terzo che ne rappresenti le istanze men che primitive. Infine, in tale modalità delegata su basi primitive, il corpo politico si troverà una disparata panoplia di istanze particolari e nessuna che converge verso l’interesse generale.

In gioco si sono due ordinatori sociali. Diciamo “ordinatori” i paradigmi di governo del sistema sociale sia quello dei valori immateriali, sia quello delle funzioni materiali. La democrazia campeggia al centro di una idea di società ordinata dal politico, quella che abbiamo che è un sistema repubblicano a governo misto (Uno-Pochi-Molti), è ordinata dall’economico. Tant’è che c’è chi non prova vergogna a chiamarla anche “democrazia di mercato”, alla festa dell’ossimoro. In gioco c’è il tempo individuale e sociale. Grandi porzioni di tempo da dedicare alla politica, in democrazia, altrettanto grandi porzioni di tempo dedicate a produrre, comprare e consumare nel caso di quella di mercato, poiché è proprio il mercato che distribuisce le carte, il gioco è quello, l’egemonia temporale sull’esistenza personale.

La delega dà la richiesta legittimità, con essa approvate le forme della vostra servitù volontaria. La date “dal basso” ad un “alto” che scegliete come? Qui torniamo alle basi di competenza. I cittadini sanno davvero quali sono i problemi o meglio le cause, come andrebbero risolti nell’interesse generale? Perché se non lo sanno (e date le penose condizioni dei sistemi formativi, informativi e ridistributivi di conoscenza attuali si può più che dubitare), non si capisce allora il quale mai sarà il contenuto delle delega stessa. Alla fine, diamo una delega vaga e non imperativa, non la controlliamo più di tanto, non possiamo revocarla, dura quattro anni.

I deleganti, nel tempo, non acquisiscono alcuna conoscenza della trama complessa dell’arte di governo e del come questa si applica alla rugosa realtà. Non ricevono informazioni da chi si dovrebbe applicare ad una qualche trasformazione del mondo, così rimangono in uno stato di vago istupidimento idealista. Lì si forma una biforcazione che porta il delegato ad un livello di ingaggio con la realtà molto complessa, il delegante invece rimane fuori della realtà politica.

Questa massa di delegati va a formare l’oligarchia che governa le leggi, il fisco, i fatti militari e polizieschi. Alcuni dovrebbero aver avuto mandato critico o di opposizione o alternativo. Nel tempo però, loro stessi, anche quelli in buonafede, si rendono conto degli errati presupposti di delega e debbono autonomamente decidere come riformularla o reinterpretarla. Tanto sembrerà sempre un tradimento. Sempre che non scelgano per interesse personale, di fregarsene dello spirito del mandato e confluire di fatto nei modi della gestione oligarchica dominante svoltando la propria vita personale con occasioni che capitano una volta sola nella vita e per i più mai.

Diventano così anche loro “classe politica” che in base a supposte competenze, si riserva un universo chiuso che tende ad automantenersi al potere. Il tradimento della delega offre in campo politico, l’arrivo di altri delegati che vendicheranno la “truffa” precedente in una coazione a ripetere di aspettative tradite, sì che il delegante, alla fine, nutrirà una sfiducia totale in questa forma di fare politico. Altresì, se i delegati che si supponevano democratici hanno tradito, c’è sempre la possibilità si offrano i delegati demagogici, finto democratici ed in realtà aspiranti oligarchici che vanno di scorciatoia.

La democrazia di mercato o liberale è una forma precisa dell’antico “regime misto” (Uno-Pochi-Molti) che sfocia nel repubblicanesimo che però cambia nome e si presenta come versione moderna e adattata della antica democrazia lì dove parola e cosa sono legati in radice piantata nella storia. Avvenne tra Stati Uniti ed Europa più o meno nello spirito culturale e politico di metà XIX secolo. Ma ci vorrà la messa in Costituzione dei sovietici del suffragio universale nel 1918 per procedere almeno a questa estensione del diritto di delega universale. Tuttavia, solo nel 1945-6 si compirà il processo anche in Francia ed Italia ed addirittura solo nel 1965 nella ex-più grande democrazia del mondo, gli Stati Uniti. Neanche un secolo.

La messa in Costituzione della democrazia liberale o di mercato e comunque “rappresentativa” era un compromesso di co-paternità delle nostre nuove società uscite dalla tempesta bellica e ideologica della prima metà del Novecento. La parte liberale, conservatrice, cristiana, popolo ma anche sue élite, mediava con la parte socialista e comunista popolare. Tuttavia, va segnalato che la tradizione socialista e comunista non sapeva nulla di democrazia, ritenuta forma ambigua di potere comunque “borghese”, a cui in genere si preferiva la speranza rivoluzionaria. Socialisti e comunisti, purtroppo, avevano deficit di conoscenza sia in politica che in economia, essendo radicalmente alternativi era anche ovvio fosse così. Alla fine, li parve pacificatore almeno accettare in qualche modo la forma repubblicana ed accettarono anche loro di chiamarla democrazia, del tutto ignari della non corrispondenza tra parola e cosa. Da allora siamo tutti obbligati a mostrare questa reverenza sacra verso il dettato costituzionale, una intera classe di giuristi la presiede con riti e simboli di alta cultura, etica e segni di garanzia di cosa ottima, fondativa, giusta. Eraclito diceva che bisognava le leggi come le mura della città e nulla è sentito più patriottico che difendere la Costituzione.

Sta il fatto che non c’è scienziato storico politico che non potrà che confermarvi che l’elezione di delegati politici è di tradizione feudale ed aristocratica. La Magna Charta (1215) racconta di queste prime assemblee baronali che si vollero mettere in dialettica col potere dell’Uno monarchico. Dopo 443 anni, sempre in quel di Inghilterra, l’assemblea dei delegati dei ceti alti sempre più attratti dal gioco economico e finanziario, fece un colpo di stato (Gloriosa rivoluzione 1688-89) contro le prerogative del monarca ed ottenne finalmente il potere primo, quello ordinativo. Da lì inizia quello che chiamiamo capitalismo moderno che equivochiamo come forma puramente economica quando è sociopolitica e culturale, via ordinatore economico che s’impossessa di uno Stato e relativa potenza (fiscale, giuridica, militare).

L’atto di delega politica avviene una volta ogni quattro anni circa, l’unico atto politico attivo richiesto da questa versione pervertita della democrazia è saltuario e dilatato molto nel tempo. Nessuno mai dai romani ai liberali ha mai rivendicato discendenza con Atene, tutti o con Sparta o più spesso con Roma. Dall’Arco di trionfo a Parigi e Capitol Hill a Washington, i simboli parlano.

Alla nuova forma con le oligarchie in mezzo al potere spesso presidenziale e con sotto il popolo delegante, corrispose la forma politica di partito. Nessun partito però è mai stato democratico, anzi, da Robert Michels con la sua “ferrea legge dell’oligarchia” a Simone Weil si mostra con chiarezza come siano stati perfetti riflessi delle forme degli apparati di governo costituzionali. In teoria, in democrazia reale, non si capisce perché un cittadino dotato di intelligenza politica in proprio debba ficcarsi in questi poco agili vagoni di consenso semi-militare in cui i capi rendono nota la “linea” politica per l’intero gruppo. Un insulto all’esercizio dell’intelligenza in proprio.

Sebbene, come abbiamo accennato, i guardiani del concetto siano ritenuti i giuristi, il concetto di democrazia reale risponde invero ad un assente gruppo di “culturalisti”, non saprei come altro chiamarli. Questo perché si ha democrazia, almeno le sue condizioni di possibilità, osservando almeno cinque fattori di sistema che nulla hanno a che fare con le leggi.

In breve, si tratta di informazione, conoscenza, dibattito, ridistribuzione e tempo. Sia che vogliate partecipare attivamente alla gestione politica della comunità nella forma di reale democrazia, sia anche per dare deleghe, è necessario avere molta informazione corretta e plurale in punto di vista, su oggetti e fenomeni su cui apporre giudizio. Questo strato sempre aggiornato di informazioni va processato da impianti di conoscenze adeguati. Gli impianti di conoscenza fanno la differenza. Il dibattito tra cittadini e non quello che cittadini passivi instupiditi dalla stanchezza lavorativa guardano fare da “esperti” tali autodefiniti o definiti dal sistema dominante, servirebbe anche a condividere, omogeneizzare e diffondere in medietà un corpo comune di informazioni e conoscenza di modo da riuscire ad esprimere l’interesse e non già quello particolare che potrete sommare quanto vi pare, senza da ciò arrivare mai a comporre il generale. Dibattere serve anche ad articolare il pensiero rendendosi conto se è logico, razionale, difendibile e non una collezione di pregiudizi, presunzioni, esagerate induzioni, emozioni. Ma per ridistribuire conoscenza, deve esserci un impegno altro alla tendenziale eguaglianza culturale, eguaglianza tendenziale certo e almeno delle possibilità. Tutta la storia dello sviluppo della scolarità di massa aveva questo intento sebbene oggi meglio sappiamo che non è solo questione di scuole. Tutto però ha una super-condizione a priori: il tempo. Se avete tempo per tutto ciò vuol dire che o non lavorate o lavorate poco, altrimenti con poco tempo rimasto dall’attività lavorativa, ognuno di questi punti sarà sotto-determinato. La quantità di tempo dice di quale ordinatore governa la società, se è politico o economico. I greci usavano la schiavitù per riservarsi il tempo per tutto ciò e quindi fare politica in proprio invece che accumulare denaro e simboli di denaro

Alcuni pongono di necessità una maggiore o tendenziale eguaglianza economica, ma è una falsa precondizione poiché se messi in condizioni di agire pienamente nel senso politico democratico provvederanno come prima cosa perseguire questa loro comprensibile necessità. E comunque una democrazia deve essere compresa tra due severi limiti di diseguaglianza economica e culturale contenuti e continuamente abbassati.

Si noti come oggi, nella democrazia liberale di mercato, di informazione e conoscenza siano monopolio delle oligarchie mentre il dibattito vis-à-vis non esiste anche perché siamo sia spoliticizzati, che de-socializzati e individualizzati. Nessuno si cura più della ridistribuzione anche perché servono fasce ignoranti per svolgere i lavori di più basso livello mentre la ritenuta “alta formazione” è costosa e il capitale culturale ha peso -a volte- anche più di quello economico e finanziario. Per altro anche l’alta formazione è solo legata alle pratiche professionali o econocratiche e comunque ha soglie di accesso.

Quanto al tempo, è dalla convenzione ILO del 1919 che è settato sulla formula 8-8-8, fatto salvo il recupero del sabato mattino qualche decennio fa. Ma di recente, la mitologia del 7/24 sta spingendo ad investire sempre più tempo nella disponibilità professionali anche grazie alle catene info-digitali. Ci nacque il movimento operaio sulla riduzione dell’orario di lavoro e sebbene andiamo incontro a spaventose e repentine scomparse di necessità di produrre direttamente come esseri umani, visto l’impeto della diffusione quali-quantitativa delle macchine elettro-digitali, nonché date le considerazioni culturaliste fatte, risulta enigmatico il fatto che nessuna intelligenza critica abbia pensato di portare il tema i dibattito o direttamente in politica. Viepiù risalendo a Marx che più e più volte nei suoi testi, indica la riduzione dell’orario di lavoro come unica ed effettiva precondizione per l’avvento del “regno della vera libertà”. Avendo potuto far quella fortunata scelta sul piano personale, non posso che confermare.

Ormai l’introiezione del quietismo politico è totale, siamo in effetti sempre più incarcerati in forma totalitarie, spoliticizzate, semi oligarchiche (anche senza “semi-“), semi autoritarie e del tutto postdemocratiche secondo giudizio comune ed esperto. Un futuro infrastrutturato sempre più dall’info-digitale, bio-psico-comportamentale promette ulteriori chiusure, controllo, manipolazione. La forma neoliberista che è una estremizzazione della tradizione liberale spinge con forza oltre ogni limite che supera di slancio i minimi ed ultimi residui di principio politico.

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Per atterrare alla storia recente, la più recente svolta anti-“democratica” avvenne a partire da complessi fatti, azioni e ragionamenti, prodotti dalle ansiose e preoccupate élite soprattutto  a partire dalla prima metà degli anni Settanta, ovviamente a partire da Washington. Il punto era presentare il primato necessario del politico come “governabilità” diciamo implicitamente, governabilità della sempre maggiore complessità economica, finanziaria, demografica, politica, sociale. Il potere politico andava aspirato in alto, in mani sicure ed esperte (lì si comincia col refrain dell’espertocrazia), la politica doveva diventare un brutto ricordo di eccessi, doveva rendersi irreperibile ed infrequentabile. Del resto, negli Ottanta, si offrirono invece a piene mani le promesse dell’edonismo individualizzato, narcisista, egoico.

Siamo alla fine del processo di de-democratizzazione, ma dispiace sottolinearlo, la biforcazione tra democrazia reale e pervertita risale alle illusioni costituzionali, al secolo che portò dal repubblicanesimo elitista al rinominarsi democratici per forme con niente sostanza. Noi, non siamo mai stati davvero democratici.

Platone, Aristotele, Polibio, Machiavelli, Bodin, Hobbes, Locke, Montesquieu, Burke, Fichte, Kant, Hegel, Stuart Mill il gotha del pensiero politico occidentale, quando non sono silenti sulla democrazia sono contrari o ferocemente contrari. Filosofi per cui il loro pensiero politico è poi intrecciato a quello più generale, dando un tono strutturale al rifiuto dell’autonomia popolare. VI ci sono accordati anche gli economisti da Pareto a Schumpeter a Hayek. Tra Spinoza e Rousseau rimane poco e talvolta confuso com’è nella tradizione comunista marxista-leninista poi definitivamente troncata da Stalin.

Per ragioni ignote, c’è lo sterminio totale delle fonti democratiche dei tempi ateniesi, una frase di Protagora, qualche discorso di Demostene, l’orazione di Pericle sempre che Tucidide (con simpatie oligarchiche) l’abbia riportata a dovere. Non ci è stato invece risparmiato l’Anonimo oligarca, Senofonte, tutto Platone ed in parte Aristotele. Nulla ci è arrivato dalle tante altre poleis democratiche greche, siciliane, delle Magna Grecia.

Hanno portato alcuni anche a scattare nel riflesso critico che constatando comunque gli errori politici della tormentata stagione della democrazia ateniese, dicono che ci sono ben evidenti ragioni per rifiutarla. Non si capisce però gli “evidenti errori”, tragedie, catastrofi, drammi, collassi riempienti la grande e sinistra piscina di sangue umano di cinquemila anni di oligarchie dove vadano conteggiati.

Queste menti semplici, ti parlano di schiavi, stranieri, donne, talassocrazia e del monarca di fatto per quanto elettivo Pericle di duemilaquattrocento anni fa come se avessero davanti uno stupido che ragiona di politica stupidamente, come loro, a “modelli”.

Da quanto abbiamo detto si tratta di riconoscere lo statuto di democrazia a quella antica esperienza storico-politica, andare ad estrarne i principi, rielaborali, provare a ripiantarli adattandoli ai nostri ben diversi paesaggi socio-storico-culturali revocando l’utilizzo del termine al repubblicanesimo delle oligarchie.

Che è poi quello che andremo a fare nel prossimo articolo dove affronteremo in positivo l’ipotesi di una democrazia radicale, alla luce della dicotomia “democrazia o barbarie” che vi fa premessa.  

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GRAMSCIANA.

Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto bisogna rimettersi tranquillamente all’opera ricominciando dall’inizio.

Io ho l’impressione che le generazioni anziane hanno rinunciato a educare le generazioni giovani e che queste commettono lo stesso errore, il clamoroso fallimento delle vecchie generazioni si riproduce tale e quale nelle generazioni che adesso sembra dominare.

Ma il cervello senza mani che avrebbe servito?

Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la vostra forza.

Bisogna combattere con vari mezzi dei quali il più importante dovrebbe essere una migliore conoscenza delle nozioni scientifiche essenziali divulgando la scienza per opera di scienziati e di studiosi seri e non più di giornalisti onni sapienti e autodidatti presuntuosi.

La realtà oggettiva è quella accettata da tutti gli uomini a prescindere da ogni specifico punto di vista.

Non è la semina regolare del frumento che ha fatto cessare il nomadismo ma viceversa le condizioni emergenti contro il nomadismo hanno spinto alla semina regolare. [Buttata lì la frasetta inverte la logica del materialismo storico]

Tutti gli uomini sono intellettuali si potrebbe dire perciò ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuale.

Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale non si può separare l’uomo Faber dall’uomo Sapiens.

Occorre persuadere molta gente che anche lo studio un mestiere e molto faticoso con un suo speciale tirocinio oltre che intellettuale anche muscolare nervoso è un processo di adattamento è un abisso acquisito con lo sforzo la noia e anche la sofferenza.

La scuola tradizionale è stata oligarchica perché è destinata alla nuova generazione dei gruppi dirigenti l’aspetto più paradossale che questo nuovo tipo di scuola appare viene predicata come democratica mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare differenze sociali ma a cristallizzarle in forme cinesi.

Sì, è vero abbiamo pubblicato articoli lunghi studi difficili e continueremo a farlo ogni qualvolta ciò sarà richiesto dall’importanza e dalla gravità degli argomenti. Ciò è nella linea del nostro programma non vogliamo nascondere nessuna difficoltà vediamo bene che la classe lavoratrice acquisti fin d’ora coscienza dell’estensione della serietà dei compiti che la incontreranno domani crediamo questo trattare i lavoratori come uomini cui si parla apertamente crudamente delle cose che li riguardano. Purtroppo, gli operai contadini sono stati considerati a lungo come dei bambini che hanno bisogno di essere guidati dappertutto in fabbrica e sul campo.

La cultura è una cosa ben diversa è organizzazione disciplina dei propri io interiore è presa di possesso della propria personalità e conquista di coscienza superiore per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico la propria funzione nella vita i propri diritti e i propri doveri.

La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.

C’è stata l’astrattezza determinata da un’intossicazione metafisica e c’è la strettezza determinata da un’intossicazione di matematica.

Se la propria individualità l’insieme di questi rapporti farsi una personalità significa acquisire coscienza di tali rapporti modificare la propria personalità significa modificare l’insieme di questi rapporti.

Vivo sono partigiano perché odio chi non parteggia odio gli indifferenti I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle versioni ristrette degli scopi immediati delle ambizioni e passioni per personali di piccoli gruppi attivi e la massa degli uomini li ignora perché non se ne preoccupa ciò che avviene non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà lascia fare lascia raggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta potrà abrogare lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.

>> Tornando a noi, in questi anni di studio ho verificato la differenza che c’è tra tempo e conoscenza.

Tempo disponibile ti porta ad entrare nei testi di cui di solito ricevi una sinossi, non solo una interpretazione, ma anche una riduzione personale ed arbitraria di questo o quell’autore o pensatore. Leviatano o Ricchezza delle nazioni o Marx intero o KdRV o Fenomenologia o l’opera di Platone o Aristotele, prendono aspetti molto diversi se assunte da terzi o in prima persona. Leggendo oggi pezzi dei Quaderni dal carcere, ad esempio, ho scoperto come il Gramsci aveva avuto un conto aperto a Sperling & Kupfer di Milano, aperto dall’amico Sraffa. Riceveva quindi tonnellate di libri e riviste che ne sollecitavano il pensiero. Il nostro, si lancia così in una argomentatissima “quistione” sul ruolo o non ruolo degli intellettuali italiani all’estero europeo e del quando, dal ‘700 secondo lui, è cessata la nostra piccola egemonia. Ma impressiona soprattutto la conoscenza che ha degli ambienti culturali: tedeschi, francesi, inglesi (lingua e religione), americani, sudamericani, islamici, arabi, indiani, cinesi, religioni e forme dello Stato asiatiche, un mondologo!

Trovatemi un intellettuale contemporaneo italiano, oggi più necessario di allora, che abbia questa apertura e curiosità e tali conoscenze. Vien quasi da considerare l’opportunità di sbatterli in carcere, così magari recuperano un po’ di etica del lavoro e perdono in narcisismo.

Da ciò solo uno squarcio sull’immenso lavoro intellettuale del nostro. Una lunga e profonda disamina del sistema scolastico del Gentile ed invece quello che sarebbe meglio mettere al suo posto, il ruolo delle Accademie, il rapporto tra Università e cittadinanza/territorio, arrivava addirittura a prevedere il sacrificio del greco e del latino da sostituire con materie altrettanto umanisticamente formanti ma meno morte (Gramsci era un glottologo, tra l’altro), ma anche le scienze dure che oggi molti ritengono l’anticristo della conoscenza. Così fino ad arrivare a dettagli impressionanti di definizione a grana fine del ruolo del giornalismo, con anche critica interna al suo ambiente militante all’approssimazione di certe formazioni traballanti, che anche oggi sarebbero di grande attualità. E non ultimo la critica dell’estetica e della confezione, del linguaggio, del veicolo stampati, un uomo marketing.

Chissà cosa avrebbe fatto oggi con Internet!

Insomma, si fa presto a dire della sua idea di egemonia, ma per capirne la potenza, c’è da scendere in un duro lavoro di dettaglio che oggi quasi nessuno è in grado di fare. Si capisce allora perché della famosa frase «Bisogna impedire a quel cervello di funzionare per almeno vent’anni» dichiarava il p.m. fascista Ingrò contro Antonio Gramsci durante il ‘‘Processone’’. Ecco cosa allarmava i fascisti, Gramsci non era solo un ideologo ma un prassologo delle idee, le dava veicoli, penetrazione, forma ed istinto aiutato alla propagazione.

Ecco perché quel: Ma il cervello senza mani che avrebbe servito?

Ed ecco anche spigato spiegato come il PCI arrivò poi nel 1976 al 34% dei voti, applicò il piano Gramsci per la conquista dei cuori e delle menti con sì, certo, azioni politiche ma armate dal pensiero e non solo quello squisitamente teorico. Ovviamente in Italia non ci sono mai stati un terzo di “comunisti”, erano cerchi concentrici che dal nucleo duro irradiava al quello della simpatia e della fiducia speranzosa in un “nuovo”. Questa è egemonia altrimenti si chiamava caserma.

Due cose quindi non riesco sempre più a capire. La prima l’ho già espressa ovvero come fanno certe persone a pensare che è meglio far decidere ad altri come deve esser fatta e cosa deve fare la loro società.

La seconda è il buco di riflessione che non fa comprendere a tanti che pure vorrebbero cambiare lo stato di cose, che loro stessi hanno quel desiderio perché sanno, sono informati, hanno strumenti culturali. Così prima di perdersi nelle paludi del soggetto, la classe, del partito, del programma, bisognerebbe che molti intellettuali convergessero nel diffondere cultura ed informazione et voilà, ecco una massa critica da mettere sul tavolo di gioco dei rapporti di forza per cambiare lo stato delle cose. Se non una “rivoluzione” culturale, almeno una evoluzione culturale deve precedere una evoluzione sociale e poi politica.

Sapere è potere non è Gramsci, è Bacone, ma va bene uguale. Va ridistribuito però.

Potrebbe essere un'immagine raffigurante occhiali

Tutte le reazioni:

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PERCHE’ SI È ARRIVATI AL NEOLIBERISMO?

Nell’enorme letteratura critica sul neoliberismo, sembra mancare l’analisi causale più basica: quali ragioni hanno portato a costruire e poi affermare questo complesso teorico e pratico dalle tante sfumature e versioni? Se definiamo il neoliberismo come la forma più estrema, tendente totalitaria del liberalismo classico, come mai compare a partire da una composizione stratificata addirittura risalente agli anni ’30 del Novecento e perché ha un salto di impeto a partire dagli anni ’70? A leggere certe analisi pochi anni fa sembrava che i capitalisti fossero stati rapiti da una inusuale epidemia di voracità insaziabile. Infatti prima si accontentavano…

Ecco una fotografia di macroeconomia storica da cui partire:

Fonte: World Bank database, indici di crescita Pil annuo, Paesi OCSE-OECD

Si tratta dell’andamento tendenziale della crescita del Pil nei paesi OCSE-OECD tra 1960 e 2020. Si noterà che tende a scendere. La crescita, condizione sine qua non del sistema capitalistico, tende a decrescere in tendenza inequivoca negli ultimi settanta anni. Un bel problema.

Perché tende a decrescere? L’impressione è che il complesso teorico che armeggia introno questi argomenti, a volte tende a perdere il buonsenso materiale che fa da sottostante l’economia reale. Una ragione di questa tendenza allarmante, l’ha proposta uno economista storico americano, R. J. Gordon (Northwestern University), secondo il quale, le rivoluzioni tecniche e scientifiche di fine Ottocento e primi Novecento, non hanno avuto replica nella seconda metà del Novecento stesso ed ancora fino ad oggi.

Fa eccezione ovviamente la rivoluzione info-digitale a cui oggi si tenta di porre attorno quella bio-cogno-info-digitale (NBIC). Rilevante, importante, ma quando si vanno a mettere i numeri reali sotto, ben meno di quanto solitamente riteniamo. Ricca anche di contraddizioni interne poiché cresce anche per cannibalica incorporazione di attività che già contribuivano a Pil e crescita. Inoltre, distruggendo lavoro umano deprime potere d’acquisto stante che le cose che vendi qualcuno deve pur comprarle per chiudere il cerchio e far lievitare la torta.

Si tratterebbe di tornare alla storia della realtà in luogo dell’analisi economica astratta. Questa ha depositato la strana convinzione che il sistema capitalistico fosse una specie di sistema motore immobile, senza materia e senza storia, una metafisica. Invece è dipendente da materia ed energia ed è storico. Così, se tra fine Ottocento e primi Novecento tra termodinamica, elettricità, telecomunicazioni, chimica, meccanica quantistica, è stata festa grande, non era detto -ed infatti così è stato- che anche nei decenni successivi la festa di scoperte da convertire in cose da convertire in lavoro-ricchezza, fosse garantito. Semplicemente siamo a curva logistica con coda lunga di fenomeno storico che ha già dato il meglio di sé. Un brillante futuro alle spalle.

Senza crescita, il sistema deperisce, dà meno dividendi, mostra disordine riflesso nelle società ordinate dal paradigma economico produttivo-consumistico a base mercato, perde la sua stessa funzione ordinativa. Le nazioni che vi si riferivano con maggior convinzione perdono potenza relativa. Non è tanto che il capitalismo sta finendo il suo ciclo o meglio si avvia a questa fine, ma ha solo terminato il suo compito storico di sfruttamento ed accompagno uno sviluppo inusuale ed per quanto significativo, al momento irripetibile. E’ naturale finisca essendo forma storica dipendente dal mondo reale e concreto, finito e limitato anch’esso.

Si ricordi a libera memoria l’elenco di nuovi prodotti e servizi degli ultimi settanta anni sempre però avendo conoscenza almeno storica e documentale dei precedenti settanta. Le innovazioni sono davvero scarse in numero e qualità. Qualche corso di yoga e vari servii creativi, macchinette elettroniche per passatempo e poi Internet ovvero passatempo gigante, la televisione 3D, i monopattini elettrici, qualche razzo nello spazio vicino, uno o due robot che fanno le capriole, servizi-servizi-servizi spesso inutili e forzati. Rispetto a macchine, aerei, treni, navi, motori, energia fossile, agenti chimici, elettrificazione, acqua corrente, nuovi materiali, televisione, radio, giradischi, lavatrici, rivoluzioni medico-sanitarie etc etc. non c’è partita.

Dopo il simpatico professore della Northwestern Columbia, una specie di menagramo col quale hanno provato a fare i conti in molti senza trovare totali finali diversi, TED consiglia in vena di par conditio, di sentire l’altra campana ovvero l’entusiasta Erik Brynjolfsson (Stanford University. Stanford è il cuore accademico storico della rivoluzione A.I., a suo tempo finanziato da ARPA/Pentagono come SRI), convinto che la festa si può rilanciare con l’immateriale mentale info-digitale conditi da ottimismo. Ottimismo? Il professore forse non ha mai preso un bilancio d’azienda in mano, numeri, più-numeri meno=saldo, l’ottimismo non è in equazione. Si rimane basiti dalla leggerezza di questo speach, un misto di speranze con induzione al limite dell’impossibilità. Questi opinion leader hanno in genere partecipazioni azionarie ad imprese del loro campo, per questo diventano piazzisti e vanno in conflitto di interessi. Furono gli inglesi, gente poco incline alla metafisica e parecchio incline alla fisica, a porre ai primi del Seicento il problema di numerare-pesare-misurare i fenomeni prima di partire in quarta a chiacchierare. Il professore di Stanford l’ha fatto? Gli si è alzata la curva della crescita? Pare di no, ripeto, se andate a percentualizzare il contributo dell’immateriale al Pil americano vedrete che la massa critica dell’economia è ancora ben saldamente materiale. Tra l’intera dilatazione banco-finanza e la c.d. ICT siamo ad occhio siamo sotto meno il 20% del totale. In Francia, Germania ed UK molto meno. Sembra più speranza del tipo “religione del cargo” o convention motivazionale. I riferimenti ironici a Gordon poi sono molto più da polemica da bar sport che confronto accademico.

Nel frattempo, sono incappato in un libro che a proposito del ns Gordon, dice che ricerca per altro della stessa Stanford 2020 conferma che l’efficienza con cui i ricercatori americani generano innovazioni si dimezza ogni 13 anni! Poi c’è il lamento sul fatto che non è diventato sempre più raro inventare nuovi farmaci e molecole chimiche a vario uso (M. Ford, Il dominio dei robot, Il Saggiatore, Milano, 2022). Il riconoscimento facciale non dei WASP arranca, auto e camion a guida autonoma peggio, robot domestici tipo Jetson scordateveli. Meglio il militare, il sanitario, l’alimentare, la gestione magazzino Amazon&Co. È storia che la ricerca e sviluppo dell’A.I. dopo sbornie di eccitazione ottimista contagiata tra commerciali, finanziari startuppisti, e militari, arrivano regolari cicli di delusione conosciuti come “inverni A.I.”. Insomma, Brynjolfsson ha ottimismo ma non della ragione.

Gordon nella sua presentazione fa dell’ironia:

Poiché gli economisti, specie i tra i più astratti che abbondano, non hanno preparazione MIT-disciplinare (multi-inter-trans), se vi fate quattro passi nella scienza, cosa vedete? In fisica nulla della seconda metà del Novecento è paragonabile alla doppia rivoluzione quanto-relativistica. In chimica viviamo di rendita della tavola di Mendeleev. In biologia c’è stato effettivamente un boom da Watson-Crick ed il DNA in poi, ma a numeri, di nuovo, siamo a piani incomparabili. In piena infiorescenza invece le Scienze Cognitive, ma siamo agli esordi. Molti, troppi dati e poca teoria generale, nuovi paradigmi. Ti puoi attaccare strutturalmente al problema climatico (quello ambientale anche più urgente e necessario andrebbe in conflitto con le logiche del capitale) ed usarlo per farci qualche soldo, ma siamo a ben poca cosa se numerate-pesate-misurate il fenomeno.

Chi invece si trova davvero sulla rampa di lancio per brillanti futuri è la parte del mondo non OCSE-OECD, destinato a replicare lo sviluppo dei primi con ampie condizioni di possibilità davanti, tranne i limiti delle materie prime, le cautele eco-climatiche, i contraccolpi geopolitici. Ma questo sviluppo di una parte è anche contrazione dell’altra, la nostra, che come detto ha già i suoi problemi strutturali e di dinamica storica.

Ecco allora che la famiglia dei neoliberismi (tedesco e primo americano dai contenuti più pratici prima della Seconda guerra ed a seguito il collasso del ‘29, austriaco e di Chicago dai contenuti più ideologici dopo) sorge come raschiamento del barile, la messa in moto di tutti i fattori, lo stress totale del sistema, l’ultima raccolta, la mobilitazione integrale e sempre più intensiva dell’intero mondo umano che gli è sottoposto e sottoponibile. Controllando ora sempre più gli Stati, l’intera società, diventa un incubo neoliberale, un frantoio di spremitura di valore da tutti i pori degli individui, delle società, degli stati, degli individui. In effetti, era questa -in parte- la tesi anche di W. Streeck, Max Planck Institute di Colonia, nel suo “Tempo guadagnato” Feltrinelli, 2013.

La wave neoliberista venne premessa con la decisione di Nixon di passare al denaro metafisico nel 1971, ne è stata la precondizione poiché da lì in poi il valore diventava finanziario e non più produttivo. Tre anni ed il principe dei teorici politici, S. Huntington, presenta il nuovo concetto di “governance”, la nuova priorità con la quale la politica doveva triangolare con finanza ed economia neoliberale, questi oligarchici hanno la fissa dei triangoli e delle piramidi da Pitagora e Platone. La governance necessaria ed invocata a gran voce per far funzionare il sistema doveva prendere il posto della democrazia per quanto versione elementare post-bellica. A quel punto si poteva anche lasciare la produzione al resto del mondo (oddio non c’era alternativa nella logica del sistema) e specularci sopra come mostra l’elefante di Milanovic. Questa, in essenza, la globalizzazione: asiatici in crescita, occidentali in decrescita infelice, pochissimi occidentali con capitali che hanno scommesso sulla crescita del Resto del mondo, diventati una inarrivabile super-élite.

Così l’Occidente si trova ora con la società più diseguale degli ultimi secoli, vessata da una gabbia d’acciaio neoliberista che ne devasta il tessuto sociale e lo stesso equilibrio mentale individuale e l’impossibilità sia di pensare una alternativa, sia di pensare un futuro.

Per pensare al futuro che tanto ci sarà neoliberismo e capitalismo o meno, toccherebbe fare una capriola gestaltica ovvero rovesciare la forma mentale, poi quella sociale. Sono queste le fasi che chiamano le rivoluzioni di paradigma à la Khun. Tra le immaginabili, togliere la funzione ordinativa alle nostre società della funzione economica e darla a quella politica, democratica reale. Ma molti fanno fatica a concepire realtà e tempo, s’immaginano che il mondo vada ad interruttori, vorrebbero uscire dallo stato delle cose degli ultimi almeno due secoli come si cambia vestito, con un “oplà!”. Niente salto quantico, mi dispiace, quello che abbiamo davanti è titolabile: la Grande Transizione. Molti soffrono ora, vorrebbero soluzioni ora, c’è il rischio che quando capiranno che “nei tempi lunghi siamo tutti morti”, non sentiranno proprio alcun progetto di cambiamento profondo. Tuttavia, realismo vuole che sia così.

Abbiamo davanti almeno tre decenni almeno di attraversamento trasformativo con, da una parte il moto reale e concreto che subiremo e dall’altra la possibilità di sviluppare complessi di pensiero ed azione politica e sociale che potrebbero aiutarci a gestire il passaggio facendolo diventare una uscita felice da un collasso storico al motto di “Democrazia o barbarie!”.

A volte, capita che finisci col nascere ai tempi della Peste Nera, della Rivoluzione industriale, tra due guerre mondiali, che ci vuoi fare? A noi è toccata in sorte la Grande Transizione, subirla o farci il surf?

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DAI BORDI DELLE GALASSIA.

C’è una teoria di cui lessi ma di cui ho perso i riferimenti teorici pratici, in linguistica, per la quale le novità del lessico e delle grammatiche che poi danno vita a pidgin e creolizzazione, provengono dalla periferia verso il centro dei sistemi. Così sembra avvenga anche per le immagini di mondo, le idee che vanno a formare cambi di paradigma e nuove architettoniche del pensiero.

Prendiamo l’immagine di mondo alternativo-critica al dominio capitalista. Qui troviamo Karl Polany, Fernando Braudel ed Immanuel Wallerstein, Gramsci forse e Lukacs, Robert Kurz ed il gruppo tedesco Krisis da altri. Visto che il centro della galassia è da tempo collassata nel suo buco nero, auto-inghiottendosi, sarà il caso di vedere se quelli ai margini possono dare una mano e ripopolare lo spazio vuoto, il cui vuoto angoscia.

Kurz l’ho letto pochi giorni fa, in “La dittatura del tempo astratto” in Manifesto contro il lavoro, Mimesis, Milano, 2023, promosso anche dal collettivo de L’anatra di Vaucanson di Cerea-Frola-Maggini. Lampo!

Kurz attacca con la constatazione dello stato schizoide di tanto mondo teorico dal mondo pratico. Il punto è dirimente. Chi scrive da più di venti anni conduce attività di ricerca indipendente sia dal lavoro, sia da padrini o padroni di pensiero e non esiti economici del suo “lavoro”. Ma per altri ventitré ha lavorato, come chiunque. Da cui shock da sveglia (per il mio bioequilibrio una vera tortura protratta per ore di dolore psico-fisico nel dover deambulare, parlare, guardare sebbene con la mia tipica faccia disgustata e dietro spesse lenti scure anche in interni fino a mezzogiorno), fretta, traffico, lavoro, pausa, lavoro, traffico, casa, stanchezza, sonno. Per diciamo il 40% del tempo di vita, 60% di veglia. Quando mi sono liberato da questo prigione temporale, per anni ho avuto incubi notturni di “non ce la faccio”, “non ho tempo”, “sono fuori tempo massimo”. Non essendo nato ricco, avevo iniziato come fattorino, l’ultimo gradino della scala professionale con tutto il peso dei vari “comandanti” sopra, un punto di vista privilegiato sulla miseria esistenziale e caratteriale umana.

Così, quando ho letto Hegel e poi Marx, Engels e tanti pensatori dell’umano che esaltavano la realizzazione di piena umanità nel lavorare, ho subito capito che questa gente non aveva mai davvero lavorato sul serio, nel senso della gente comune. Così quelli della “piena occupazione”, economisti sociali, adoratori di operai e contadini mattutini se non notturni. Kurz, ad un certo punto, cita la violenza delle luci al neon in interni per farti stare sveglio in orari da sonno, solo chi ha provato quel senso di nausea allo stomaco e di profonda angoscia à la Hopper, capirà di cosa stiamo parlando. Si vede che Kurz ha lavorato, io pure, i teorici dell’esaltazione emancipatrice del lavoro no.

Ne consegue il problema del punto di vista. Se teorico-pratico o pratico-teorico. Il primo tende all’astratto, il secondo al concreto. E Kurz, grazie a dio, è tra i concreti come lo sono molti storici e non lo sono molti economisti. Entusiasmante la sua ricostruzione del volgere il lavoro, da sempre condanna umana vissuta come tale per millenni, in virtù, alla transizione tra medioevo e moderno. Anche perché parte da un fenomeno poco considerato, la fame di armi dell’aristocrazia e poi della monarchia assolutista. Gli aristocratici erano i barbari centro-orientali poi ristanzializzati nell’ex Impero Romano che tramite conversioni benedette dalle gerarchie della Chiesa, diventarono tali definiti da dio con cui i religiosi avevano confidenza. Tra cui quegli anglosassoni la cui antropologia fatta di libertà e priva di polis, è il nocciolo duro del sistema capitalistico moderno. Il tutto anticipato dalla regola benedettina e la severa disciplina dei monasteri della classe religiosa, serva di dio per scelta.

Da lì ne viene fiori la spaventosa dilatazione del lavoro non più finalizzato ai bisogni primari, ma ad una nuvola di secondari poi esplosi secondo le piramidi di Maslow, la teoria della casse agiata, il consumo esibitivo, il consumismo, l’usa e getta, pubblicità e marketing, Hollywood modelli insensati di pseudo- vita, tutto lavoro “astratto” secondo Marx, finalizzato a sostenere la riproduzione del capitale, la distribuzione del reddito del gioco sociale, tenere la struttura sociale occupata a capo chino di modo che non ci sia altro orizzonte che produrre, consumare, crepare. Oggi anche con evidenti impatti negativi ambientali, climatici, geopolitici, di de-significazione sociale e financo depressione personale. E il bello è che il gioco è talmente introiettato da molti, che quando gli vai a domandare perché non considerare una progressiva riduzione dell’orario di lavoro, vedi letteralmente il panico negli occhi terrorizzati!

E bene fanno i contro-lavoristi a ricordare quanta violenza fu necessaria per far innamorare gli esseri umani dell’aborrita fatica. Molti racconti di servi e schiavi non europei confermano che i loro padroni si trovarono in primis, proprio col problema dell’insegnare con la frusta a lavorare, al semplice lavorare concentrato per lungo tempo, continuativamente e senza riposo, pause, ozio, socialità ristoratrice, umanità. In Europa invece il protestante allevato in ambiente freddo e con poco Sole, non faceva fatica a concentrarsi sulla sua ricerca del segno di grazia divina ovvero il successo da lavoro, impegno, insistenza, abnegazione, ossessione. Si parte dagli studi di Marshall Shalins sul tempo di “lavoro” dei paleolitici al conto delle feste medievali, all’ovvia reazione dei luddisti fatti passare per primitivi pazzi, per ricordare il quando non avevamo ancora perso il lume della ragione umana.

Il ragionamento continua in “Il superamento del lavoro” (1999) con N. Trenkle, un pieno di buonsenso che magari passa pure per eccessivamente radicale per chi è catturato dal lavorismo redentore con espiazione del peccato originale e sudore della fronte, segno mistico della colpa che giustifica la punizione alla servitù a questo punto volontaria.

Infine, il Manifesto continua a spargere le sue onde venti anni dopo, sino a noi, qui in pieno delirio neoliberista a fare da “capitale umano”!

La questione, tra l’altro, si collega al problema per il quale la rivoluzione info-digitale, secondo alcuni porterà una immane distruzione di ore lavoro-umano mentre altri ci rassicurano che altri lavori compariranno. Questi fanno fede sul passaggio Otto-Novecento in cui la prima meccanizzazione porto a distruzione creatrice ma poi a nuovo slancio produttivo, una base sola per far da trampolini ad una induzione un po’ spericolata, roba da calcolo della probabilità su base caso unico.

Sta di fatto che se aprite uno smartphone, trovate dentro ridotta a software con interfaccia app: una edicola, giornalisti ormai superflui, tipografi, produttori di carta, camionisti, produttori di macchine fotografiche, rullini, stampatori, produttori di riproduttori audio, vinili, nastri, stereo8, vari formati di video e relativi supporti tra cui nastri, cd, blu-ray, distributori, negozianti, progettisti, pubblicitari, uomini e donne marketing, amministrativi, legali, giocattolai, cartografi, e se poi andate in ambiente web, la qualunque. Un esercito di lavoratori cancellati di assai incerto riciclo. Del resto, se l’info-digitale non offrisse quale suo vantaggio la drastica riduzione del costo del lavoro, non avrebbe certo decollato. Costo, gestione militare delle prestazioni di cose senza la complessità umana, standard, gestione macchina da remoto che quasi allo stesso prezzo hardware ti darà sempre più spazio e potenza di performance secondo la regola di Moore. Con un debole saldo positivo di programmatori e friggitori di hamburger per pausa pranzo, nerd da start up, bambini del Congo che scavano nel fango per i minerali, il complesso militare industriale che protegge le miniere o cerca di impossessarsi delle altrui, qualche analista finanziario e pusher.  Ma vedrai che come morti i cavalli comparirono i taxi, anche questa volta ci inventeremo qualcosa per faticare comunque. Auspicio da tossici.

Naturalmente il minor lavoro residuo potrà e dovrà esser condiviso realizzando così anche una migliore condizione comune. Abbassare le diseguaglianze che il grande big bang info-digitale sta creando con feedback accrescitivi spaventosi. I profitti degli aumenti di produttività sono stati espropriati e non condivisi coi produttori. Posti di lavoro persi cioè reddito che tra l’altro la stupidità umana affascinata dall’intelligenza artificiale, non sembra intendere quanto potere d’acquisto sottragga minando l’equilibrio stesso della pur scombinata macchina capitalistica. Si perla di fino ad un terzo dei lavoratori americani da qui al 2050 persi e non riciclabili. Più i sottoccupati, i flessibili, quelli a chiamata di progetto. Ecco il perché sono proprio le frotte di imprenditori info-digitali battersi affinché si diano soldi con gli elicotteri.

Tutto il discorso rimane al di qua del segmento politico anche se si capisce che se il movimento dei lavoratori, per ovvia missione ontologica, presidiando la metà del sistema binario centrale lavoro-capitale intorno a cui c’è il sistema capitalistico, tutto sarà men che il motore della emancipazione dal sistema stesso. Questo inficia buona parte delle velleità di trasformazione del reale del marxismo. Né si è mai capito davvero perché molti di quell’area, tra l’altro e per lo più borghesi, abbiamo pensato fosse il proletariato la “classe” in grado di redimere tutti gli altri.

L’analisi, la prognosi, vanno invece a confluire naturalmente nello sviluppo di un progetto di lunga durata di sviluppo di una democrazia reale ovvero non quella liberale o di mercato che tale ci ostiniamo a chiamare dando prestigio ad un sistema, di fatto, di categoria oligarchica. Il sistema storico che chiamiamo “capitalista” è stratificato e complesso e andrà smontato molecola per molecola gestendo le sue crisi, sia quella che sempre più incontrerà nella Grande Transizione, sia quella ontologica che noi stessi vorremmo infliggergli sempre che non se la stia infliggendo da solo. La crisi da Grande Transizione è quella che segna l’evidente contrazione dell’areale atlantico-europeo, in cui s’era deciso da tempo di abbandonare l’economia materiale per involarsi nel piano finanziario a base dollaro fiat, già dal 1971. E’ una lunga linea che tende in basso quella delle percentuali decrescenti di Pil annuo dal 1960 ad oggi, dati World Bank. In tale movimento di contrazione, andrà posta la crisi della funzione ordinativa sociale del lavoro, crisi che anche al netto di volontà ed intenzionalità politica, si sta manifestando strutturalmente per fine ciclo vita storica del modo capitalistico.

Lavoratori di tutto il mondo, adesso basta! È più che una battuta, anche limitandolo a noi occidentali. C’è da ostracizzare l’homo oeconomicus che ha invaso il demos e ritornare ad essere homo politicus che torna all’agorà ed assieme ai suoi simili si mette finalmente a costruire una società umana in cui comandare ed esser comandati per dovere di servizio mentre ognuno cerca la sua posizione sociale con libertà, sincronia, creatività e passione civile. Idee arruolabili per la nostra ultima trincea di Democrazia o barbarie.

Sì, questo asteroide può servire eccome a ripopolare la nostra zona protoplanetaria inghiottita dal collasso gravitazionale che investe il nostro spazio geo-storico, pratico e teorico. Togliere tempo alla produzione delle nostre catene, darlo alla ferramenta politica democratica che ci aiuterà a liberarcene.

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DEMOCRAZIA O BARBARIE.

Buon libro questo della Brown. In particolare, mi piace il suo linguaggio, pulito, chiaro, attinente al discorso e poco indulgente allo svolazzo.

E mi piace o meglio riscontro, la sua struttura del discorso. Purtroppo, una buona parte del testo è dedicata alla analisi ravvicinata, simpatetica ma spesso critica, della famosa lezione di M. Foucault su Biopolitica al College de France 1978-79 (un caso di prescienza), nel quale però il francese -per primo-, individuò il nucleo inquietante di ciò che poi abbiamo imparato a conoscere come neoliberismo. Invero MF, individua un neoliberismo particolare, la versione sociale tedesca, ma lasciamo perdere. Brown gli fa le pulci e spesso coglie nel segno.

In sostanza, Brown individua una lotta ordinativa fondamentale per determinare il governo della società. L’ordinatore economico in versione estremista neoliberista o l’ordinatore politico in versione naturale quindi democratica. Homo oeconomicus vs Homo politicus. Tempo speso a lavorare e consumare, tempo speso ad interessarsi della gestione comune della società di cui siamo soci naturali.

Evita di entrare nei maggiori dettagli della versione democratica c.d. “diretta” o “delegata”, ma ribadisce che l’opposto del neoliberismo non è il socialismo o altra forma economica ma il ritorno del primato politico basato sulla prima persona.

Io non capisco perché nessuno mai ammetterebbe che la gestione di sé stessi sarebbe meglio affidarla ad altri, ma quando si parla si società non ha problemi invece a dirlo o sostenerlo convinto pure. Mi manda ai matti, non riesco proprio a capirne la logica.

A meno di non tornare al candore giovanile di chi, tra 18 e 22 anni, capì che c’è della volontarietà alla servitù e lo capì nel ‘500, Etienne de La Boétie. Si tratta allora non solo di una logica, ma anche di un sentimento umano. Lo stessa che faceva un po’ perdere il suo aplomb prussiano anche a Kant:

[Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? 1783] >>Pigrizia e viltà sono le cause per le quali tanta parte degli esseri umani, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dall’altrui guida (naturaliter maiorennes), rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per questo riesce tanto facile ad altri erigersi a loro tutori. È così comodo essere minorenni! Se ho un libro che ha intelletto per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me, ecc., non ho certo bisogno di sforzarmi da me. Non ho bisogno di pensare, purché sia in grado di pagare: altri si assumeranno questa fastidiosa occupazione al mio posto. A far sì che la stragrande maggioranza degli esseri umani (e fra questi tutto il gentil sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, si preoccupano già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza su di loro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste placide creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno ingabbiate, in un secondo tempo descrivono a esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora, tale pericolo non è poi così grande, poiché, con qualche caduta, essi alla fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo tipo rende tuttavia timorosi e, di solito, distoglie da ogni ulteriore tentativo.<<

La messa a lucido della dicotomia: società ordinata dall’economico o dal politico? della Brown, porterebbe dritto-dritto a riformulare il titolo del famoso opuscolo della Rosa Luxemburg che per altro l’aveva tratto da Engels, nei Junius pamphlet, Chapter 1 – 1916, The crisis in the German social democracy. Non socialismo ma democrazia o barbarie.

L’ideologia può confondere e portare a pensare che l’opposto di una forma economica, sia un’altra forma economica. Con il capitalismo, peggio ancora col neoliberismo, non abbiamo solo una forma economica ma economico-politica-sociale e culturale ordinativa l’intera società con i comportamenti umani dentro.

L’opposto allora non è lo specchiato contrario economico ma nello specchiato contrario rovesciato, l’ordinatore economico vs quello politico. Tra l’altro non si capisce come coloro che invece pensano l’alternativa sia una forma economica pensino di praticarla se non declinandola in una precisa azione politica sulla cui metrica c’è mistero vago (Rivoluzione? Discesa dal Cielo? Elezioni di democrazia liberale con partitone che fa il 70% dei voti ed il giorno dopo dichiara il sorgere il Sol dell’avvenire? Ci libera un cavaliere bianco euroasiatico? Un Attila benevolo? Un Gengis Khan vestito da Winnie te Pooh socialista?).

Del resto, la linea capitalismo-neoliberismo è cultura barbara nel senso storico-antropologico delle antiche tribù degli angli e dei sassoni, gente libera senza città ed immersa nella natura avara e matrigna, senza poleis, non avvezze alla politica ed al conflitto di parola, ma a quello dello sventramento, squartamento, della barbarie, appunto. Trattasi del fatidico “scontro di civiltà” o tra “civiltà ed inciviltà”.

E qual è il simmetrico contrario del farsi ordinare dalla metrica economica se non ordinarsi in prima persona secondo la metrica politica? E qual è l’unica metrica politica che prevede la prima persona se non la democrazia? Ecco, quindi, la deduzione della categoria fondamentale del politico oggi: democrazia o barbarie, autonomia vs eteronomia.

Dovremmo proporlo come obiettivo di casa o cosa comune a tutti i dispersi critici, qualcosa su cui non possiamo che non esser d’accordo. Avremo poi tanti altri disparati fini ultimi, ma senza lo strumento per perseguirli, è inutile anche solo prenderli in considerazione, il mezzo viene prima.

E chi altro se non noi latino-mediterranei può calarsi naturalmente in questa battaglia epocale visto che poleis, politica e filosofia l’abbiamo inventata noi dalla nostra condizione geo-antropologica e culturale? Sembrerà strano a molti, ma o hai Aristotele nelle fondamenta dell’immagine di mondo o non ce l’hai ed hai solo Platone.

Dico Aristotele per dire incarnazione di un pezzo di tradizione e cultura umano sociale. Infatti, se studiate storia dei sistemi di idee (che poi era il nome dei corsi dell’archivista Foucault), scoprirete che Aristotele non arrivò mai in Inghilterra, non venne mai tradotto ed assunto, solo ostracizzato e vilipeso per le sue idee astronomiche (oddio, più che tutte sue degli scolastici parigini coi quali c’era odio da parte inglese). Arrivò e tanto Platone, sembrerà strano visto che uno è portato a pensare che gli inglesi siano dei pragmatici, ma sebbene effettivamente lo siano, altrettanto sono pitagorico-platonici con derive mistiche vedi Newton

Magari si può fare una pensata in comune di iniziativa politica e culturale di ispirazione attiva gramsciana, di questo posizionamento concettuale: DEMOCRAZIA o BARBARIE? Mi sembra una utile ultima trincea su cui appostarsi per la “guerra di posizione”. Mancano miei due lunghi articoli già scritti e da pubblicare nei prossimi giorni per chiarire meglio termini e contesti di analisi. Vedremo se si riesce a far del movimento mentale, lasciando il girello ed alzandosi sulle proprie gambe.

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Stralci da Brown (corretti con un po’ di Fagan):“…il neoliberismo, una forza peculiare di ragione che configura tutti gli aspetti dell’esistenza in termini economici, sta disfacendo elementi basilari della democrazia tra essi troviamo lessici, principi di giustizia, culture politiche, abitudini di cittadinanza, pratiche di governo e soprattutto immaginari democratici. La democrazia è rimpiazzata dalla plutocrazia il governo dei e per i ricchi che sta convertendo il carattere, il significato e il funzionamento degli elementi costitutivi della democrazia chiaramente politici in aspetti economici.” Non abbiamo più neanche “le parole per dirlo”.

“La democrazia che si dice sociale o liberale o repubblicana o rappresentativa o autoritaria o libertaria o anarchica o diretta o partecipativa o deliberativa o plebiscitaria o socialista andrebbe detta solo democrazia poiché è sistema a disposizione di ogni esito politico o interpretativo prevarrà o deciderà di darsi, ma che non può esser premesso pena il suo pervertimento funzionale.

“Oggi qualsiasi stato non allineato qualsiasi regime persegua un’altra strada si ritrova a fronteggiare crisi fiscali, downgrade credito, della valuta reti dei titoli, delegittimazione, bancarotta dissoluzione e fallimento nei casi più estremi.”

“Le università europee e nordamericane sono state trasformate in centri di formazione del libero mercato che produca valore di diseguaglianza intensificata, mercificazione e commercio, con influsso crescente delle Corporation sul loro stesso autogoverno accademico, in un vero processo di economizzazione. I cittadini sono diventati produttori, venditori, imprenditori, consumatori, e investitori. L’uomo economicus ha sterminato l’uomo politucus. Scompare il lavoratore e la sua forma collettiva cioè la sua classe, scompare ogni bene comune, il neoliberismo genera una condizione di politica privata e non più pubblica.”

Mancano istituzioni democratiche che sosterrebbero una cittadinanza democratica e di tutto ciò che nel migliore dei casi questa cittadinanza rappresenta una passione informata un dibattito rispettoso, una sovranità ambiziosa, un deciso contenimento dei poteri.”

“La “governance” rielabora la politica come sfera di gestione o amministrazione e l’ambito pubblico come un campo di strategie tecniche e procedure attraverso cui gruppi diversi tentano di rendere realizzabili i loro programmi. Le “best practice” sono i modelli cui tocca adeguarsi, il” benchmarking” fa da classifica di conformità. Tutto deve essere misurabile per ricevere investimento finanziario in cerca di riproduzione.” Misurano tutto, affogano nei dati, sognano il controllo comportamentale panottico in una versione rosa del totalitarismo, sì ma “liberale”.

“Anche il giuridico dà attivamente forma all’economico e naturalmente anche il militare. Tutto questo converge e rinforza la funzione ordinativa economica della società civile. Tutto deve diventare economico fondato sull’unità metodologica ovvero il “capitale umano”. (Rispetto la tradizione storica, questa volta il religioso s’è messo di traverso, citofonare al gesuita).

“Il capitale umano a cui è impossibile comprendere i problemi che devono affrontare i cittadini che così non possono anche solo scegliere con attenzione i loro rappresentanti o votare nei referendum o ancor meno partecipare a pratiche più dirette di governo condiviso. Il capitale umano è costretto a investire su sé stesso per contribuire la sua crescita o quantomeno evitare il suo deprezzamento e per farlo bisogna titolare gli input come l’istruzione, predire, adattarsi ai cambiamenti di mercato per le professioni, adattare l’alloggio la salute e la pensione e organizzare la vita sentimentale l’accoppiamento e le pratiche creative, il tempo libero, in modo da aumentare il valore. Il capitale umano decisamente non si preoccupa di acquisire la conoscenza e l’esperienza necessaria per una cittadinanza democratica intelligente.

Da qui io disfacimento del demos, lo sfarinamento dell’in comune, l’esplosione dell’ in mezzo in una ruota centripeta che schizza ognuno a periferie solitarie, l’aumento di diseguaglianze economiche, sociali e culturali. Già culturali. Ecco la precisa sintesi della filosofa di Berkeley:

>>La democrazia non esige un’assoluta uguaglianza ma non può sopravvivere al suo opposto, lo stesso vale per una cittadinanza istruita. La democrazia può non richiedere una partecipazione politica universale ma non è in grado di sopravvivere all’assoluta ignoranza del popolo riguardo le forze che determinano la sua vita e disegnano il suo futuro.<<

Fate partitini ridicoli, prostratevi davanti ai poveri perdenti e battetevi il petto, insorgete contro la presunzione borghese a cui pure appartenete (in genere), brandite il vessillo del “liberatore di popolo”, ma -mi raccomando- evitate di condividere con loro la cultura, dargli capitale culturale di modo decidano loro come emanciparsi.

Lo Stagirita non era democratico, tuttavia l’idea del giusto mezzo, della società dalle estremità contenute e convergenti una linea di equilibrio dinamico centrale, ne era la geometria trascendentale. O ce l’hai in immagine di mondo o hai piramidi, come i platonici anglosassoni che disegnano i dollari.

Democrazia o barbarie, la mia Maginot. Magari viene qualcun altro…?

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NEOLIBERISMI PRECOCI.

B. Stiegler, filosofa politica francese, conduce in questa ricerca una genealogia del neoliberismo americano, sincronico all’ordoliberismo tedesco e quello poi più idealista di Hayek, versione americana meno conosciuto ma forse anche più influente. L’eroe negativo della storia è il mitico Walter Lippmann. Solo un “giornalista” come alcuni lo ritennero, in realtà politologo pieno e poi politico dietro le quinte, stratega di pratiche e pensiero, inventore di una versione americana della propaganda più sofisticata, delle pubbliche relazioni, dello sterminio sistematico dell’intelligenza collettiva.

Lippmann, come altri liberali oligarchici, rimase sconvolto dal registrare i ripetuti fallimenti del mercato che culminarono nel 1929. Non un ideologo o un economista ma uno dei più grandi storici dell’economia, Paul Bairoch, ha più volte significato quanto brevi e disastrose furono le fasi storiche ed economiche in cui s’impose la dittatura del libero mercato ritenuto ente autoregolato che spande benefici secondo logica.  Lippmann allora reagì come i più prudenti tedeschi di quell’ordoliberismo che inaspettatamente scovò M. Foucault nelle lezioni in cui pure s’era ripromesso la fondazione teorica del suo concetto di biopolitica. Strano a notarsi ma era il 1978-9, pochi si sono meravigliati di questa prematura lucidità del filosofo ricercatore francese.

No, non era vero come pensavano i più ingenui liberali classici che il mercato è equilibrato, creativo e potente, va incontro ripetuti fallimenti. Ecco a cosa serve uno Stato, a contenerlo e dargli continuamente protezione e condizioni di possibilità. In più “preparare” la società a stargli attorno. Nel novero dei “neo-liberalismi” alcuni dei quali ancora attardati in idealismo, quello di Lippmann e quello tedesco sono interventisti, non in economia, ma nel giuridico, geopolitico, sociale e culturale.

Stiegler ricostruisce questa storia americana, seguendo la dialettica tra Lippmann e Dewey, liberale oligarchico l’uno, liberale democratico l’altro, entrambi pragmatisti ed evoluzionisti. Pessimista sulla natura umana l’uno, ottimista l’altro. Divisi sul concetto stesso di adattamento. Adeguamento alla unica realtà possibile ed intrascendibile il primo, manipolazione della realtà per favorirsi l’adattamento il secondo. Le stessa partizioni tra realisti.

Stiegler contesta quel refrain di Lippmann per il quale l’uomo non sarebbe naturalmente adeguato ai tempi che gli sono toccati in sorte di vivere, già un secolo fa. Alla fine, Lippmann delirerà con serietà e razionalità di eugenetica come oggi molti fanno con le idee di impianto chip ed elettronica nel bio e solo perché è più o meno vietata l’aperta manipolazione genetica.

Non mi sento di seguire la Stiegler sul punto, dopo quello che è successo gli ultimi settanta anni. Tre volte la popolazione del pianeta è cresciuta, mai registrato come fenomeno storico umano in quei tempi e quella entità, così gli Stati, così le interrelazioni, così la pressione planetaria, sul contenitore ed i contenuti. In effetti il mondo è e sta cambiando profondamente e velocemente, abbiamo sì evidenti problemi adattativi. Solo che di adattamento, come detto, si danno due significati e diverso atteggiamento, passivi ed attivi.

Per Lippmann, antichissima tradizione che risale quantomeno al pamphlet dell’Anonimo oligarca ateniese, la massa non sa nulla tantomeno governarsi, ha bisogno di governo di chi sa, per il suo stesso bene. Anche perché lui come tutti coloro che portano avanti questa stantia tesi, tiene fissa la struttura econocratica che è poi quella che deve dare i crismi di idoneità adattiva. Ci si deve adattare passivamente alle logiche ordinative dell’economico, dove negli anni ’30, Lippmann vede già il capitale globalizzato, non le produzioni, il capitale liquido. Già li parla di individuo flessibile con straordinario anticipo. Lippmann pensa che lo Stato debba garantire sanità e stabilità ambientale nel suo neo-interventismo e qualche liberale duro e puro lo giudica pure di “sinistra”. Ma è una falsa prospettiva, è solo che effettivamente se si vogliono sfruttare appieno e ciecamente gli individui, tocca mantenerli almeno sani ed in contesto stabile.

La grande riforma umana è tramite il diritto quindi opera di Stato. Ma la sua condizione di possibilità primaria è mettere fuori gioco l’intelligenza individuale e generale. Le persone debbono diventare molluschi elastici ed irriflessivi, de-soggettivizzarsi. Le nazioni debbono diventare interdipendenti nel più ampio novero della divisione del lavoro da mercato-mondo, Ghandi e la sua ruota del cotone emancipante se ne farà una ragione. Le teorie e pratiche propagandiste che resero famoso Lippmann, sono state alla base del concetto di “fabbrica del consenso” di Chomsky, poi di Cristopher Lasch anche per l’altro concetto del “governo degli esperti”. Quella espertocrazia, che è variante del pensiero politico platonico e che da secoli viene ripetuta da ogni élite per giustificare il proprio ruolo sociale e politico. In mano o in mente a Lippmann, la democrazia diventa un sussurro di assenso lungamente e profondamente preparato per l’ennesima servitù volontaria.

Passività, inerzia ed eterogeneità delle masse; volontà, mobilità, capacità di mantenere una direzione coerente da parte della necessaria guida del potere gerarchicizzato, gli eletti (in entrambi i sensi). La gente è mediamente in uno stato in cui il mondo è una cosa, l’immagine che ne hanno un’altra. Solo chi sa, fa coincidere entrambi e mette a fuoco la realtà, facendoci poi sopra piani e strategie per manipolarla. In fondo siamo nella dominante versione del repubblicanesimo hamiltoniano, lo standard americano. L’uomo di stato sarà un generalista esperto solo nella scelta degli esperti.

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Lavoro serio quello della Stiegler per via di una frequentazione ravvicinata ed attenta di fatti e testi di questa storia del giornalista che cucito nel tessuto dei poteri di Washington e financo dei suoi presidenti, ha fatto da filosofo dei re in pieno stile platonico.

E cosa si è perso l’americano nel vedere oggi come tutto il fenomeno NBIC, sia la più gigantesca strategia di tipo biopolitico e psicopolitico al contempo. Nanotecnologie, biotecnologie, infotecnologie, scienze cognitive, mobilitate a creare molluschi behavioristi che accarezzano voluttuosamente lo schermo del proprio smartphone, ricavando piacere tattile dalla pellicola di ossido di indio drogato di stagno. Poi lo accendono e si perdono dentro l’acquario di un mondo irreale mentre fanno i loro propedeutici esercizi di genuflessa servitù volontaria come gli studenti coranici.  Strategia non certo del capitalismo o dei capitalisti, lanciato nel 2002 da National Science Foundation e Dipartimento del Commercio USA ovvero il 25% dei budget investiti in ricerca di base nel sistema dei college americani amministrato da un tizio nominato dal Presidente e confermato dal Senato -più- la Camera di tre milioni di imprese nel paese, 2.000 camere locali o di Stato e 830 associazioni commerciali. La dimensione della camera è composta di esperti politici, lobbisti ed è nota per spendere più soldi di qualsiasi lobby del paese su base annua. Stato quindi non mercato o Stato per mercato, strategie, coordinamenti intenzionali altro che laissez faire. Ne uscì una vivace collezione di idee, 400 pagine per 50 contributi scientifici.

Quando il vostro critico-critico di fiducia inizia con le forme economiche, ditegli che deve darsi una svegliata e rivolgersi a quelle politiche, giuridiche, fiscali, militari. Se ha qualche consiglio utile su come prender o riprendersi lo Stato, bene, altrimenti si perda nei suoi almanacchi geometrico-aritmetici da accademia platonica. Qui il mondo non riusciamo a cambiarlo, perché forse non l’abbiamo compreso bene.

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CHE CLASSE!

Siamo intorno l’anno mille, campagna e colline, Italia centrale. Una chiesetta troneggia una panciuta piccola altura, scampana, uomini, donne bambini vi si stanno dirigendo.

Si fermano, conversano, scherzano, fanno riti sociali di amicizia. Alcuni hanno messo dei tavoli fuori. C’è chi vi porta delle uova, frutta, ortaggi, ci sono anche dei polli che schiamazzano, si vende, si compra o forse per lo più si scambia. Poi si va tutti a pregare e fare riti, si esce e con l’animo più lieve si torna a far giochi sociali.

Nel tempo, quelli dei tavoli fanno delle piccole dimore fisse, uno ha aperto una specie di cucina pubblica in cui ospita l’ospite, da cui dal latino -hospite-, il sacro viandante, potrebbe esser una benedizione o uno caro agli dèi. L’oste ha fatto quindi la sua osteria, si mangia, si beve, si gioca, si scherza, si traffica.

Sempre il nastro del tempo scorre ed ecco che a mezza vista ci apparirà la nostra chiesetta che i villani hanno oggi portato ad essere un po’ di legno ma anche un po’ di pietra e paglia, con una dozzina di casette attorno, una piazzetta. Per un po’ è stato un paese, ma di recente s’è ingrandito, è diventato un borgo, parola indoeuropea che significherebbe protezione. Infatti, sempre nel tempo, compaiono dei recinti murari tutt’attorno ed al suo interno, unioni che fanno la forza. Chi vi abita in pianta stabile oltre al prete, sarà l’abitante del borgo, il borghese.

I borghesi son gente strana. Hanno amici e parenti in campagna da cui ricevono merci da vendere, sviluppano arti per produrre cose col legno e le pelli, litigano e discutono, si innamorano e si sposano o s’accoppiano furtivi anche fuori della coppia canonica, poi però hanno senso di colpa, menomale che confessano e poi pregano. Alcuni inventano mestieri che servono la comunità, altri studiano, altri affilano armi dopo averle forgiate nel fuoco.

I borghi più importanti perché sono grossi e stanno in mezzo ad invisibili vie di traffico umano, una o due volte l’anno, fanno fiere dove da tutta una vasta zona converge a vendere, comprare, scambiare, fare amicizia, stringere patti, litigare e dopo un po’ di bevanda fermentata, menarsi. Qualcuno scrive su pezzi di carta “ti debbo…” o “mi devi…” e quei pezzi di carta diventano crediti e debiti.

Il prete, la domenica, dopo la benedizione, ammonisce a non esagerare con quei foglietti o a volte pezzi di metallo che prendono nomi curiosi: soldi, denaro, ma anche svanziche, palanche, baiocchi, ghelli, quattrini. Sono tentatori e traviatori, roba del diavolo, addirittura lo sterco, pervertono le relazioni umane mettendo sopra l’amore, l’amicizia, l’empatia e la solidarietà, l’interesse. Ma i borghesi in effetti hanno ora tutte quelle dimensioni sociali ed alcuni di quei denari ne hanno di più ed altri di meno. Ne sono attratti irresistibilmente come come il Gollum di Tolkien, tecnicamente si potrebbero definire tossicodipendenti da scariche neuronali endogene, la farmacia che ognuno di noi ha in testa.

Questa media estensione di possessori, scambiatori, trafficanti di denaro via merci varie, sta tra il vasto contado che ha solo cose e non mezzi che li rappresentano ed una famiglia di gente con un rapporto speciale con dio (almeno, così dice il prete), con altra gente armata che gli sta attorno, asserragliata in una vasta casa di pietre che chiamano castello, da castrum ovvero fortificazione.

Questi grandi signori e signore ingioiellate, possiedono la terra tutt’intorno e ne difendono il diritto di proprietà con le armi. Tanto e tanto tempo prima non esistevano, sono arrivati dall’est, barbari, violenti, animali voraci, travolgendo quelli che facevano capo a Roma. Hanno distrutto, rapinato, violentato, squartato un po’ qui ed un po’ là, poi si sono fermati, hanno visto che in fondo i posti erano buoni per viverci, si sono impiantati, si sono convertiti alle credenze del luogo, il prete ha detto che sì era loro diritto, dio l’aveva confermato in gran segreto, erano nobili, i migliori, gli aristoi. Il prete tenta di controllarli, loro si fanno quasi controllare visto che lì sono stranieri e serve loro un perno locale di intermediazione che ha fiducia dal basso.

Così, i nostri borghesi, si scavano una nicchia bio-geografica tra i contadini, pescator, allevatori, falegnami e minatori ed i Signori armati di gran sussiego anche se col fondo animale. Ci vorranno secoli per civilizzarli visto le origini ed il carattere e dato che non l’hanno temperato nel vivere assieme nella civis, non hanno civiltà.

Nel tempo però, aumentando anche loro di numero formano una loro comunità che stabilisce delle buone maniere o quantomeno una parvenza. Internamente s’intende, fuori continuano a menar le mani e per varie ragioni, tra cui spesso il solo piacere di farlo.

I nostri borghesi imparano anche a leggere e scrivere oltre che un sacco di cose pratiche mentre le teoriche sono proprie di altra gente amica del prete, altri preti di vario lignaggio. Preti, nobili, borghesi prendono diverse forme e di diverso livello lungo quella che appare la gerarchia sociale, una scala in cui c’è il sopra ed il sotto e gente che sale e scende.

Quelli che sono rimasti attaccati alla terra no, sono tutti più o meno simili, dello stesso livello, ma in fondo stando spesso da soli o isolati, non hanno certo bisogno di distinguersi l’un dall’altro, lottano con la natura e solo saltuariamente con altra gente e per motivi decisi dal signore e dal prete. Questo lottare non coi fantasmi ma con la concretezza naturale, li fa conservatori nell’immagine di mondo, sono immersi nella variabilità naturale, normale sognino solide continuità.

Dicevamo dello scrivere, poi fa di conto, accumulare storie e denari dei nostri borghesi. Ma adesso accumulano anche libri e li studiano creandosi delle scuole dove si insegnano l’un l’altro discipline del sapere in due forme: il trivium (scrivere, parlare, logica ed ordini del discorso) ed il quadrivium (numeri, linee-cerchi-triangoli-linee-distanze, tutto ciò proiettato sul mistero del cielo notturno e poi una strana melodia fatta da appositi strumenti che però imitano il canto umano: la musica. Strana magia la musica, sgorga dall’anima ma arriva alla mente calcolante ed ordinante.

I borghesi inventano una ricchezza comune impalpabile: saper cose, saperle usare per fare altre cose. Oddio, loro ci provano a coltivare questi campi invisibili, ma i preti li sorvegliano preoccupati ed i Signori spesso invadono quei delicati campi invisibili portando disordine. Ma arriverà presto il loro turno, dei nobili e dei preti, i borghesi son gente pratica e poco impressionabile.

I borghi diventeranno città e città di città, tutto vi cresce esponenzialmente, le città formano reti di lingue ed interessi comuni ed a propositi di Comuni, si pongono i problemi dei regolamenti di convivenza, le leggi e poi chi le stabilisce ed amministra, le usa per sanzionare del giusto e del non giusto, dell’ordine di quella che i greci chiamavano polis e nasce o rinasce così la politica.

In grande inquadatura, queste zone europee di comune linguaggio e consuetudine all’interrelazione umana, fanno i fatidici “totali più della somma delle loro parti”, le nazioni. Una di queste, una striscia di terra al confine ovest di Europa, con solo mare attorno e terra con un unico popolo cugino ma diverso, amico sì ma mica ti puoi fidare più di tanto, mette in mare navi più grosse, arriva sulla costa dirimpetta pur non sapendo che sta su un’altra zolla continentale, poi scenderanno intrepidi ma la contempo cauti, prendendo oro, avorio ed altre cose esotiche, che portano a casa per poi scambiarlo per eccedenze vs mancanze con altri popoli.

Siamo ai primi del Quattrocento e con i portoghesi, inizia la vis esploratrice, poi coloniale, poi imperiale degli europei occidentali. Si sa come vanno queste cose no? Inizia lui ed allora io? Così seguono gli olandesi che sono come i portoghesi del nord, circondati, non molti, ma marinai intrepidi forgiati alla severa scuola del Mare del Nord. Poi gli spagnoli, i francesi, gli italiani, essendo su un molo lanciato su un mare interno, fanno più o meno quello e molto altro, da sempre.

Ancora mancano dei barbari che stanno su un’isola del Nord, non hanno neanche una loro flotta, usano quella di altri barbari ora marinari che ricevono dalla loro regina (una donna? strano) di nuovo pezzetti di carta con su scritto: loro agiscono come fossimo noi i monarchi delle terre degli Angli, danesi in pratica, ma anche con i Sassoni, germanici migratori, inquieti.

Secoli e secoli dopo, nasce in Germania un sassone borghese. I sassoni erano barbari liberi su vaste terre, armati si spade dette saax (cramasax, kramasak hadseax, sax, seaxe, scramaseax, seax e sachsum, da cui presero il nome e con loro l’Essex, il Sussex, il Wessex in cui sciamarono nel 500 d.C.

Il giovane sassone aveva padre ebreo che diceva si essersi convertito e non abbiamo ragioni per dubitarne. Ricorderete però un post sulla cultura ebraica su Maimonide, il quale diceva che un vero ebreo, studia ancor più che pregare; quindi, ebreo credente o meno poco ci interessa, di cultura umana era ebreo.

Ebrei che in Europa, visto che quelli non ebrei trafficavano alacremente coi soldi ma poi si pulivano le mani perché era “sterco del demonio”, dissero: “ok ragazzi, ci pensiamo noi a farlo per voi, noi questa storia del demonio non l’abbiamo, per fortuna”. Divennero così banchieri, prestatori, strozzini, facevano di conto, accumulavano, regolavano scambi.

Werner Sombart che era un sociologo che impose il concetto di “capitalismo” che Marx non usò quasi mai e mai come concetto proprio, pensava diversamente da Weber che lo buttava sullo spirito puritano-calvinista, che il gruppo vertice del sistema denaro o capitale fossero proprio gli ebrei. Sebbene tedesco, lo diceva con immensa ammirazione non certo con finto sdegno come poi i gentili (poco gentili, spesso) faranno a più riprese con questa strana gente che persiste come popolo a due millenni e mezzo solo perché non s’è fissata su una terra come tutti gli altri.

Insomma, il nostro sassone borghese ma anche un po’ ebreo (poco, lo si è per via di mamma, in genere, in genetica ma tocca vedere se conta più natura o cultura nel caso in questione), studia come si deve, ma poi esubera, tracima tra giurisprudenza, filosofia, neo-sociologia, giornalismo (occorrerebbe più attenzione quando si preleva citazioni dei suoi scritti, scambiando svolazzi da giornalista per auguste pensate da studioso), passione politica attiva, agitatore, mangiatore e bevitore, fascinazione per l’economia, sensibilità antropologica.

Fortunato a trovare un amico molto ricco per via delle filande inglesi del padre da cui aveva rendite con le quali manteneva sé, l’amico e la famiglia dell’amico la cui moglie era una nobile (da cui ebbe sette figli e che però tradì per saggiare la condizione proletaria della serva da cui ebbe un figlio poi dichiarato di Engels), il nostro sassone borghese farà grandi casini in Germania, poi soprattutto in Francia fino a rifugiarsi per dodici anni al British museum a studiare i misteri del capitale, scrivendo un librone anzi tre sebbene due di essi non li completò. Inseguito dall’amico che lo pregava di finire la revisione, trovava una scusa al giorno, preso dalle idee di un certo Darwin, poi dai resoconti di avvocati americani difensori dei nativi americani che qualcuno cominciò a chiamare “antropologi”.

Il nostro campione borghese, con l’amico borghese e gruppi di altri arrabbiati amici borghesi, hanno la curiosa idea per cui teorici borghesi appaltavano la liberazione umana ad un’altra classe oltretutto culturalmente subalterna che avrebbe liberato loro e tutti gli altri facendo tana libera tutti, dalla condanna di essere una classe predatoria foriera di diseguaglianza sociale ed ingiustizia che li faceva letteralmente indignare.

Avrebbero ben potuto fare un gruppo di autocoscienza come faranno poi certe femmine, ma essendo maschi preferirono rivolgersi all’esterno, criticare, assaltare, lottare contro qualcuno (tra cui il fantasma di un professore di Stoccarda mezzo mistico protestante ea un po’ neoplatonico) dal quale il nostro non si emancipo intellettualmente mai.

Così, al borghese di Treviri e quello di Barmen, ai tanti parigini e francesi, tedeschi ed inglesi, tutti per lo più borghesi, si unirono a seguire un russo figlio di un educatore e docente di matematica e fisica russo di religione ortodossa tale Lenin, seguito da un altro detto Trockij, ebreo benestante e poi un tipaccio detto Stalin.

Tipaccio ma si capisce il perché, non era borghese, mamma e padre contadina e calzolaio, gran bevitori che poi lo picchiavano un giorno sì e l’altro pure. Finì poi in collegio diventando secondo Fromm un “sadico non sessuale”, venato di paranoia. In Cina, invece, nacque un altro della banda, di ambiente contadino sì, ma agiato, Mao. Seguirono un figlio di proprietario terriero tale Fidel ed un figlio della c.d. “oligarchia del bestiame argentino”, un icona oggi pop, né di destra né di sinistra come piace oggi dire ai borghesi, il “Che” per gli amici.

Insomma, gente di questa classe, ha a lungo ritenuto di usare un’altra classe per risolvere la società di classe. Oggi però sappiamo che siano giovani che diventano adulti, donne che rivendicano posizioni esistenziali, culturali e sociali migliori, popolo colonizzati, i processi di emancipazione umana vanno condotti in prima persona, nessuno ti può emancipare al posto tuo.

Arrivato qua, m’è venuto in mente che forse ci vorrebbe una stagione impetuosa di autocoscienza dei borghesi annessa guerra civile tra borghesi tendenzialmente egalitari e quelli gerarchici. Non c’è odio più inestinguibile che quello da faida famigliare, tanto cara ai Sassoni, tra l’altro. Suggerirei qualcosa come: “Borghesi di tutto il mondo dividetevi e chiaritevi da che parte state!”

Però diciamocelo senza infingimenti piccolo-borghesi: che classe!

[Con un sentito ringraziamento ad altri della mia stessa classe: il Maestro Braudel, Cipolla, Ruffolo, Maier, Bloch, Febvre, Pirenne, Le Goff, Furet, Garin, Dubin, tutti franco-italiani con omogenea immagine di mondo dentro e non solo mondi immaginari, con la disciplina del reale e qualche sforzo a controllare la falsa coscienza. Un pensiero anche a Destutt de Tracy che così fa 1-0 con la coppia Napoleone-Marx. L’ideologia ha una sua autonomia, conta, non è sempre e del tutto legata alla condizione sociale, appartiene ad un suo ambiente, quello delle immagini di mondo]

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DECIDERE IN CONTESTI COMPLESSI.

Molti neuroscienziati notano come il nostro cervello-mente si sia lungamente evoluto, quindi formato, alle prese con problemi vicini (fame, sete, sicurezza), immediati (giorno per giorno, ogni giorno) relativamente semplici (amico/nemico, sesso, utile/inutile), in gruppi piccoli tendenzialmente egalitari, relativamente isolati tra loro, in cui ognuno conosceva ogni altro.

Oggi ci troviamo associati in gruppi enormi, di una certa densità territoriale che si estende ormai alla dimensione planetaria, in cui i più ci sono sconosciuti, dentro formali e informali gerarchie multilivello, con un gran numero di problemi complessi e con decisioni che avranno effetti e conseguenze decennali, che spesso vanno anticipati perché “dopo è tardi”. Si tratta di problemi spesso percettivamente invisibili eppure decisivi come la questione ecologica, climatica, geopolitica, economo -finanziaria, le nuove tecnologie. I gruppi umani molto antichi erano per lo più natura, i gruppi contemporanei sono per lo più cultura.

C’è chi da tutto ciò, trae motivo per promuovere lo sviluppo di protesi cibernetiche ed info-tecniche, dagli impianti di chip agli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale, che dovrebbero potenziare e correggere il nostro strumento decisionale. C’è quindi una tendenza a ridurre il problema, problema dell’adattamento all’era complessa, alla tecnica, una riduzione della decisione al calcolo.

La natura intrinseca dell’organo pensante è di per sé adattativa, è il motivo stesso per il quale semplici reti di neuroni percettivi (calore, luce, senso interno) e del moto sono diventati cervelli e sistemi nervosi, tant’è che la loro principale caratteristica è la plasticità nel collegare il senso interno col mondo esterno. Prima di passare all’aiuto di supporti di calcolo, ci sarebbe da domandarsi cosa facciamo per allenare questi cervelli e menti ai contesti complessi. Che tipo di sistemi logico-categoriali-di giudizio promuoviamo, a che tipo di funzione nel mondo prepariamo le nostre menti, che tipo di pedagogia usiamo, che forme della conoscenza e trasmissione ed insegnamento della stessa adottiamo, quanto e quale tempo dedichiamo alla formazione ed autoformazione, la loro stessa qualità sia sul piano individuale che sociale.

Conoscendo appena un po’ della complessità intrinseca di alcuni temi contemporanei, si pensi all’intero capitolo eco-climatico o la transizione demografica e culturale che sta sovvertendo i vecchi equilibri di convivenza geopolitica planetaria o la decisione di quanta e quale tecnologia importare nelle nostre strutture di vita, verrebbe da domandarsi cosa mai ne possono sapere individui che dedicano ben più della metà del proprio tempo di veglia a lavorare, dove si formano una opinione e prima ancora una conoscenza, con quali strumenti, con quali condizionamenti, con quali opportunità di scambiarsi conoscenze orizzontalmente tra simili, con quali minime competenze. Tenuto anche conto del fatto che per loro natura le nuove matasse problematiche sono intrecciate al loro interno mentre tutta la nostra conoscenza e la sua trasmissione è tagliata in discipline verticali che non comunicano tra loro e tra i loro portatori.

Paradossalmente, gli antenati del tempo profondo avevano certo un range di problemi più limitato e relativamente più semplice, tuttavia avevano molto più tempo a disposizione per elaborare, individualmente ma anche collettivamente. Il primo problema del temuto disadattamento tra noi e l’era complessa è di natura culturale più che di capacità di calcolo.

L’organo pensante coi suoi 85 miliardi di neuroni (rimanendo nello stretto cerebrale anche se sappiamo che la sua natura è incorporata) e tra 10 13 – 10 15 di sinapsi, coi suoi molteplici attivatori e repressori, oscillatori, reti di retroazione ha di per sé la forma prototipica di ciò che chiamiamo “complessità”, una enorme varietà, interrelazioni, auto-organizzazione, finalità adattativa. A priori, non sembra proprio esserci alcun problema di adeguatezza tra cervelli-menti umani e complessità del mondo, almeno sul piano delle condizioni di possibilità, non sembra esserci alcun problema di protesi necessaria. Il problema, semmai, è nel come coltiviamo le forme interne dell’organo a livello individuale e poi collettivo stante che buona parte del problema adattativo all’era complessa riguarda le società prima che i singoli individui. L’adattamento tra umanità ad ambiente e tra le singole civiltà e nazioni per una pacifica e cooperativa convivenza planetaria, non chiama un singolo “genio” che chissà quale soluzione troverà, chiama la facoltà di auto-modificarsi delle menti e società stesse per regolare i propri comportamenti in funzione dei nuovi limiti, ridistribuendo all’interno problemi e nuove opportunità, con conoscenza qualificata e consenso distribuito, sviluppando visioni strategiche.

L’adattamento prevede sempre un doppio movimento a modificare l’esterno ma parimenti il nostro interno. Sembra invece noi si introduca una rigidità sull’interno e si scarichi tutto sull’esterno. Se i conti non tornano, invochiamo un supercomputer che aumenti la nostra potenza di calcolo.

I proliferanti studi sulla Teoria della decisione, hanno sviluppato recenti ambiti di ricerca sul ragionamento euristico, la Teoria dei giochi, la razionalità limitata (la stessa definizione di “razionalità”), i bias interferenti (Kahneman-Tversky), le preferenze ed il ruolo delle emozioni, l’utilità attesa, i limiti dell’induzione, la Teoria delle decisioni comportamentali, le misurazioni del rischio, differenze tra decisioni tattiche e strategiche con informazioni più o meno complete, le condizioni di incertezza, la statistica bayesiana, le differenze tra decisioni individuali e collettive ed è un campo di studio eminentemente multi-interdisciplinare coinvolgendo statistici, economisti, sociologi, psicologi, ingegneri, biologi, matematici, informatici, logistici, scienziati cognitivi, storici culturali, scienziati politici e filosofi. Trovandoci in mezzo ad un periodo di transizione tra era moderna e complessa, molti di questi studi restano nel campo del moderno pur acquisendo elementi superficiali del campo complesso. La loro “logica” è ancora prettamente moderna e replicante le attuali forme della società e della conoscenza. A cominciare da quell’idea tipicamente riduzionista di affiancare al wetware cerebrale dell’hardware al silicio e poi chissà che software, sviluppato come e da chi, a quali fini, stabiliti come.

L’intero pluriennale sforzo a cui ci dedichiamo nel promuovere questo annuale Festival della Complessità, è teso a richiamare l’attenzione sulla necessità di sviluppare pienamente una cultura della complessità adattativa alla nuova era complessa. L’era complessa pone problemi e sfide nuove e difficili, ma non è con una chip o un algoritmo che produrremo nuovo adattamento, né sembra possibile mantenere intatte le forme del pensiero e dell’azione sociale moderna con una spolverata di perplessità sul pieno dominio razionale, un pizzico di incertezza, un non fidarsi troppo dell’induzione, un po’ di matematica in più o in meno. Non ci sono le tre regolette auree di come decidere in contesti complessi, c’è da assumere il problema a livello culturale ed è all’esplorazione di questa nuova cultura con finalità pratiche e teoriche che dedichiamo questa XIV edizione del nostro Festival.

>> https://www.festivalcomplessita.it/la-complessita-in-pratica-vivere-decidere-agire-decidere-in-contesti-complessi/

>> https://www.festivalcomplessita.it/

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TRAFFICANDO IN LABORATORIO.

Lo schema mondologico di cui all’ultima sezione del mio blog che trovate in Menù, presentato ieri anche se non qui in homepage, l’ho applicato in pratica, nei tre articoli di analisi poi diventati uno di cui all’allegato.

Solo la geografia poteva mostrare la centralità dell’area araba del Golfo (confermata da geostoria poiché per secoli quello hanno fatto, il “ponte” tra est ed ovest), così per le dotazioni geoeconomiche (fossili) inclusa la prospezione mediterranea. E quanto a geostoria da quelle parti ci sono lunghe durate. Tra ceppo ebraico ed arabo poi risaliamo a Medina ed i viaggi di Muhammad a Damasco. Roba storica.

Altresì la ricca e contradditoria composizione demografica israeliana riflessa anche in fazioni di politica interna. Stante la storica guerra tra indici di riproduzione delle donne palestinesi usate come “martirifici” dai capi delle varie resistenze e quelli europei degli israeliani propriamente detti. Da cui l’importazione di ucraini, bulgari e russi forse neanche ebrei.

Io stesso ho poi taciuto l’evidenza che Israele è l’unica potenza nucleare dell’area, con tutto ciò che di delicato comporta il tema per Iran ed AS. Andava invece fatto. Fare pace? Con uno con settanta o più testate atomiche? Ridicolo.

Da cui anche lo schierarsi dei “giovani arabi” col fronte globalizzatore (BRICS-Cina). La svolta tecnologica di questi, MBS voleva addirittura offrire i diritti di cittadinanza ai primi robot antropomorfi che una volta progettati debbono andare on the road davvero per vedere come va. Attrazione per decine di start up e centri ricerche in ambiente giuridico protetto, mica scemo. Altrimenti è pronto Zelensky.

Infine, lo slancio verso energie alternative, visto riserve fossili non così ricche e venti di opinione contrari con occhio strategico a trenta anni. Futuro in cui tocca auto-organizzarsi da quelle parti perché zio Sam invecchia e rischia di doversi chiudere nei giardinetti di casa mentre bofonchia in mandarino texano.

Così si spiega anche la continuità tra Accordi di Abramo (Trump) e Via del Cotone (Biden) ovvero anche il fatto che le strategie di politica int’le e geopolitiche, non variano al variare degli interpreti americani del teatro dei pupi.

Insomma, a seconda degli occhiali, ecco questa o quella immagine di mondo. Ecco la ragion cinica di Fagan o le messe laiche sul dolore in-umano palestinese.

E come previsto, ora che tacciono le questioni belliche più tragiche, il defluvio dalla messa laica disinteressata al come finirà, visto che era disinteressata anche del perché era iniziata.

E’ per nel come lo interpreti che poi il mondo puoi pensare o meno di cambiarlo. Alla fine, dovremmo tutti domandarci se siamo qui a chiacchierare o abbiamo intenzione di fare fatti.

[L’articolo nasce post su i social con sciame di discussioni sul conflitto tra ragione analitica cinica e reazione emotiva ai fatti cui siamo stati sottoposti di recente]

L’articolo di analisi sul conflitto israelo-palestinese: https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/27783-pierluigi-fagan-trittico-mediorientale.html o https://pierluigifagan.com/2024/03/29/trittico-mediorientale/

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T.I.N.A. 2.0.

Volete uscire dal dominio neoliberista, volete allentare la morsa della gabbia d’acciaio capitalista, volete invertire l’allungamento in corso da decenni della scala sociale di cui tra l’altro vi è vietato l’uso per provare a scalarla. Avete idee di mondo migliore, più giusto, qualsiasi sia la vostra idea di “giusto”. Tutto ciò è politico.

Ma la vostra società non è ordinata dal politico, è ordinata dall’economico. È l’economico il regolamento del gioco sociale, è lui a dettare scala di valori, premi, punizioni, mentalità e cultura comune. E l’economico è a sua volta ordinato non dal mercato come alcuni pensano, ma dal controllo oligarchico, da interessi di Pochi. In termini ordinativi, il finanziario è sottosistema dell’economico ma è giusto rilevare come nelle società occidentali, almeno da quaranta anni, esso abbia svolto a sua volta una funzione ordinativa sia dell’economico, sia della società e quindi del politico. È la natura ambientale del finanziario ad aver ulteriormente ristretto la composizione dei Pochi a quel punto anche iperpotenziati da livelli di capitale storicamente inusuali, di più diviso in meno.

Pochi governano Molti e lo fanno economicamente prima che politicamente. Non riuscirebbero a farlo politicamente senza usare l’altro ordinatore, poiché il politico è di sua natura contendibile. Di contro, è meglio dirci che non riuscirebbero a farlo economicamente se non possedendo Stati ovvero leggi, fisco, militare-poliziesco. Fanno credere che vogliono davvero meno Stato e più mercato, ma congiurano da mane a sera contro il mercato neutro ed abusano di Stato da mane a sera per schivare il mercato e fare quello che nessun mercato può strutturalmente fare (il “mercato” è ente fallibilissimo e storicamente precario): dirigere società e forme di vita associata.

Quello che chiamiamo capitalismo, categorizzandolo chissà perché nelle forme economiche, nasce da un colpo di Stato in Inghilterra nel 1688-89. Per confezionarlo come traguardo di civiltà, la chiamarono Gloriosa rivoluzione, per la prima volta importando il concetto di “rivoluzione” dalla prestigiosa e nascente astrofisica, in cui per altro, aveva diverso significato. Sono poi andati avanti a chiamare rivoluzione ogni salto di sistema, fino all’attuale rivoluzione 4.0. Già Marx notava che quella loro è la vera classe rivoluzionaria. Trasferire in teoria del cambiamento il modo borghese a quello proletario, a conti fatti, non è stata questa gran ideona, ma almeno s’era ingegnato a provar di “trasformare il mondo” dopo averlo interpretato.

L’origine del capitalismo moderno è politica non economica e passò dalla presa dello Stato.

Dovete prendere almeno l’intero quadro legislativo del parlamento britannico del Settecento per rendervi conto che senza la potenza legislativa e fiscale, non meno che militare per l’estroversione primo coloniale, quello che chiamiamo capitalismo, non si sarebbe mai sviluppato ed imposto come è poi storicamente stato. Ricordo che la successiva Rivoluzione industriale fu a base di cotone e carbone, ma il cotone non cresce nelle highlands.

Per certi versi, si potrebbe dire che questo esordio del fenomeno economico-politico detto capitalismo moderno, assomigliava già molto all’ordoliberismo tedesco ed americano, curare le condizioni di possibilità per lo sviluppo economico e conformare società, popolazioni, culture. Tanto per dirne una, l’esordio fu cooptare territori (Scozia) ed un secolo dopo Irlanda, creando il primo vero e grande mercato interno. Che poi fece un ulteriore salto nelle immensità degli Stati Uniti d’America, oggi Cina o India. Le Province Unite-Olanda non avevano quelle ampiezze, varietà, dotazioni, così Anversa ed il precoce sistema delle città-Stato italiane. Poi ci fu la risistemazione dei territori, fiumi a navigazione interna, i porti. Poi ci fu il potenziamento della Royal Navy dopo il Cinquecento in cui il servizio era appaltato a corsari. Ma allora perché non convocare la Bank of England, la sterlina, la Royal Society, Newton?  Camera d’affari della borghesia? Un po’ riduttivo, mi pare, un po’ più strutturale pareva anche a chi questo ha intuito meglio di altri, ad esempio F. Braudel, non a caso uno storico non un economista. Come seguì Karl Polanyi analizzando le leggi sul lavoro, un altro non economista o quantomeno non solo. Quel Braudel che giù ricordava che l’imperialismo moderno inizia portoghese nel ‘400 (e per altro muove i primi passi all’inizio della civiltà con Sargon di Akkad -2300) altro che “fase suprema del capitalismo”. Storia, accidenti, fastidiosa traccia della realtà.

Oggi, non è neanche più questione di mezzi di produzione, è questione di potenza di capitale, a volte liquido, a volte neanche disponibile ma facilmente ottenibile per qualche puntata certa. Più la vasta area dei portatori di interessi di questo sistema, interessi minori e diretti, ma anche indiretti, questo è il gioco, c’è chi lo gioca senza farsi domande.

Vi gravitano attorno le vite di molti, le soddisfazioni, i piaceri, il senso di potenza, il senso forse di evitare la morte godendosela o sapendo anche solo di poterlo fare, sesso, prestigio, riconoscimento sociale, invidia, senso da “ce l’ho fatta”, ed “io valgo” come recita una nota pubblicità. La società del possesso esibitivo così ben descritta da T. Veblen nella Teoria della classe agiata ai primi del Novecento, proprio quando Sombart imponeva il concetto stesso di “capitalismo” che pure Marx non aveva mai usato.

Se tutto ciò non ci aggrada, allora dovremmo puntare a cambiare ordinatore, imporre il ritorno del politico. E del politico che idee avete?

Pensate ad un Big Man che vi difenderà e curerà le aspettative disinteressatamente acclamato da folle festanti inneggianti il popolo populista in pieno delirio demagogico? Pensate ad un gruppo di benintenzionati che occuperà il potere per fare i vostri interessi? Magari una “avanguardia” di benintenzionati, gente fidata? Pensate di esser furbi e di avere agio di poggiarvi sull’uno o sull’altro dei Pochi mettendoli gli uni contro gli altri di modo da sgattaiolare sotto il tavolo e rubare furtivi la vostra coscia di pollo? Sognate cavalieri bianchi stranieri che vi liberino come il principe con la principessa? Pensate di “votare” il meno peggio ogni quattro anni e poi avere dubbi sul fatto che al peggio non c’è mai fine?

Siete dei tragici illusi, nessuna di queste opzioni ha la minima credibilità concreta, sono sogni e vagiti infintili che reclamano mamme e papà che nella vita associata di civiltà non esistono perché un popolo non è una famiglia ed un cittadino non è un bambino. Sognate un dio terreno quando non è detto esista neanche quello del cielo. State sconfinando dal politico al religioso.

In realtà avete una sola opzione, un ordinatore politico a sua volta ordinato da un modo democratico, l’unico fatto da voi, per voi. Non avete altro modo per la vostra fame e sete di giustizia che farvela da voi. Dovete diventare socialmente e politicamente adulti, darvi lo strumento e provare a fare ciò che volete fare, con altri, anche contro altri ma alla fine prevalendo e riunendovi nella volontà generale di fare l’interesse generale, quello che beneficia voi e chiunque altro intorno a voi, vi piaccia o meno come vicino o concittadino.

L’unica legge ed ordine giustificato in senso di giustizia in un gruppo è che il gruppo si dia le leggi da sé. Sia auto-nomo e non etero-nomo. Nessun altro più darvi giustizia come nessun altro può darvi benefici ai vostri interessi.

Quindi, siate di qualsivoglia ideale di giustizia che non sia la servitù volontaria, non avete alternative, avete invece un nuovo tipo di T.I.N.A: THERE IS NO ALTERNATIVE FOR THE ALTERNATIVE ovvero ripristinare e poi evolvere il modo democratico, prima il formale, poi in vista del sostanziale. Dovreste anche capire meglio di cosa parlate e cosa intendete quando dite: democrazia. Quella che pure c’era a premessa costituzionale, tecnicamente è un repubblicanesimo, non una democrazia. Modello che la suo culmine nella verticalità oligarchica hamiltoniana americana, non a caso detta “la più grande democrazia occidentale” con sprezzo della vergogna. Il principio elettivo è aristocratico, dalla Magna Charta in poi (1215), baroni vs monarca. Lotta risolta appunto nel 1688-89 quando il Parlamento delle élite prende il sopravvento sulla monarchia. Ancora nel 1832 votavano 600.000 maschi adulti su 14 milioni di anime ed i votabili erano anche meno. Oggi votano i di più, ma i voti che contano doppio o triplo, come voleva Stuart Mill il liberale sì ma progressista in coppia con moglie primo-femminista, sono sempre quelli dei Pochi.

Ripristinare il modo democratico, quindi l’ordinatore politico, questa l’unica prospettiva politica che possa darvi speranza e concrete possibilità. Dopo sarete comunisti (seguono cinquanta litigiose sfumature di rosso antico), socialisti, socialdemocratici, decrescisti, antimperialisti, pacifisti, femministi, repubblicani, conservatori, ecologisti, tradizionalisti, comunitari, intersezionali, spirituali, financo cinquanta sfumature di liberalisti (ma lì è per confusione che c’è pluralismo) se andate per idee semplici “sovranisti” e se siete tormentati i “né di destra, né di sinistra” e cosa altro avrete in vista come modello.

Prima però dovete considerare che il mezzo per forzare il ritorno dell’ordinatore politico in luogo del dominio dell’economico-politico, è la presa di uno stato e questo, nelle nostre società, per quanto di improba difficoltà, non potrete farlo senza un modo democratico da rivedere a fondo per qualità e potenza. A meno non siate rimasti affascinati d quella cosa che solo alle élite riesce: la rivoluzione. Nel qual caso, sogni d’oro e buon ennesimo secolo di servitù volontaria, magari critica, ma sempre servile.

Lasciarci libertà di lamento è molto liberale, lo stabilì già Locke che dell’ideologia ex-post Gloriosa rivoluzione fu l’artefice. Per altro a libro paga di un Lord, Locke, uno di noi in fondo…

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COMPLESSITA’ E POLITICA.

Ricerca sull’ambiente teorico che ha indagato i nessi, relazioni e problematiche tra complessità e teoria politica.

La cultura della complessità, non si è mai davvero confrontata e declinata sull’aspetto politico. L’unico che lo ha fatto è stato per certi versi Edgar Morin, amico personale ed intellettuale del filosofo greco-francese Cornelius Castoriadis[i], fautore della democrazia radicale (vedi NOTA finale) quale anche chi scrive aderisce ideologicamente.

Morin[ii], politicamente, seguirà una parabola che lo porterà da ambienti e convincimenti di area marxista postbellica ad altri successivi di area socialista a seguito della presa di distanza dall’URSS che coinvolse buona parte dell’Intellighenzia francese, dentro una impostazione filosofica decisamente neo-umanista[iii], con forte sensibilità al contesto ecologico. Arriverà così ad uno dei suoi temi preferiti che è quello della navicella spaziale Terra e quindi Terra-Patria[iv] per tutti noi, pur divisi in gruppi a volte reciprocamente animosi, una comunità di destino obbligata. Siamo nell’alveo delle idee che discendono da James Lovelock (un irregolare di questa cultura), cioè Gaia, a cui poi ha di recente puntato anche Bruno Latour[v]. Su quetsa strada si è di recente incamminato in riflessione anche Peter Sloterdijk[vi].

Ne “I miei filosofi”[vii], onorati Eraclito e Spinoza, Morin ammira il coraggio autodidatta di Rousseau e si confronterà poi con l’enigmatica nozione di “volontà generale”, parallela per problematicità a quella di “interesse generale”. In breve, si tratta di un problema sistemico. Un sistema è fatto di parti, ma interesse e volontà delle parti, sommate, non danno volontà ed interesse generale dove il generale è del sistema non delle parti (teorema di Kenneth Arrow, in parte discusso criticamente poi da Amarrtya Sen). Per quanto l’ottica non potrà mai che provenire da parti, queste dovranno dedurre l’interesse particolare dal generale e questo potrebbe avere forme anche distanti dalle preferenze individuali poiché è del “sistema”. Genitori sacrificano spesso il proprio interesse personale per il bene della famiglia che però è un loro interesse personale non minore di quello individualistico-egoistico. Arriva così al decimo capitolo, il più esteso della collezione, a “fare i conti con Marx” ottenendo alla fine un condensato sopravvissuto alla critica revisione, abbastanza spietato date le premesse di giovanile passione.

Va detto che la cultura della complessità è tanto piena di area scienza quanto povera di area filosofico-politica. Se forse si esclude la poliedrica figura di Gregory Bateson ed un generico orientamento senz’altro progressista e filo partito democratico americano di buona parte della comunità di studio appunto americana, nessuno si è infilato interamente nel campo di analisi tra complessità e politica. Si può fare una parziale eccezione col dibattito (acceso) tra Niklas Luhmann e Robert Kelsen, con successivi contributi di Jurgen Habermas[viii], ma siamo in Europa.

Che io sappia, uno dei pochi che vi ha provato è stato Daniel Innerarity, basco (quindi europeo) cattedratico proprio di Filosofia politica pubblicato in Italia da Castelvecchi[ix]. Nel 2015 incoronato come uno dei 25 più importanti pensatori al mondo a OBS. Nel 2022, esce con “Una teoria della democrazia complessa”[x] dove, per primo, sembra intuire la corrispondenza tra ontologia dei sistemi politici, democratici nel caso e complessità. Inerrarity svolge una ottima analisi a largo spettro, segnalando criticità e ritardi teorici, muovendo tra modelli rappresentativi e diretti di democrazia. Ma il cuore della riflessione più interessante (e condivisibile) è nel capitolo 15. L’intelligenza della democrazia, dove si finisce lì dove finiamo tutti coloro che parlano del tema partendo da una immagine di mondo complessa: si tratta al fondo di questioni gnoseologico-ontologiche e culturali come fondo da cui la politica “emerge”.

Proviamo a sviluppare ulteriormente l’argomento.

Be’ l’ontologia della complessità è in genere sistemica ed i regimi politici sono senz’altro sistemi. I tre sistemi del logos tripolitikos classico sono quello dell’Uno, dei Pochi, dei Molti. Pare poco complesso il caso dell’Uno che ordina tutto il Molteplice sottomettendolo al suo ordine rigido. Sembrano più complessi i casi dei Pochi dove si potrebbe dire che un sistema minore governa il maggiore (oligarchie liberali) ed il caso dei Molti (democrazia più o meno reale) dove siamo in piena auto-organizzazione adattativa con continue emergenze, il caso direi più preciso di corrispondenza tra complessità e politica.

Il sistema pienamente democratico (quindi non ci riferiamo alla versione di “democrazia di mercato” che fa venire l’orticaria solo a pronunciarla o la democrazia liberale che non si vede perché deve esser liberale e non ad esempio socialista o la democrazia costituzionale formale, la democrazia reale non dovrebbe avere qualificazioni ideologiche, solo funzionali), sembra essere la perfetta declinazione della logica della complessità in politica. Potremo dire che così il mercato ideale lo è per lo scambio e traffico economico, la democrazia lo è per il contesto politico. Non confonda questo binomio, il mercato va nell’economico non nel politico e in termini di complessità sociale e politica, dovrebbe esser sempre la democrazia e non il mercato a governare i processi autorganizzati politici. Poi il mercato è un sistema impersonale, mentre la democrazia è fatta di individui intenzionati ed autocoscienti, quindi l’analogia zoppica.

Derive di tutt’altro tipo, l’anarco-liberalismo a dominio di mercato, un caso di estremismo econocratico di destra ed ultradestra, il liberalismo classico e ossessionato da paranoie di totalitarismo maggioritario democratico con la sua smania di “fare il mondo” che invece dovrebbe farsi da sé per magia di mercato (tipo ripetuti fallimenti tra fine Ottocento e primi Novecento che culminano nel ’29 e da cui nasce il neoliberalismo americano ad opera di Walter Lippmann), i sospetti in tal senso dei liberali Dario Antiseri e Giovanni Sartori, gli strali di Friedrich von Hayek, Bruno Leoni e Hans Hermann Hoppe. Hayek, in particolare, oltre a manifestarsi ultra-federalista, avanza l’idea di una demarchia che sarebbe una specie di democrazia miniarchica senza Stato o quasi, basata sul principio dell’estrazione a sorte. Nel 1964, Hayek si lancerà diretto sul tema con “The Theory of Complex Phenomena” anche se dal punto di vista dell’analisi epistemologica. Hayek la testa ce l’aveva, partendo dalla logica mercato è ovvio arrivasse a problemi di complessità e politica. Ci era arrivato anche Adam Smith visto che pare dopo la Teoria dei Sentimenti Morali e l’Inquiry, lavorava al terzo tomo appunto “politico” della sua trilogia. Peccato dette lascito testamentario di bruciare i manoscritti se morto prima di terminare l’opera, che è poi ciò che avvenne.

Tornando invece alla nostra ontologia di sistema politico, la democrazia (reale) è descrivibile come parti (cittadini) in interrelazione (dibattito, confronto, decisione), al fine di esprimere la volontà generale del sistema non somma delle sue parti, ma propria dell’intero.

A condizione vi sia una buona informazione interna e sua circolazione, nonché livelli di conoscenza e consapevolezza di un certo livello ed al contempo, qualità, tutte le parti potranno assorbire gli shock adattativi, ripartendo nel loro totale la pressione adattativa, anche quella improvvisa e fuori scala. Questo fa del sistema democratico, o meglio farebbe, la forma più adattativa possibile vero e proprio veicolo in cui ci potremmo e dovremmo rifugiare per proteggerci e sfidare il contesto. Altresì, modelli di onesta equivalenza, se non uguaglianza redistributiva (culturale, sociale, economica, di “rinoscimento” che a volte non è neanche materiale), aumenterebbero la sua resilienza coordinata interna, la parti sarebbe sollecitate alla solidarietà. La sua elasticità, le sue capacità di assorbimento, la sua capacità di riformulazione, sarebbero pienamente nella logica di dinamica adattativa, vero e proprio sistema omeostatico sociale in grado di compensare gli sbalzi termici della dinamica della nuova Grande Transizione.

Certo, va concesso che le lungaggini e complicanze umane rallenteranno il funzionamento del sistema, tuttavia un sistema lento ma adattativo è sempre meglio di uno veloce che alla prima curva va fuori a schiantarsi. Non è la sincronia temporale il dovere categorico, anzi de-sincronizzarsi un po’ permette la pianificazione delle previsioni. È la gestione delle interrelazioni e la gestione degli impatti e perturbazioni, nella capacità di riformularsi, che si gioca la partita.

Ma ricordiamolo, senza informazione, conoscenza, redistribuzione, dibattito e soprattutto tempo, tutto ciò è precluso in partenza. Su gravi asimmetrie nella capacità culturale, non si fa alcuna democrazia, scordatevelo, non ha senso. Inoltre, la democrazia non sarà mai un sistema che si applica A,B,C,…Z et voilà! Ecco il migliore di mondi possibili!!! Una democrazia è un processo di costante evoluzione che andrà continuativamente curato, fertilizzato, indirizzato anzi, in grado di farlo da sé. Come si dice in questi casi: auto-istituente.

Il sistema democratico reale dell’entità “x” avrebbe poi a interrellarsi agli altri sistemi presenti del suo ambiente. E qui rientriamo nelle normali logiche delle Relazioni Internazionali, dove però la “politica” che dovrebbe seguire la strategia deliberata e condivisa, sarebbe -di nuovo- patrimonio comune delle parti. Qui, sarebbe da notare che, un sistema politico democratico reale, opererebbe dalla decisiva decisione a monte su sistemi autonomi o eteronomi, ovviamente in direzione dell’autonomia, del darsi la legge da sé. Ma per praticare autonomia, in quel contesto, è richiesta potenza e potenza chiama massa.

Per l’Italia, una condizione eteronoma è l’attuale ovvero NATO o NATO no. Il nomos è NATO non Italia, il maggiore deve o no deve subordinarsi al minore? O s’intende NATO maggiore di default (se non si è cittadino democratico reale italiano)? Una condizione di autonomia strategica farebbe un altro ragionamento e cambierebbe assetto. Partirebbe dalla domanda: quale forma di sistema militare difensivo è necessario all’Italia nell’ambito di una transizione multipolare? C’è bisogno di massa, potenza e tecnologia, non certo di livello nazionale, anche in caso di dichiarata neutralità. Allora, geopoliticamente, sarebbe utile avere alleanza di luogo e prospettiva, ovvero nazioni omologhe nel Mediterraneo europeo, geografia dice quello. Cioè? Cioè le greco-latine-mediterranee con le quali -uniche per caratteristiche storico-culturali- si dovrebbe e potrebbe fare anche una necessaria unione politica federale (del resto è nella logica della Difesa pretendere unità politica). Si tratterebbe di un sistema da 200 mio di unità, terza potenza economica planetaria, dotata di sua moneta, tendenzialmente pacifica ma ben conscia dei doveri di difesa. Anche al limite inserita in NATO, ma con un peso ed autonomia stretegico-tattica diversa da quella che oggi hanno Italia, Francia e financo Germania. Un sistema che comparato a Russia, Turchia, Israele, Egitto, Nord Africa e Shael, avrebbe la sua posizione e peso non secondario (dotato ovviamente di atomica fornita dai francesi). Anche in vista dei benefici di ritorno dello sviluppo militare che sappiamo quanto traino danno alla ricerca e sviluppo tecnologico, che oggi ci vedono tutti supini clienti del centro americano, soprattutto nell’info-digitale, catena e guinzaglio di dipendenza obiettiva che andrà avanti per anni ed anni. Anche in vista di un possibile sviluppo di militare sì, ma difensivo, un mercato che a dimensione mondo potrebbe trovare molti interessati. Nel mondo multipolare, è probabile incontrerebbe molta positività il potersi schierare in modalità “attento ad attaccarmi” senza per questo sotto-intendere “altrimenti ti attacco io, magari prima che lo faccia tu (si vis pacem para bellum)” che porta sempre un fraintendimento ambiguo e provocatorio.

Era in fondo questo l’ambito di riflessione che animò l’idea di Impero latino di Alexander Kojeve negli anni ’50[xi], prima che la Francia aderisse alla NATO e stante che il filosofo era in realtà anche un reale funzionario del Ministero degli Esteri francese e con l’idea entrava nel dibattito strategico di quel Paese appieno. Paese che promuoveva l’idea operativa di un Comunità Europa di Difesa (CED 1954) poi sabotata in approvazione proprio dai francesi, lasciando morire la linea delle unioni politiche e quindi vive solo quelle delle unioni economiche prima di mercato, poi monetarie con appalto sostanziale di difesa agli atlantici, una chiara devoluzione di autonomia.

Invito chi legge a non avere davanti il mondo in ottica fissa al momento di adesso, ma il mondo che potrebbe essere, che noi stessi potremmo costruire intenzionalmente e seguendo linee teoriche che prescindono dalla triste contingenza (Macron, Meloni, von del Layen etc.). Le idee di Kojeve erano nella logica delle cose, la logica delle cose ha una sua forza, sono le “nervature dell’Essere” che ogni macellaio deve rispettare secondo Platone, quando taglia e porziona la realtà.

L’esempio mostra ai persi nel dilemma EU-NATO vs Sovranità, che se ci riferisce liberamente al contesto che è poi quello che detta la realtà adattativa, il problema è un altro e la soluzione pure. Ecco cosa porta un sistema che si vuole strategicamente autonomo, su base di interesse generale condiviso, a riformulare il contesto e le regole di interrelazione. Questo è un esempio di modalità adattativa attiva, non accettare le partizioni date, date da precise immagini mondo non perché date oggettivamente.

Inoltre, politica e mondo oggi significa anche ambiente e clima. Di nuovo, massa e potenza sono richiesti anche per affrontare queste compatibilità problematiche. Un nuovo soggetto politico-giuridico-militare-fiscale (uno Stato, federale quanto di vuole, ma uno Stato pieno) latino-mediterraneo, potrebbe essere mediatore di equilibrio tra le diverse aree mondo, anche in base la sua dotazione naturale, l’età dei suoi abitanti, un posizionamento di “quasi saggezza” che ci converrebbe tutti adottare tra mondi giovani asio-africani ed i vecchi occidentali in decadenza forzata.

Infine, il tempo. Una piena democrazia permette la navigazione temporale adattiva, cambiando di continuo forme ed azioni adattative verso l’esterno, riformulando continuamente l’interno. “Del doman non v’è certezza” diceva il poeta ed in condizioni di incertezza meglio comunque dotarsi di condizioni di possibilità, di “in potenza” da trasformare “in atto”. Una democrazia reale è in grado di far tutto ciò molto meglio del sistema dell’Uno che trascina tutti, dei Pochi che trascinano i Molti non mettendosi mai in discussione e quindi soffocando di principio l’emergenza dell’interesse generale.

Ci sembra di poter dire senza forzature che un sistema democratico reale, mostra gradi di fitness adattiva ad un contesto in piena e profonda, accelerata transizione epocale, maggiori di ogni altro, complessità e democrazia si coimplicano.

Segnalo che in Italia, fa fuoco diretto sul tema del nostro argomento, la riflessione di Roberto Menotti (ISPI, ASPENIA)[xii], di impostazione atlantico-liberale[xiii] ed Ernesto Paolozzi[xiv], liberale crociano ahinoi deceduto anche giovane nel 2021. In ambiente teorico crociano troviamo anche Giuseppe Gembillo (nonché figura storica del pensiero sulla complessità italiana, stretto amico di Morin, non meno degli altrettanto storici Mauro Ceruti e Giancluca Bocchi[xv])  e questa tradizione risale alla Scienza della Logica di Hegel. Non risultano invece sviluppi nell’area di sinistra ma del resto non ne esistono su tanti altri temi essendo la produzione culturale di quell’area sotto paralisi da trauma, pare, incurabile.

Un sintomatico caso di sconfortante confusione, chissà quanto politicamente voluta, da parta di alcuni ambienti epistemici liberali o neoliberali nella stroncatura di Sophie Chassat , che ha eccitato le menti vivaci de il nostro italico Il Foglio . Un caso inquietante in cui la complessità diventa un “dogma” ??? Oddio, dopo i sei volumi de la Methode, parlare di complessità-dogma è davvero una canagliata intellettuale. Del resto, nei dibattiti, che si fa fatica a definire tali, sulla guerra russo-ucraina, ogni richiamo a livelli meno elementari dell’invasore-invasato, alzava alti lai di effrazione morale. Ma, tutto ciò, anche un caso paradigmatico da assumere autocriticamente dal parte della cultura della complessità, sulla vasta ignoranza che l’accompagna e forse un certo eccessivo abbandonarsi su una eccessiva indeterminatezza teorica o sotto-determinazione teorica su cui alcuni di noi indugiano più del dovuto, con linguaggi inafferrabili ed idee nuvolose.

A proposito delle platoniche nervature dell’Essere, si trovano inaspettati echi positivi di questa logica, nell’opera del sistemico bolscevico A.A. Bogdanov[xvi]. Quivi, spicca la proposta di una nuova disciplina multidisciplinare la Tectologia, in cui troviamo sistemica e cibernetica della prima ora, del tutto indipendente dai successivi corsi e sviluppi di area americana, un caso parallelo e quindi interessante, di simile ordine mentale sgorgato dal rapporto col reale a distanza. Ma anche linee di revisione filosofica teorica del marxismo-leninismo. Bogdanov sarà uno dei fondatori del bolscevismo, poi in aperta divergenza con l’amico Lenin. Con un po’ di fantasia, si troverebbero accenni di complessità nella Dialettica della natura di Engels, derivati sempre da Scienza della logica di Hegel.

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Concludiamo questa piccola ricerchina su COMPLESSITA’ e POLITICA. A) La parziale egemonia americo-scientifica sulla cultura della complessità, ha portato ad una scarsa presenza riflessiva generale a cui fa un po’ eccezione l’area continentale, come sempre in questi casi; B) pochi però hanno trattato il tema in senso analitico e non sintetico mettendoci sopra le proprie preferenze ideologiche che fossero liberali o progressiste; C) a livello analitico invece, complessità e politica sembrano coimplicarsi fortemente e forzatamente, ma soprattutto positivamente.

Proprio un sistema di democrazia reale cioè radicale, sembra mostrare i più alti livelli potenziali di fitness adattativa ad un mondo complesso travolto nella Grande Transizione. Sul concetto di Democrazia Radicale torneremo in seguito con maggior profondità concettuale, in articoli di studio dedicati.

Dove quello che alcuni ritengono erroneamente utopia, si mostra buonsenso, sempre avercelo anche nell’impianto di giudizio dell’immagine di mondo.

[Una versione parzialmente diversa dal sito del nostro Festival: https://www.festivalcomplessita.it/politica-e-complessita/]

Nota: con “democrazia radicale” s’intende una forma di democrazia costruita su principi estratti (quindi non su modello) dall’esperienza storica antico-greca. Principi da elaborare ovviamente, riadattare, valutare ed integrare. Ha poco o nulla a che fare con la definizione di democrazia oggi più o meno in atto nei paesi occidentali, e non solo sull’asse diretta-rappresentativa. Anche la democrazia intesa come nostro dettato Costituzionale, per un democratico radicale, non è vera democrazia è repubblicanesimo,


[i] https://www.doppiozero.com/cornelius-castoriadis-la-democrazia-oltre-la-crisi

[ii] E. Morin, Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana, Mimesis 2020

[iii] https://www.doppiozero.com/edgar-morin-vita-incontri-fatti

[iv] E. Morin, Terra patria, R. Cortina editore, Milano, 1994

[v] https://www.arte.tv/it/videos/106738-003-A/intervista-a-bruno-latour/

[vi] P. Sloterdijk, Il rimorso di Prometo, Marsilio editore, Venezia ì, 2024. Qui in Italia anche Alberto de Toni, A. Vianello, R. Marzano, Antropocene e le sfide del XXI secolo, Meltemi editore, Milano, 2022. Anche De Toni è figura storica del pensiero complesso in Italia, oggi è sindaco di Udine.

[vii] E. Morin, I miei filosofi, Edizioni Erickson, Trento, 2013

[viii] https://www.docenti.unina.it/webdocenti-be/allegati/materiale-didattico/34168036

[ix]https://www.castelvecchieditore.com/autori/daniel-innerarity/

[x] D. Innerarity, Una teoria della democrazia complessa. Governare nel XXI secolo. Castelvecchi, Roma, 2022

[xi] A. Kojeve, Il silenzio della tirannide, Adelphi, Milano2004; da p. 163: Impero latino.

[xii] https://www.youtube.com/watch?v=MPwu273CGvM

[xiii] https://www.ernestopaolozzi.it/la-complessita-della-politica-e-la-politica-della-complessita/

[xiv] https://www.ernestopaolozzi.it/ + https://www.ernestopaolozzi.it/la-complessita-della-politica-e-la-politica-della-complessita/

[xv] https://www.mauroceruti.it/la-sfida-della-complessita/

[xvi] https://it.wikipedia.org/wiki/Aleksandr_Aleksandrovi%C4%8D_Bogdanov

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PENSARE CON MARK FISHER.

Di recente, ad un mio post sulla mi pagina fb, un gradito commento citava Realismo Capitalista (2009-2018) di Mark Fisher e mi ha spinto a colmare la lacuna di lettura che non avevo fatto del famoso testo del giovane britannico, poi sfortunatamente suicida. Il testo è post crisi 2008-9 sebbene sia arrivato in Italia solo nel 2018. Non ne scrivo però una recensione tipica, userò il testo per pensare con l’Autore.

A base, l’Autore era britannico (1968-2017), filosofosociologocritico musicaleblogger. Se ce una cosa che emerge con forza dal suo racconto è che vivere in Gran Bretagna, che una sorta di paese da totalitarismo neoliberista, deve esser un vero incubo. C’è ormai ampia letteratura scientifica sulla massa di multiforme disagio (sociale, psichico, esistenziale, epidemia bipolare, dislessia) che correla le società soprattutto anglosassoni e questa marea di malessere senza speranza. Tenuto conto che capitalismo, liberismo, neoliberismo etc sono tutti fenomeni antropo-storici ad origine anglosassone, c’è da evidenziare come orami l’iniziale loro auto-promessa di bene comune (common wealth) sia stata tradita alla grande, il modello produce negatività crescenti. Segnale di fine parabola del suo ciclo storico? Vedremo, le fini possono avere code molto lunghe.

Il concetto di -realismo capitalista- deriva direttamente dalla perdurante influenza del “There is no alternative” della Thatcher. Realismo ha due significati possibili però. Secondo letture per altro errate sotto molti punti di vista, logici ed empirici, è realistico attenersi solo ed esclusivamente a come è la realtà, la realtà detta la legge dell’unico modello possibile. Questo era il senso che gli dava la Thatcher. Ma realistico è anche la verifica di contenuto possibile, potenzialmente reale e concreto, che può avere cosa che ancor ancora non è, cosa che non è svolazzo ideale, una cosa possibile. In pratica, che tenga conto della realtà prima di partire troppo per la tangente. Io sono un realista di secondo tipo, ad esempio, non del primo. La questione si ripete col concetto di adattamento. Il “ti devi adattare” per alcuni significa conformarsi passivamente al contesto, ma può invece anche significare “devi trovare accordo col contesto, magari cambiandolo per facilitarti l’accordo”. I castori adattano i fiumi al loro stile di vita con dighe mentre imparano comunque a nuotare. L’uomo per tutta la sua storia ha modificato l’ambiente per facilitarsi l’adattamento, l’adattamento è una relazione a due vie non ad una via.

L’ideologia neoliberale è una versione estrema della famiglia liberale che vorrebbe mostrare una contrapposizione irrisolvibile con lo Stato, ma internamente, di sua struttura e riferimento cui è legata in concreto, in realtà capitalismo e liberalismo ed anche neoliberalismo non sarebbero mai esistiti senza l’essersi impossessati di Stati. È questo un punto su cui torneremo altrove con un post dedicato. Ho cominciato a riflettere sulla teoria dei comunisti sullo Stato, la sua presa e gestione futura, ma è improduttiva, non funziona e non è oggi utile. Ma la ricerca deve andare avanti perché quello è il punto dei punti della trasformazione politica, sociale e culturale decisiva.

Il realismo capitalista ha ormai desertificato il campo ideologico e quello utopico, niente ideologia (diversa da quella “liberale” che però non ama presentarsi tale ma come realismo intrascendibile) e distopia come orizzonte altrettanto intrascendibile. Forse poco noto, ma Utopia (More) è genere che nasce inglese, distopia (Stuart Mill) -ovviamente- anche. L’antropologia ufficiale è hobbesiana, cane mangia cane, winner-loser, tradizione tutta anglosassone. Dentro questo coerente recinto cognitivo ed emotivo senza speranza, è impossibile in linea di principio pensare alternative. L’impossibilità retroagisce sulle volontà, si deve introiettare tale impossibilità che diventa depressione, realizzando così i suoi presupposti quietistici. Alla fine, siamo noi stessi a cooperare per rinforzare questo stato di quiete coatta per adattamento passivo.

Aiutandoci con vari storditori ed anestetici: droghe, medicine, finte passioni, Playstation, smartphone, porno, maratone di serie televisive, disimpegno, assenza di pensiero critico, conformismo, gregarismo, passività varie, futilità, deliri narcisistici, edonismo annoiato. In realtà, l’individualismo di massa così realizzato, è distruttivo proprio dell’individuo, è un totalitarismo individualizzato ma poiché vibra all’unisono, è davvero da sciame. Gli insetti eusociali, notoriamente, non sono propriamente individui in biologia. Ora addirittura i germani liberalizzano le droghe leggere per “reggere” il raggelante silenzio di un Paese che di colpo sembra aver perso la sua statura culturale al centro dell’Europa che quanto a “statura” e “culturale” sta scivolando nella insignificanza afasica.

Così scompare il sociale e con esso il politico. Hai problemi? Sono i tuoi problemi personali. Ti preoccupa la questione ambientale, datti da fare tu personalmente, è colpa anche tua. C’è la povertà del mondo? fai la carità. Così per il disagio psichico. Non gliela fai per lo stress o l’ansia? Pillole! Ogni problema è sempre privato, non sociale. La società non esiste, è una illusione infantile e romantica. Il tutto porta all’impotenza riflessiva, l’edonia depressa.

Ci sono però precise ragioni per le quali la tradizione anglosassone non ha il concetto di società, non aveva la polis. Barbari seminomadici presi a clan aggrovigliati in faide, dispersi in spazi di natura matrigna ed avara. Ebbe ben a dire Bacone che la natura doveva esser trattata da puttana da sottomettere alle nostre voglie e bisogni, era arrabbiato e rancoroso con mamma. Sino a quando l’olandese frisone De Mandeville non rivendicò il diritto di fare l’impero dei vizi che producono oro, doppio godimento, rigorosamente individuale ed egoista. Massa di sociopatici alienati. Nulla di politico, può uscire da questa ontologia elementare e puntiforme semplicemente perché la polis non può esser messa a fuoco, non ne hanno traccia nel DNA culturale. Ad un mediterraneo, tra pecorelle, aranci ed ulivi, al tiepido sole riflesso dal mare, la piazza, la Pizia, una roba del genere, non sarebbe mai venuta in mente. E ci hanno pure convinto della nostra minorità, loro biondi dolicocefali superiori a noi che abbiamo creato la civiltà. Roba da non crederci! Del resto il moderno razzismo l’hanno inventato loro, F, Galton, cugino di Darwin. Da parte nostra, imparando dai movimenti di risveglio ed orgoglio della propri identità culturale nel fu Terzo mondo, si tratterebbe di rendergli reciprocità, avere un po’ di razzismo a due vie, light ed ironico, cominciare a fargli presente quanti e quali bug storici, genetici e culturali hanno accumulato ed imposto a nostro danno e non solo. Strano parlare così degli anglosassoni partendo da un britannico? Ma i britannici non sono tutti anglosassoni, britanni, celti, scozzesi, gallesi, misto romani, cornish, irish, sono altro, sono anche cooperativi, anarchici, critici acuti, non meno sociali di noi, alcuni più di noi sanno ed hanno subito l’élite anglosassone sulla loro pelle. Infatti si odiano, neanche una nazionale di calcio o rugby fanno assieme.

Con gli americani è un po’ diverso, ci sono molti scandinavi e direttamente sassoni come ci ricorda sempre Dario Fabbri.

Sii smart, flessibile, nomadico, spontaneo, creativo, adattativo, veloce, multitasking, propositivo, sanamente egoista, antiempatico ma simpaticamente, cinicamente. Stare bene, apparire bene, curare il corpo ma non la mente. Il tuo corpo ci serve, la tua mente “o no per carità!”. A che ti serve la mente? Intelligenza dici? Ma ora te la diamo noi, artificiale, più efficiente della tua. Smart, collegata con le cose, generativa. Un esercito di imbecilli tecnoentusiasti officia il coro di giubilo per l’upgrade umano che sta per arrivare, tipo esercito di bestioline verdi con tre antenne di Men in Black.  

Modello unico collettivo, quando proprio necessario, l’ontologia imprenditoriale. Diventa imprenditore di te stesso, diventi impresa la scuola, la sanità, la politica stessa, ogni forma di gruppo umano, le aziende ovviamente ovvero il lavoro. Ecco perché non c’è più la società, è diventata una impresa. Che poi una impresa aziendale sia anche una società ed ogni società abbia soci e quindi noi si sia soci naturali della nostra società di cui non curiamo i destini è cosa che non va pensata. Dipendiamo ontologicamente dalle forme di vita associata, dalle origini primate in poi, ma non dobbiamo curarci di come va la nostra società, decide lei come deve essere, poi ce lo fa sapere e noi dobbiamo solo adeguarci. Che noi si abbia diritti ed anzi doveri di azionariato attivo, ci è ignoto, negato, sconsigliato vivamente in molti modi. Non saremo in grado, ci dicono. Ci siamo dimenticati che invece siamo i proprietari naturali dell’impresa sociale, per diritto biologico di nascita. Noi non siamo capitale umano siamo capitalisti sociali, ma non lo sappiamo.

Sono duemilacinqucento anni che ‘sta gente va in giro a dire che non siamo capaci, dall’Anonimo Oligarca già Pseudo-Senofonte ai moderni liberali da think tank americano e cattedra alla Ivy League. Le stesse frasi, gli stessi concetti, la stessa protervia e falsa oggettività, la stessa ridicole arrampicate pseudo-logiche. E noi pure a stargli appresso, come bambini spaventati da cosa ci succederebbe anche solo a dirgli “ciccio, ma che stai a dì?”. Difesa, giochiamo sempre in difesa le rare volte che giochiamo sapendo che tanto perderemo di nuovo e come sempre. Sembra un rito Maya.

V – Vi secolo a. C. eppure c’è tutta la filosofia politica di ogni forma politica basata su élite, fino ai deliri espertocratici attuali.

Il tardo capitalismo a deriva neoliberale ha i suoi paradossi. Produce ad esempio volumi sempre più ampi di burocrazia, più avanti Fisher userà la bella espressione di “stalinismo di mercato” mostrare risultati formali senza alcuna sostanza sotto o addirittura con risultati contrari alle attese. Non credendo invero all’individuo, alla sua autonomia, alla sua cultura, creatività, proceduralizza tutto, misura tutto per valutare tutto per ottimizzare tutto. Sapesse poi come.

Nel mio passato da manager di multinazionale, vissi dal vivo questa svolta verso la proceduralizzazione della qualunque, un delirio paranoico con punte di esilarante surrealismo, ma ben ricordo, di altrettante e sistematica allegra distruzione di valore professionale in cambio di formalità fittizie a fini di misurazione finanziaria. Altresì ricordo perfettamente il tempo e le ragioni vantate per la svolta alla flessibilità ed alla distruzione di ogni ordinata forma di lavoro professionale, ero imprenditore. Lo sfondo era la promessa di crescita impetuosa per via delle nuove tecnologie e l’aprirsi delle praterie di nuova intrapresa finanziata da un volume famelico di capitale in cerca di riproduzione. Era l’epopea delle start up, erano gli anni Novanta. Quando poi venne assorbito il codice, si scoprì che tale flessibilità era l’adattamento elastico a condizioni ben meno progressive, era un rendersi compatibile ai rendimenti decrescenti di un mercato del lavoro ristretto dalla globalizzazione. Mentre sopra si elevava al cielo la nuova aristocrazia della ricchezza finanziaria che neanche ti lasciava la mancia dello straccio di uno stipendio decente.

Chi lavora oggi ad esempio nella scuola, sa del tempo perso a riempire moduli inutili a scapito del lavoro culturale vivo, ma vale in molti altri campi. Stante che questa dittatura della valutazione, è indifferente al fatto che a volte si trova a dover “misurare” cose che semplicemente non si possono misurare, non hanno natura misurabile. Ma “i numeri parlano!”. No, i numeri contano. La gente dei soli numeri ha la mente cablata male, da John Nash in giù, l’eroe della Teoria dei giochi, ci hanno fatto pure un film, storie buone da pensare, modelli, esempi: uno schizofrenico? La dittatura delle quantità è cieca per le qualità ed ignora che invero ne dipende ontologicamente.

Questo regime ha il suo tempo unico che è: adesso! Non esiste passato, mai come in questa epoca c’è indifferenza ed ignoranza storica totale, nonché pensiero a lungo termine. Il pensiero di futuro è loro monopolio, magari in dorati hotel svizzeri tutti coca e prostitute e buoni ritiri in Nuova Zelanda, non si si sa mai quando l’AI avrà la maligna singolarità e si metterà a cercarci per farne graffette. Confinati nell’adesso, cosa vuoi pensare ad un possibile altro di prospettiva, magari da costruire nel tempo. Come in Flatlandia di Abbott (Adelphi, Milano, 1993), non ci sono altre dimensioni del punto esatto in cui sei confinato.

Il tutto, nel libro, convocando qui e lì film, serie, romanzi e racconti, musiche, Zizek, Badiou, Wendy Brown, Jameson, Sennett, Harvey, Kafka a più riprese, in un diario del reale al plumbeo tempo della fine di ogni storia.

Anticapitalismo Made in LUISS?

Certo, la condizione poi personale chiaramente depressa dell’Autore fa da sfondo fisso, tuttavia quale poeta o musicista o artista non ci ha illuminato sul dolore umano poiché lo provava più forte ed intenso di noi, pagandone infine le conseguenze sul piano personale? A differenza loro noi poi rimaniamo vivi, ma spesso per provare delle emozioni è a loro che ricorriamo. Sono gli eroi umani che soffrono più di noi perché sentono più di noi, a volte sentono anche per noi.

Chiudo con una constatazione formale. Qui in Italia uno stile di fresca scrittura saggistica à la Fisher non esiste, così come Fisher è stato ed è ancora un culto di molte fasce di giovane generazione, fasce che qui non si esprimono più di tanto, a cui non ci rivolgiamo mai, che non ascoltiamo perché non parlano anche perché presuppongono che non li capiremo. Penso che una volontà di jihad culturale quale ipotizzata in precedente post, dovrebbe porsi questo problema del linguaggio, della forma, dell’apertura mentale e concettuale, della curiosità avida dell’Altro. Il “peso della tradizione” qui da noi è ancora monopolistico, solo saggi professorali, atmosfere gravi e plumbee da “qui si parla di cose serie”, termini da setta epistemica chiusa, rimandi incrociati tra gente che neanche viene letta. Alcuni anche “rivoluzionari”, anti-individualisti, critici della corsa la potere, mentre corrono la loro.

La “freschezza” a volte si esprime su Internet, ma spesso sfocia nell’eccessiva leggerezza, tradisce la voglia di esser consumata, riflette talvolta narcisismi da “date anche a me il mio quarto d’ora di notorietà”! Si dovrebbe andare alla ricerca di un nuovo, giusto mezzo, ma per farlo dovrebbe esserci dinamica sociale e ai tempi che ci sono toccati in sorte di vivere c’è solo da marciare compatti verso dove hanno deciso che si deve andare. Chissà poi se anche loro sanno dove di preciso.

Non facciamo più cose assieme e va bene, anzi va male molto male, ma non siamo più neanche in grado di parlare assieme. Malissimo. Riconnettere menti a parole e bocche ad orecchie, tocca ricablare la società reale prima che che finiscano di costruirne del tutto una parallela a loro unico uso e controllo. C’è poco tempo. Damose da fa’.

Come? Cominciate ad aprire bocca e dargli fiato. Abbiate il coraggio di servirvi della vostra stessa intelligenza, diamine!

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IL GRANDE STUDIO-DA XUE. Confucio VI secolo avanti Cristo, circa 551-479 a.C.

Gli antichi che volevano illustrare la virtù industriosa nel mondo si occuparono prima di mettere ordine nello stato.

Desiderando mettere ordine nei loro stati, essi prima misero ordine nelle loro famiglie.

Desiderando mettere ordine nelle loro famiglie, essi prima si occuparono della loro crescita personale.

Desiderando migliorare loro stessi, essi prima corressero i loro cuori [cuore e mente, in cinese, sono la stessa cosa].

Desiderando correggere i loro cuori, essi prima si impegnarono ad avere una mente sincera.

Desiderando avere una mente sincera, essi prima cercarono di ampliare il più possibile le loro conoscenze.

Per raggiungere la conoscenza, investigarono il principio delle cose.

Avendo investigato il principio delle cose, la loro conoscenza divenne completa.

Quando la loro conoscenza fu completa, la loro mente divenne sincera.

Quando la loro mente fu sincera, i loro cuori/menti furono corretti.

Quando i loro cuori/menti furono corretti, le loro persone migliorarono.

Quando le loro persone furono migliorate, le loro famiglie vissero in armonia.

Quando le loro famiglie vissero in armonia, i loro stati furono ben governati.

Quando i loro stati furono ben governati, il mondo intero visse in armonia.

Dal Figlio del Cielo fino alla massa del popolo, tutti devono

considerare la crescita personale come la radice di tutto.

È impossibile che i rami siano in ordine (se) la radice è in

disordine

Non può essere che si tenga in disordine il principale e in ordine l’accessorio, né mai dato che si tratti con leggerezza ciò che importante e si attribuisca importanza a ciò che è futile.

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Da Xue condensa la filosofia politica di Confucio e del confucianesimo arrivando sino all’attuale Cina “socialista”. Dagli Zhou al Kuomintang, al Partito Comunista Cinese di Mao Zedong, ha strutturato dal sistema degli esami della burocrazia e poi del partito, allo sviluppo della filosofia, della scuola, dei valori civili e sociali.

Esso dava la dimensione sociale e concreta del Dao secondo il Maestro, in differenza alla via taoista più spirituale. È basato sul concetto di auto-formazione o costante auto-miglioramento della propria conoscenza. Ci sono due concetti in questo: il soggetto si fa oggetto e si costruisce intenzionalmente, l’opera è continua e non giunge mai a traguardo. La base di questo processo è lo studio, lo sviluppo ed accumulo di conoscenza, poi sua condivisione.

Se parlate con qualsivoglia insegnante italiano che ha in aula studenti cinesi, vi dirà della loro stretta serietà ed abnegazione, di una votata intensità allo studio che rasenta a volte l’inumano o sicuramente supera di slancio il semplice e distratto nostro “giovanile”. Si è poi soliti aggiungere che i cinesi sono tecnici ma poi non creativi.

In fondo, non diversa pulsione umana rispetto a ciò che muove il capitalismo, l’accumulo di valore, sebbene sia chiara la differenza data dai due sistemi a cosa sia “valore”. Il valore nel caso di Confucio è sociale e comunitario, Confucio si occupa di convivenza, ordine sociale spontaneo, catena della gerarchia che promana dalla natura diciamo spinoziana de il Cielo, cultura dei cittadini, dei governanti e loro distanza. Con la mentalità e la situazione del VI secolo a.C. s’intende, la fine dell’era Zhou. Poco dopo questo rimando alla tradizione di Confucio, esplose la storia e la cultura, ci sarà il per altro fertilissimo periodo delle Cento scuole.

Confucio è iscritto dal filosofo tedesco Karl Jaspers, nell’’Era assiale che, secondo lo stesso, comprende: Confucio e Lǎozǐ, Mòzǐ, Zhuāng Zǐ, le Upaniṣad, Buddha e Zarathustra Elia a Isaia e Geremia, fino a Deutero-Isaia quindi la formazione monoteistica. La Grecia di Omero, Parmenide, Eraclito e Platone-Aristotele/Socrate, teatro tragico. Tucidide e Archimede.

Tra massimo VII e V-IV secolo avanti Cristo, è come se una straordinaria fioritura di pensiero e Spirito, logica e filosofia, scienza e religione, fosse promanata da vari parti del mondo in sincronia. Ciò andò a formare l’asse del mondo che da allora prende a girare il mondo delle nostre culture.

Una volta ritenuta quasi magica come sincronia dato che non c’era Internet e la cultura globale, oggi invece sappiamo delle reti di contatto ed influenza reciproca da parte di questi sistemi di pensiero. Furono i mercanti gli interrelatori. I greci furono perturbati dall’onda asiatica e questa originava all’estremo oriente, correndo in India e centro Asia, fino al Levante.

“Ampliare la conoscenza significa investigare a fondo le cose”, ciò porta al perfezionamento del proprio cuore/mente. L’esortazione è “Oggi rinnovati veramente, rinnovati ogni giorno ed un giorno, rinnovati ancora”.

Velleitario? Sono duemilacinquecento anni di storia che il popolo cinese segue questo (ed altri) insegnamento. Quanto bene e con quale profitto a Voi giudicare.

Quando cito la mia scelta di votarsi a “vita confuciana” intendo ciò che decisi di fare tanti anni fa spontaneamente, sotto influsso dello studio di questo ed altri testi del Maestro cinese, ma forse solo “umano”. Allievo testone e non poco negligente, per altro senza Maestro accanto che si più fatica. Naturalmente, di tutto ciò si può fare anche la critica sociale e politica, anche se secondo me tutto ciò è ad un livello superiore la lotta delle idee dentro la società, riguarda la società nel suo complesso, è regolamento di gioco non gioco specifico.

[La traduzione è quella che è, l’ho presa da Internet, ho solo cambiato il finale poiché era reso in maniera orrenda, copiandolo dal testo diciamo più ufficiale de: I quattro libri di Confucio, UTET 1974. Il testo invero si ritiene scritto dagli allievi e scuola che ruotava intorno a Kong zi e tramandato nei secoli con lievi aggiustamenti. Gli altri libri sono La pietà filiale, I Dialoghi, L’invariabile mezzo (non poi così diverso dal concetto di “giusto mezzo” di Aristotele)]

Se vi appare il ghigno acido di Tremonti, il commercialista lombardo (barbari germanici) con la erre arrotata, che dice “Sì ma con la cultura non si mangia”, deducetene il perché di tante italiche cose.

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LA QUESTIONE DELL’EGEMONIA NEL XXI SECOLO. Politica e cultura ai tempi del mondo disperso.

Egemonia è antico concetto greco che si pose il problema di come una parte minore eserciti potere anche indiretto e spesso guida più che comando, su una parte maggiore. Era di origine militare. Poi Gramsci lo trasferì nell’agone culturale.

Lì, nonostante le obiettive contraddizioni sociali che avrebbero fatto pensare ad un rapido sviluppo del discorso e sviluppo politico comunista e socialista primo Novecento, la presenza di una forte egemonia delle classi dominanti, impediva il contagio delle idee e la loro trasformazione in azione politica collettiva. Gramsci ragionava a griglia di classi, aveva una ideologia, sostenne l’idea del “soggetto collettivo” fatto di partito operante culturalmente, socialmente, politicamente in riferimento alla classe sociale di riferimento, potenziato dagli intellettuali. Ma lo invitò a dar battaglia per l’egemonia prima di realizzare i suoi progetti concreti, proprio per creare le condizioni di possibilità per ottenere quel fine. Il campo delle idee e del loro pubblico discorso, discussione e condivisione, andava emancipato dal meccanicismo sotto-sovrastrutturale, roba da meccanica newtoniana tipo rivoluzione industriale.

Non so quanti di voi sanno dell‘estremo successo che questo concetto ha da decenni nella cultura politica ed intellettuale americana. Da W. Lippman e la nascita delle Relazioni Pubbliche, prima addirittura col nipote di Freud Bernays, fino a J.Nye ed il suo soft power ora smart power, il coro pubblicitario, serie e televisione, il controllo dell’immaginario, fino il porno, Marvel, Hollywood, la musica e molto, molto altro. L’intera costellazione dei think tank, fondazioni, Council, Fondazioni, giornali e riviste, convegni e dibattiti, libri, accademici, vi si basa, da Washinton al mondo, quantomeno occidentale. Tutta la costellazione dei servizi di sicurezza ed informazione americana ne è formata. Si studia nelle università, l’hanno sezionato da Ellul a Chomsky. Ne pariamo tutti i giorni riferendoci al coordinamento stalinista del mainstream. L’intero Internet ne è l’infrastruttura, i social ne sono i nodi. L’universo media in cui siamo immersi come girini nello stagno, ne è il contenitore ultimo.

A questa egemonia invincibile, l’area critica cosa oppone?

In genere, il rimpianto delle scomparse condizioni di possibilità esistenti dopo Gramsci. Un intero partito, il Partito Comunista Italiano, ne conseguì la lezione. Giornali, riviste, associazioni, presenza nella scuola, nel teatro, nel cinema, nell’editoria, naturalmente partito (nazionale e territoriale diffuso) e sindacato. Il PCI arriverà addirittura ad un 34,4% dei suffragi nel 1976, un inedito nella sfera occidentale. Ma nella sfera del discorso e della cultura, stante che la cultura era struttura importante della vita pubblica, il peso ad alone era anche maggiore. Lo capì Berlusconi, il quale, provenendo empiricamente da una stessa sensibilità quasi animale per il discorso, la persuasione, la fascinazione (ce l’hanno tutti i venditori di qualcosa), attaccò frontalmente con cosce, risate, disimpegno, liberazione dalla pesantezza catto-comunista, liberazione degli istinti, dei vizi privati che farebbero una inedita pubblica virtù: aumentare il benessere e la ricchezza. Divertendosi pure.

La plumbea e triste cappa di autoconsapevolezza del realismo contrito che portava la coscienza politica anni ’70 e relativa frizione sociale, veniva squarciata da “”Vamos alla playa!” con uno sfondo di promessa d’accoppiamento e successo sociale da esibire.

Altresì, i figli della stagione precedente, caduti ormai in un buco nero di sconforto ideologico per crollo della realtà sotto forma di Muro e poi Stato sovietico, per quanto non certo questo un reale riferimento politico concreto, hanno da lì in poi rimpianto le certezze del sistema classe+parito=soggetto. Niente soggetto, niente azione politica, quanto alla “classe”, vattelapesca oggi come è oggi la partizione sociale dove la psicografia soverchia la logica sociodemografica.

Si possono portare avanti progetti di egemonia o sfida ed anche solo minimo contrasto, senza i dispostivi classe+partito? Cosa darsi a riferimento se non si ha la possibilità di varare prima un soggetto? Come definire altrimenti un soggetto se non ve ne è uno sociale tagliato precisamente da concrete condizioni? Cosa comporta il fatto che oggi il concetto di “classe” non può far conto su una precisa faglia di popolazione con caratteristiche omogenee?

Nella teoria dei sistemi c’è molto catalogo di forme. Un sistema è formato da una ricetta semplice. Prendete parti, le interrelate tra loro, si saldano naturalmente e fanno una roba maggiore delle sole parti, perché hanno le interrelazioni. Due umani di sesso diverso fanno famiglia, ad esempio, ora alcuni pensano di poterla fare anche se non di sesso diverso. Tali sistemi vivono in un ambiente di sistemi e se sono grandi, essi stessi son fatti di sottosistemi. Ne viene fuori un ambaradan complesso, anche perché non è detto che le interrelazioni siano lineari. Lineare è io ti do uno schiaffo e tu me lo restituisci. Non lineare è se mi spari o mi chiedi di fare pace. Si possono formare complesse catene di interrelazioni non lineari nella catena sistemica. Il tutto si svolge in un contesto con cui i sistemi hanno relazioni da e per. Il concetto che presiede questo stato di compatibilità è il reciproco adattamento. Infine, l’intera questione è una storia, un fenomeno che sta nel tempo, ha una origine, svolgimento, fine o trapasso ad altro. 

Provate ad immaginarvi questo cubo pieno di cose (una sfera, quello che vi pare) che sono sistemi con sottosistemi al loro interno e con interrelazioni tra quelli maggiori che si agitano in un ambiente delimitato da una cornice che fa da contesto in un dato tempo e per un dato tempo. Questo inquadramento può ospitare il mondo intero, quello materiale e quello immateriale. Dai quanti agli ammassi di galassie, dai fonemi ed alfabeti all’intera storia culturale umana, inclusa la religione. Questo impianto descrive il mondo, è in grado di leggerlo ad una certa grana. Non lo interpreta lo offre all’interpretazione, non lo pre-giudica lo offre al giudizio, è solo utile. Non esiste in natura nulla che sia un Uno completamente irrelato, non esiste nulla che sia assoluto. Assoluto viene da -ab solutus-, sciolto da legami. Nulla è sciolto da legami nel grande intreccio del mondo, incluso tu ed io. Tutto è fatto di cose che hanno legami tra loro.

Tale descrizione vale per qualsiasi macchina creata dall’uomo, per l’uomo stesso, per l’intero cosmo, per l’universo delle idee, dei concetti, dei discorsi e delle teorie. Certo, il sistema meccanico ha sua logica, quello biologico anche, quello mentale figurati, quello sociale di più, quello economico-politico anche, quello fisico dipende dai componenti, quello metafisico anche. Ma c’è uno strato del reale studiato da una disciplina negletta, la chimica, che è proprio lì dove si cucinano i totali maggiori della somma delle loro parti. Dalla chimica poi diparte tutto il mondo organico ed inorganico, financo il mentale quando nell’organico s’accende il sistema nervoso. Lo sguardo chimico indaga nella sezione del reale tra il fisico e il biologico, il minerale, l’aeriforme, il liquido.

Il bello epistemico della chimica è che propriamente non ha “leggi” come la fisica (a parte le leggi ponderali che gli sono base per gli aspetti quantitativi delle masse), ha regole, leggi di valenza parziale e fino a caso contrario (che spesso abbondano). Questo perché la chimica risente sempre del contesto in cui opera, non è tutta in sé per sé. Spesso, il nostro pensiero teorico è fortemente influito dal meccanicismo newtoniano poi positivista, tutta roba del XIX secolo, roba che non va più bene, quantomeno nella sua presunzione paradigmatica. Come si possano dire “leggi” in economia o storia o filosofia o psicologia o sociologia è sintomo di quanto male pensiamo. Leggi ci sono in fisica e giurisprudenza, punto. In pieno delirio di potenza potete aggiungere che la vostra individuata legge, ad esempio in economia o politica, è di ferro, di bronzo, d’acciaio, ma state solo facendo dell’immaginaria metallurgia della certezza dato che inconsciamente sapete che non potete star altro che in uno stato reale di incertezza.

La chimica è la scienza dei legami, roba da orticaria per un liberale. Poiché invece tutto il reale è fatto di legami tra cose, varrebbe la pena di studiarli un po’ di più. A me ha sempre fatto impazzire la “regola dell’ottetto”. Pare che gli atomi tendano a formare molecole che poi sono stabili se hanno otto, non meno e non più, elettroni nell’ultima orbita esterna (i chimico-fisici perdoneranno da qui in poi le semplificazioni, spero). H2O è un caso tipico. C’è quindi una logica di equilibrio interno nelle unioni. Ci sono poi le “affinità elettive” avrebbe detto Goethe, le tendenze a maggiori o minori interrelazioni che formano legami. Poi ci sono i catalitici, oggetti che fanno da base per appiccicare atomi o molecole tra loro, partecipano prestandosi come base, poi se tornano a fare gli affari propri. Solone fece una cosa del genere creando i presupposti della successiva stagione democratica ateniese. Chissà perché lo fanno. Non sono i federatori, soggetti guida dei processi di formazione sistemica, poi leader in genere, non hanno interesse al potere se non quello di aiutare a creare maggiori da minori ordinati sebbene dinamici. Vi sono poi processi auto-catalitici, forme di ordine spontaneo di incredibile precisione, dinamica e splendore, vedi acustica e termodinamica. Gli oggetti molecolari poi gradano tra meno di 0, tra 0 e x, oltre x passando dal cristallo al fluido all’aeriforme, sempre con loro logiche di legame. La mano invisibile è un concetto di questa famiglia, un po’ semplificato e idealizzato nella scarsa paginetta della Inquiry smithiana; tuttavia, vi appartiene e tenuto conto dei tempi, alla faccia dell’intuizione, Smith in fondo era solo un professore di filosofia morale scozzese, era la seconda metà del XVIII secolo. Certo era scozzese e non inglese, gli inglesi erano molto più rozzi ed essendo rozzi ne hanno reso rozza l’applicazione. La democrazia in senso radicale è la versione politica della mano invisibile, stessa logica ma con contenuto del tutto diverso. Si chiama “autorganizzazione in stati lontani dall’equilibrio” quelli della vita e porta con se il problema degli adattamenti reciproci. Ne vene spesso fuori ordine dal disordine, mica male, tipo da nubi di supernove il nostro sistema solare, casa. Va poi però anche ricordato che a livello precedente, quello fisico, nel macro, agisce anche la gravità, condizione che spinge le cose tra loro ed aiuta la formazione del concreto e l’ordine della sua dinamica. E c’è anche la termodinamica da considerare. Tuttavia, ammassi galattici che hanno la stessa forma del mio e vostro cervello, invero non sono così precisamente cablati, tuttavia lo sembrano funzionalmente.

Tutto l’argomento, in termini di genealogia dei concetti, sta (vagamente) per certi versi in Aristotele, ma soprattutto non sta nella maniera più assoluta in Platone. Quella mano posta a metà tra cielo e terra quando Aristotele passeggia chiacchierando con Platone con l’indice puntato in cielo (come fanno quelli dell’ISIS per dire che c’è un “solo” Dio, nella famosa Scuola di Atene di Raffaello, indica il regno di mezzo dove le cose si formano per interrelazione, impasto, amalgama. L’ontologia ne risente. In questa impostazione si danno i “possibili” ontologicamente reali (res potentia) e la “realtà” con gli ontologicamente reali (res extensa), Il mondo dei possibili è il mondo che poi alimenta il cambiamento, ma debbono esser possibili almeno “in potenza” per poi diventare “in atto”. A questo stato ci riferiamo quando diciamo di dover essere realistici. Non appiattiti sul reale, ma condizionati dalle più strette condizioni di ciò che può esserlo anche se ora non lo è ancora. Da cui anche l’utilizzo processuale del tempo. Le cose hanno e cambiano nel tempo.

Naturalmente, la trappola della falsa analogia è sempre in agguato. Mondo delle idee, dei discorsi pubblici, della chimica soprattutto biologica, della fisica, sono regni eterogenei o hanno similarità che possono trasferire inferenze? È da vedere caso per caso.

Siamo in epoca liquida si dice, siamo privi di soggetto sociale da autocoscienzare per poi affidarci alla sua leadership di liberazione (ma siamo sicuri di questa idea? Era corretta a livello teorico in generale?), siamo senza partito pur essendo di parte. Non c’è niente da fare? Non possiamo dire e tentare di costruire uno straccio di contro-egemonia oggi ai tempi della dittatura liberal-disperante perché non abbiamo un luogo dove condividere mente ed intenzioni e poi voce ed azione? E poi, quale teoria di mondo potenzialmente collettiva e comune abbiamo a cui riferirci?

I concetti di intelligenza collettiva o quello junghiano addirittura di inconscio collettivo, sono consistenti? O presupporre funzioni individuate come l’intelligenza e l’inconscio mentale nel non individuale è solo analogia vaga? Com’è allora che funziona quando effettivamente si vede un aggregato o un sistema che ha coerenza senza essere Uno? Che legami deboli e tuttavia operativi agiscono?

Si può provare a costruire una area di egemonia relativa nel discorso pubblico senza avere un soggetto fisico ed un sistema ben temperato a guida di leader saggi (i leader saggi penso appartengano al nostro infantile immaginario, nostalgia del genitore, di Dio), per autorganizzazione e convergenza parziale e nebulosa e tuttavia operativa, incidente, risuonante?

Chissà, c’è da studiare penso, al solito…

Io mi occupo da anni, tra le altre cose, delle immagini di mondo. L’immagine di mondo altro non è che l’intera mentalità che io e voi abbiamo in testa, consapevoli o meno. Essa è fatta di contenuti e di metodo, di logica, di categorie, di procedure del pensiero. Spesso ci diciamo i nostri diversi contenuti e non ci capiamo o litighiamo. Per forza, partiamo da forme diverse di comporre il pensiero, dovemmo discutere quelle non i risultati, pensare che partendo dai risultati (idee, opinioni) si possa cambiare il retrostante è senza senso o con possibilità davvero deboli. Bene. Tuttavia, in certi momenti sociostorici, si sono formate immagini di mondo abbastanza omogenee e condivise, Atene, Rinascimento, Zeitgeist, decine di altri casi da Montmartre alla swinging London, passando per la NY anni ’60, il movimento alterglobalista. Entità eterogenee ed autonome che condividono almeno parti o gestalt anche vaghe di immagine di modo (più nel metodo che nei contenuti), sono in grado di dialogare, costruire pensiero collettivo e coordinarsi spontaneamente almeno a certi livelli. Presupposto però, è che i portatori di immagini di mondo dialoghino tra loro, abbiano interrelazione, puntino a formare un quadro di maggiore omogeneità relativa.

Noi non dialoghiamo più tra noi. Ognuno di noi intellettuali critici, parla fuori del noi, si rivolge da solo al mondo, fa Hyde Park corner, ha introiettato l’individualismo esistenziale e mentale. Magari ci leggiamo reciprocamente o leggiamo cose simili, ma se non lo discutiamo in comune, la tela non si tesse, il sistema non si forma, l’immagine rimane caleidoscopica. Sta tutta in un tubo, ma non ha forma sua.

Un tentativo di porsi il problema della per quanto limitata contro-egemonia da poter costruire nel tempo (sono cose che si fanno con questa materia prima: il tempo), forse dovrebbe porsi questo problema. Non avremmo i mezzi ed il soggetto, ma potremmo comunque lavorare a formare una meno eterogenea immagine di mondo di riferimento comune, senza per questo immaginare una truppa ordinata allineata e coperta. 

Certo l’impostazione critica di cui qui pur rileviamo problemi, è solo negativa, è condivisione del negativo e il riferimento che critichiamo dà comunque un po’ di ordine. Se dovessimo passare alla fase costruens, la fase positiva, la varietà esploderebbe. Già oggi tra demagoghi populisti, quasi conservatori, destra non conformista, progressisti non traviati, mille sfumature della fu sinistra, ostinati marxisti, vaghe stelle dell’orsa, abbiamo un indice di biodiversità (e confusione) altissimo. Ma tanto abbiamo da occuparci del problema più semplice, per il momento. A coloro che storceranno la bocca per l’estrema eterogeneità dell’elenco pensando subito con ribrezzo il vedersi accumunato a impostazioni del tutto non condivise, segnalo che democrazia radicale prevede la lotta delle idee al suo interno -così come la lotta di classe o addirittura la stasis-, per poi trovare spinta per la lotta esterna che il fine ultimo. Ci sono infatti problemi di egemonia nel sistema per dare poi al sistema la possibilità di lottare contro altri sistemi. L’avversario dominante ha tratti totalitari, si devono opporre masse per quanto poco unificate. Si tratta di idee e discorsi, non ancora di azione politica concreta, di azione culturale. Siamo tutti ateniesi, non siamo spartani, condividiamo la stessa polis, ci piaccia o meno.

Dialogo, logos in comune tra due, discorso non impianto e suoi risultati, semplice discorso, relazione, relazione che forma sistemi tramite legami, anche deboli. Tele, reti, pattern, gestalt, cose di tutti, per tutti e di nessuno, cosa da mettere in mezzo a noi (en mèson), in comune.  

Chissà che comunitarismo, bene comune, senso comune, comunismo, sistemi non abbiano questa stessa radice, radice e radicale che si dice: “Essere radicale significa cogliere la cosa alla radice (Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione)”. Radici, rizomi, tuberi, bulbi. Datemi retta, nei vostri modi di pensiero, abbandonate la meccanica ed avventuratevi in biologia, siamo tutti Bios, perché ragioniamo come macchine?

Capitalismo è macchina, democrazia è Bios.

Sul mondo letto con lenti Bios, segnalo un autore della cultura della complessità americano: Stuart Kauffman, del Santa Fé Institute.

>> https://www.sinistrainrete.info/teoria/27816-pierluigi-fagan-la-questione-dell-egemonia-nel-xxi-secolo.html

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TRITTICO MEDIORIENTALE.

Pubblicherò a seguire, ben tre diversi articoli di analisi di ciò che sta succedendo e potrebbe in prospettiva succedere in Medio Oriente, con epicentro Israele Gaza. Purtroppo, essendo la faccenda complessa, non si può far di meno. Complesso non significa perdersi in nuvolaglie di incertezze indeterminate, quella si chiama confusione. Complesso è ricostruire il groviglio di variabili, loro interrelazioni spesso non lineari, dentro relazioni tra vari sistemi e sottosistemi, dentro contesti in evoluzione, per certi tratti di tempo. Buona lettura ai coraggiosi! [I testi provengono da post mattutini sulla mia pagina fb e forse a qualcuno potrebbe interessare il dibattito che spesso ne è scaturito]

LA TERRA PROMESSA (27.03.04). Perché si chiama “geopolitica”? Be’ perché come insegnano le cartine di Luisa Canali su Limes, tutti i discorsi che fai a parole sulla politica, li devi mettere su una cartina geografica, no? Avete presente? Il territorio, le coste, i fiumi, i monti, i laghi… L’ora di geografia era in genere un relax, ma forse vi siete rilassati troppo visto la vasta ignoranza che circola in materia. In più, visto che siete tendenzialmente idealisti, ‘ste brutte robe concrete della realtà, vi impicciano il libero svolazzo e non le amate troppo. Ravvedetevi se volete capire qualcosa del mondo intorno a voi, il mondo si sta muovendo parecchio di recente.

Allora, dovete sapere che sono anni che si coltiva l’idea di creare un Grande Medio Oriente con Israele pacificato con una parte del mondo arabo di area Golfo alle spalle. Per l’area Golfo, l’opportunità di sfociare direttamente sul Mediterraneo evitando i giri del Persico-Mar Rosso-Suez (Iran, pirati somali, Houti, Gibuti, Egitto-Suez), un allaccio strategico all’Europa. Per Israele, il ruolo di Hot Spot, il centro delle nuove reti di collegamento, un bene comune di area da proteggere nell’interesse di tutti. Avete risolto parecchi problemi di stabilità dell’area, per sempre o quasi. In più, immaginate la pioggia di dollari che cadrebbe per anni ed anni su quelle terre avare, manna. Una manna cui resti potrebbero andare anche alla popolazione palestinese, essenziale mano d’opera di costruzione che di mantenimento delle infrastrutture.

Tutto ciò prescinde l’idea della Via del Cotone di cui parlavamo ieri, è una idea precedente, è nella logica geostrategica della zona, è implicita, va solo estratta e portata a compimento. Da tempo un alacre lavoro diplomatico ti ha fatto allacciare relazioni ufficiali con gli Emirati (Bahrein, Kuwait e non ufficialmente ma in pratica Arabia Saudita), ma volendo sei di casa anche a Doha, non “quasi amici” ma conoscenti sì. Dove farete passare le nuove ferrovie? E le stazioni di scambio? E gli impianti di trasformazione? E gli elettrodotti? I gas ed oil dotti? I porti? Le aree logistiche? Gli hotel? Le reti TLC? Che arma avresti per gestire la convivenza con il popolo palestinese dell’area dell’Autorità e Territori? Che cointeressenze avrebbero? Quanto queste cointeressenze ti permetterebbero di manovrarli politicamente con l’impetuoso fiume di dollari cui parte proviene proprio dal mondo arabo alle vostre e loro spalle? Più WB-IMF, finanza anglo-ebraica, ma non solo. E cosa dire dell’immensa area di gas prospicente la costa, area che arriva in Libano, Cipro, Egeo greco meridionale? Non del tutto una alternativa completa ai flussi russi, ma tutto fa. Sarebbe di nuovo una zona di bene comune occidentale a cui gli europei sarebbero chiamati a protezione (e condivisione) attiva. Una garanzia in più ed un problema (e costi) in meno per gli americani nella nuova divisione del lavoro geostrategico “occidentali vs cinesi-russi”.

Be’ dai, roba da trenta e passa anni di sviluppo, piatto ricco mi ci ficco e mi ci ficco da tutto il mondo direi. Benissimo. Ora però hai una serie di problemini, da risolvere prima.

Il rapporto col Libano, stante che in Libano c’è marasma da sempre, siriani e soprattutto Hezbollah. Hezbollah ti sta proprio sulle alture nord sopra il vostro nord, un problema.

ll problema palestinese che è quantomeno quadruplice ovvero a) palestinesi della diaspora larga (soprattutto Giordania); b) i palestinesi arabo israeliani (1,5 mio); c) i palestinesi dei Territori; d) i palestinesi di Gaza. Questi ultimi, i più “rognosi” poiché egemonizzati da Hamas. Un Hamas da ultimo bizzarro visto che ai primi di ottobre ha operato in Israele con accanto pezzi di jihad islamica. Magari tu di salafiti non capisci nulla, ma sappi che è molto strano che Fratelli musulmani se la facciano con jihadisti, molto. Tu , invero, avevi da ultimo provato a dargli chance di lavoro con permesso di uscita-rientrata nel lager di Gaza, sembrava filare tutto liscio, poi però quelli hanno fatto il pezzo da matto.

Gli equilibri arabi tra Paesi del Golfo, Siria, Egitto e soprattutto asse Qatar-Iran. Ma questi se li smazzerebbero gli arabi stessi, sono cose loro, questioni di soldi, flussi, chi sta dentro e quanto, etc. roba da litigare per decenni, ovvio, ma con tanti dollari davanti si litiga meglio.

Geopolitica at large ovvero che rapporti con la presenza russa nel Mediterraneo orientale? Con la Turchia (Fratelli musulmani quando gli fa comodo) che invidia le prospettive del grande bacino gasifero del Levante? Con la presenza militare NATO in area marittima? Con un Egitto nervosino che si vede relativizzata Suez? Con i cinesi a cui pur offrire i punti scambio tra gli arrivi ferroviari da sud e gli attracchi alle nuove navi super container a profondo pescaggio che hanno porto di riferimento al Pireo greco?

Insomma, hai una bella serie di cose da mettere a posto, ma anche un giochino economico-finanziario-geopolitico-militare da leccarsi i baffi per decenni e decenni, tutto nelle tue mani, tutto sulla “tua” terra. Già, la “terra”! Quanto è totalmente “tua” e sotto il tuo pieno controllo? Ne disponi davvero a piacimento? Ti senti sicuro e garantito, puoi offrirti come partner credibile? Perché se non è tutto, almeno un minimo a posto, il giochino neanche inizia, nessuno metterebbe un dollaro dentro un marasma qual è da sempre la tua area. Immagina che stai lì con ruspe, gru e scavatrici a t’arrivano Qassam a pioggia un giorno sì e l’altro pure, non va bene, no. Più qualche pazzo jihadista impaccato di TNT caricato a molla chissà da chi e da dove. Tocca quindi cominciare a mettere a posto, nell’interesse tuo e di tutti i potenziali partner degli sviluppi futuri. La terra è promessa, da sempre, ma ti devi dare da fare per realizzare la promessa in atto e la parola non basta, ci devi andare di azione militare e geopolitica.

Altrimenti? Che prospettive hai? Russi, turchi, egiziani sono nervosetti con te per varie ragioni. Quei maledetti di sciiti a nord sono fastidiosi. Gli iraniani alle loro spalle non ne parliamo proprio, in più quelli sono Persiani mica arabi. Sì, vennero convertiti, ma sempre Persiani son rimasti, facevano “civiltà” quando tu ancora vagheggiavi con le pecore sulle sabbie dei tuoi deserti. Poi hanno dietro anche un po’ i cinesi, a volte i russi, quelli ambiguissimi del Qatar ma straimpaccati di soldi ed ormai cuciti a doppio filo via investimenti con l’Occidente, cartacce. Gli europei chiacchierano ma sai che sono inaffidabili sul piano pratico, militare (che è quello che più ti serve visto che sei un paesucolo di 9 milioni di anime, neanche tutte ebree).Hai un Paese con complesse dinamiche demografiche e composizione etnica, in crescita pompata in modi spicci da trenta anni di importazione coloni neanche tutti ebrei (ucraini, russi, bulgari), ultraortodossi ostinati, fighetti sex-metropolitani da spritz and coca, anche qualche nero africano di cui poi ti sei pentito, ex socialisti critico-pensosi, sionisti e sempre, quella masnada di palestinesi neanche del tutto “arabi” che gli arabi sentono fratelli a livello di popolo, ma non a livello di élite. Oltretutto che si riproducono come conigli. Storicamente laici, qualche volta pure atei o agnostici, levantini, divisi in più bande e tribù in odio reciproco di quanto non fossero ai tempi di Muhammad. E gli americani? Pensi che gli USA potranno proteggerti per altri decenni ora che hanno a che fare coi cinesi e gli asiatici at large, con russi annessi, in tempi di rendimenti di potenza decrescenti e contrattivi per ovvie e non invertibili ragioni?

Dai Davide, aiutati che Dio ti aiuta! Sono tutti (o quasi) con te. Comincia a mettere a posto la tua terra e la promessa diventerà realtà.[La cartina è da me elaborata, contiene dati di fatto ed ipotesi, serve solo a dare l’idea geo-realistica dello scenario.] 

QUANDO SI DEPOSITA LA POLVERE. (28.03.04) [Questo post conclude e conferma quello di ieri che va letto se si vuole comprendere meglio la complessa posta in gioco]. MEE ovvero il principale think tank qatariota di politica regionale (in primo commento il link), finalmente inquadra cosa è successo e sta succedendo a Gaza.

Come riportato in sintesi ad inizio del redazionale: “Gli obiettivi non dichiarati della guerra : uccidere quante più persone possibile, distruggere quante più case ed edifici possibile, restringere la superficie della Striscia e dividerla. Controllare le risorse di gas. Impedire la creazione di uno Stato palestinese; Hamas, gli ostaggi sono questioni marginali.”. Ma come? Hamas, i poveri ostaggi, come “marginali”?

Il sottostante l’immane tragedia che prende i numeri dei morti, feriti, degli ostaggi, dei penosi casi umani, dell’ingiustizia senza giudice, dell’orrore e dell’ignominia, del più o meno genocidio, del silenzio di un mondo e la rabbia dell’altro, era ed è un semplice obiettivo di cancellazione della presenza palestinese a Gaza.

Cancellazione fisica, umana e materiale. Dimezzarne ed oltre la popolazione, relegarla a sud, fargli deserto attorno, renderla una enclave di nessun conto da dare all’Autorità, gli arabi e l’ONU per decenni di caritatevole assistenza, con più o meno Hamas dentro poco importa. Una San Marino palestinese senza statuto giuridico, 500-700 mila anime.

Oggi rimangono ancora forse 1,3 milioni di palestinesi schiacciati a Rafah. Se nei prossimi giorni, alle trattative dietro le quinte, i compiacenti e silenziosi “partner in crime” arabi prometteranno a Tel Aviv di prenderne un’altra metà, si potrà chiudere la prima fase della partita. Come promesso da Bibi due giorni dopo l’attacco di Hamas ad un incontro con sindaci di paesi circostanti Gaza: “La risposta di Israele all’attacco di Hamas da Gaza -cambierà il Medio Oriente-“.

Il bello o l’ennesimo brutto di tutta questa storia è che lo si sapeva. Io lo scrissi il 21 ottobre, cinque mesi fa. Netanyahu col suo faccione da mago birichino, era andato all’ONU con tanto di cartina e pennarello a mostrare fiero la novità di una nuova natività ed esplicite cartine truccate (link nel secondo commento). Il Nuovo Medio Oriente, senza più alcuna ambigua traccia di territorio potenzialmente base per l’ennesima, inutile discussione su i “due Stati”, un unico spazio di possesso della terra promessa, da offrire al nuovo piano illustrato nel post di ieri. Ma erano due settimane -prima- l’attacco di Hamas.

E’ da tempo che Israele ha riallacciato legami diplomatici con Emirati, Bahrein, Kuwait, Oman, i junior partner dell’Arabia Saudita che però stava per firmare anche lei il nuovo patto, già due settimane prima l’attentato di Hamas. Questo sviluppo proviene dagli Accordi di Abramo prima che dalle promesse della Nuova Via del Cotone. Le strategie hanno lungo corso, qui non s’improvvisa niente.

L’unica cosa che s’improvvisa è la nostra attenzione. Come in un gioco di prestigio, mentre il Mago ci faceva inorridire davanti la strage umanitaria, sotto sotto desertificava lo spazio umano di Gaza, faceva scappare già un milione di persone, riduceva, tagliava, rendeva irreversibile lo svuotamento.

E la regia dell’informazione subito pronta ad intrattenerci con il Teatro dei Pupi, Hamas col randello (disumano), il diritto di Vendetta (umano, troppo umano), citazioni della Torah, tutti i giorni un “sì stanno trattando gli ostaggi”, “ci sono colloqui speranzosi” anzi no. Antisemita! Nazista! Teatro. Noi non c’eravamo prima, avevamo l’Ucraina, la Cina, le bollette, l’ASL, nonno che sta male e non ci saremo dopo perché quando cade la polvere ed inizierà la politica, avremo altro a cui pensare.

Così va il mondo. Assistiamo come spettatori alla Grande Transizione della nuova era complessa, ma solo quando ci scappa il morto, scoppia la bomba, sta per partire la bomba atomica, anzi no. però quasi. E vai a improvvisati lettori del mondo riciclati dall’economia, dalla pandemia, dalla critica alla nuova paranoia verde, ora esperti di Terza Guerra Mondiale a pezzi. Quelli a paga della Narrazione Ufficiale e quelli critico-critici che gli vanno pure appresso ma si si sentono più svegli. Timore e tremore, brivido di stare nella storia osservandola dalla finestra elettronica per giudicarla, esecrarla, commuoversi, baruffare a favore dei diritti dell’uno o dell’altro dei contendenti. Il mio gallo messicano contro il tuo ed i più sensibili a piangere le povere bestie nel tripudio di strepiti e penne che svolazzano.

Che ci faceva Jihad islamica con Hamas nell’azione del 7 ottobre? Chi di Hamas se l’è fatta infilare trasformando l’operazione “prendi ostaggi da dare in cambio prigionieri” nella macelleria messicana en plain air a cui non si poteva che dare “vendetta tremenda vendetta”? Come mai Iran ed Hezbollah hanno mostrato di non saperne niente sin dai primi momenti dopo l’attentato, perché in effetti non ne sapevano niente? Non erano gli sponsor?

Perché nessuno è rimasto di sasso o s’è rotolato dalle risate quando Bibi ha ammesso che loro proprie niente ne sapevano della preparazione degli attentati in uno spazio grande come la provincia di Spoleto con dentro 2,3 milioni di anime ed i servizi segreti del Paese tra i più potenti al mondo che andavano a fare interviste su i media di mezzo mondo ad ammettere il loro poco credibile “epic fail”? Dopo decenni di costruzione del loro mito pubblico di efficienza. E meno male che sono servizi “segreti”. Giravano 2000 Qassam lunghi due metri ma nessuno ne sapeva niente, deltaplani, almeno 2000 uomini coinvolti, sì ma “in gran segreto”. Avranno fatto le esercitazioni in cameretta, in calzini e trattenendo il fiato. Ma ci prendono proprio per scemi … sì perché in buona parte lo siamo.

Poi cosa sapessero, chi, facendo finta di non capire o avendo info tagliate, non sta a me dirlo, non faccio l’investigatore di complotti. La strana presenza jihadista, invece, fa più pensare a qualche servizio arabo in vena di voglia di far deragliare l’operazione.

Il nostro non è un regime democratico, fateci pace. Non c’è demos che gestisce o controlla la polis, quella di casa e quella mondo. Avete tutti troppo da fare, non avete tempo, c’è da passare giorni e giorni, anni, per dragare l’immane flusso di problemi, conoscenze, storie, fatti, segreti che ti fanno leggere la vera scrittura del romanzo del mondo in svolgimento. Leggere ed interpretare che non è proprio facile. Sempre che nervi ed intestini vi reggano. Vi invitano solo al quarto d’ora più Netflix, il resto rimane in ombra. Non dovete sapere, non dovete pensare, non dovete giudicare se non quello che decidono di darvi in pasto all’ora di cena. Il momento delle Grandi Emozioni, il più brividoso.

O cominciano a rivendicare meno ore di lavoro e più tempo umano per partecipare al cambiamento necessario del mondo, studiando, conoscendo, dibattendo, approfondendo, agendo politicamente, rivendicando il nostro diritto e dovere di decisione della società di cui siamo soci naturali per diritti biologici di nascita (toh, la biopolitica nel suo senso proprio!) o il mondo cambierà senza di noi e com’è facile predire, contro di noi.

Lo capiremo solo dopo, a cose fatte, quando la povere si poserà, quando è troppo tardi. O ci mettiamo a ripristinare livelli minimi di democrazia (non certo quella tele-parlamentare a quattro anni tra un voto di delega assoluta e l’altro) o andrà come è sempre andata, ovunque, negli ultimi cinquemila anni: Pochi governeranno le vite dei Molti. Sempre che non le sacrifichino incontrando i tanti “there is no alternative” che aspettano il percorso da paura dei prossimi trenta anni. Ma con un sorriso ed un marker pen in mano.

IL PROBLEMA DEI TRE CORPI. (29.03.04) L’area di lettura critica del mondo che vedo esprimersi di recente sui fatti di Gaza e Palestina, ha una scotomizzazione, un punto cieco, considera raramente il terzo attore della situazione: il mondo delle monarchie del Golfo.

Lo fa perché a livello categoriale, sa inquadrare Israele ed ancor meglio gli Stati Uniti d’Ameria, ne ha anzi forti sentimenti contrari, ma non sa come inquadrare questo terzo soggetto e non lo conosce, non ne conosce potenza ed intenzioni.

Apparentemente, un esercito di giovani uomini plurilingue, sofisticati nello stile di vita, tutti intonacati, con o senza barba, che sprigionano dollari dalle maniche, allevati nei college ed università americane ed inglesi, ma da esse autonomi. Gli agenti di un piano delle nuove generazioni che si sono rese improvvisamente conto che le riserve cadono, il clima verso le fossili rimane ben intonato a business ma sempre peggio in considerazione e prospezione futura, mentre vivono in una scatola di sabbia. A parte chi ha il più grande giacimento di gas naturale al mondo che è il Qatar, i petroliferi hanno -in molti casi- margini sempre più stretti.

La reazione a questa presa di coscienza che inverte il flusso storico della zona, da sempre ascensionale, è stata un preciso piano condiviso di posizionamento geostrategico mondiale: un hub.

Hub sono ad esempio l’aeroporto di Francoforte, lì dove in una rete c’è un punto più denso degli altri in termini di scambi e passaggi. L’hub arabo golfista è al centro delle relazioni tra Asia, Africa ed Europa. Emirati e Arabia Saudita sono entrambe entrate nei NewBRICS (con l’Egitto), portati dentro a forza dall’India ma certo con beneplacito ed altrettanta simpatia ed interesse dalla Cina (e Russia) e si tenga conto che la monarchia emiratina e quella saudita sono parenti e vanno considerate strategicamente un attore coordinato unico. Aggregando il Pil delle monarchie del Golfo, si ha il Pil della Russia.

Sono molto liquidi in termini di potenzialità di investimento e vogliono comprare cose che li facciano crescere per darsi un futuro. Abbiamo visto i mondiali in Qatar, li vorrebbero rifare i sauditi. L’Arabia Saudita è in uno sforzo auto-poietico di auto-modernizzazione ed internazionalizzazione che a livello di turismo, business, cultura, fa paura. Per non parlare dello sviluppo high tech, digitale, farmaceutico, elettronico, solare, biomasse, eolico, culture idroponiche, agricoltura dalla sabbia. Gli emiratini hanno sonde nell’atmosfera di Marte. Hanno il quinto aeroporto più trafficato al mondo, Emirates è quarta per tratte internazionali, tolta Singapore Airlines, hanno il monopolio della business/Prima del traffico aereo mondiale, se non in quantità, in qualità. Roba da 15.000 US$ a poltrona.

Geostrategicamente, l’area si offre all’interconnessione tra Asia, Africa ed Europa, sta in mezzo come una piazza naturale. I giovani rampanti del Golfo non hanno alternative, o rilanciano alla grande o periscono scomparendo nella sabbia e dalla storia.

Emirati con sauditi sono in Yemen da anni ed i primi con più ferocia dei secondi che militarmente sono un po’ tonti, del resto sono tutti straricchi, non ne trovi tanti che si divertono a volare con sotto il culo missili houti che fischiano. Il loro coinvolgimento nel terrorismo salafita e wahhabita, di lungo corso, è decisamente sofisticato strategicamente e spazia dall’islam asiatico a quello africano, anche del Sahel. Poco noto forse qui da noi ma il 90% dei morti ed attentati jihadisti è musulmano, non occidentale. Lo jihadismo è uno strumento di egemonia del Grande Islam di cui gli arabi sono solo una stretta minoranza. Hanno egemonia in certe zone dell’Africa tramite religione, madrase, investimenti, armi. Fanno grande business con asiatici in e di tutte le forme. Qatar, Emirati ed AS hanno per grande parte popolazione asiatica, loro sono meno del 10% del loro stesso Paese (Qatar, Emirati). Investono in Europa e ci comprano a pezzi nei loro shopping favolosi.

Le monarchie del Golfo odiano Hamas. Hamas è Fratellanza musulmana, organizzazione laico-religiosa sunnita di intento salafita, antimonarchica per definizione, tipo BR vs DC. Come puri arabi, non amano neanche i palestinesi in generale. Le loro opinioni pubbliche invece, le loro ma anche quelle “arabe” più a cerchio largo verso le quali hanno egemonia informativa (al Jazeera, al Arabya), palpitano per i destini dei fratelli palestinesi, martiri per una tradizione che ha forte la figura simbolica del martirio. Se davvero hanno intenzione di incastonarsi Israele per fare il piano di sbarco sulle coste mediterranee come pare, il loro desiderio di cacciare i gazesi ed Hamas è almeno pari a quello israeliano. Se scendente ai dettagli, non si prepara una alleanza ebraico-araba, si programma un sistema con interdipendenze e cointeressenze strutturali, quelle che legano per interesse duro, da cui non è facile sciogliersi.

Arabia Saudita è secondo acquirente d’armi al mondo e Qatar terzo, Israele è decimo produttore-esportatore, a livelli molto high tech che ai ragazzoni arabi piace molto. Del resto, tutti quei jihadisti che sciamano su nuovi pick up Toyota in giro per il mondo, costano in armi parecchio.

Abbiamo detto che l’area va considerata un unico sistema con l’AS guardiana di Mecca e Medina come Sole centrale, Kuwait, Bahrein (monarchia parente di quella al Saud), sette Emirati come lune, Qatar pianeta staccato ed Oman ancora più eccentrico. Ma il sistema è binario perché si porta appresso l’Egitto. Certo, strano che l’irrilevante peso demografico arabo golfista riesca ad esercitare tale gravità sulla massa egiziana, eppure per varie ragioni è così. Tale aggregato ormai da tempo in via di fusione interna, punta a relazioni equilibrate e pacifiche con la Turchia, sebbene lì intervengano altre complesse ruggini storiche (che inquietano più Erdogan che gli arabi).

Soprattutto, tale costellazione, è per certi versi obbligata a trovare un equilibrio con l’Iran. Da parecchio tempo, AS ed Iran hanno ripreso a parlarsi, ma forse non solo a parlarsi. Impossibile portare avanti il progetto neo-ultramoderno golfista con attrito intorno. Per questo nelle ultime riunioni BRICS, se l’India li ha spinti dentro, la Cina ha imposto l’Iran. Così, forse più AS che Emirati, hanno fatto anche scendere la tensione in Yemen con gli Houti. Per altro, Russia, India, Cina, hanno tutte interesse positivo a questa pacificazione per quanto sarà a lungo sospettosa, arabi e persiani è una storia ben più complicata che arabi ed ebrei.

Segnalo che Qatar, ultrasunnita e sponsor primo di Hamas e della causa palestinese, è amico di fatto dell’Iran sciita, ad esso legato oltreché dalla geografia persica, dal condominio di possesso e sfruttamento dell’enorme giacimento gasifero del Persico, il più grande del mondo.

Di fatto, eccovi un POLO nella famosa nuova logica del mondo multipolare. Mi occupai di mondo multipolare editando un libro ormai sette anni fa, forse ne dovrei scrivere un altro visto che molti sembrano non capire questa nuova logica. Mi andasse… Comunque, più di ogni altro, questo nuovo polo punta all’indipendenza strategica anche tramite “bilanciamento”, poggiarsi un po’ qui (BRICS) ed un po’ là (USA-EU ma non NATO), amici di tutti, affari con tutti.

Saudi Vision 2030 è la bibbia strategica del progetto, conversione dal fossile ai servizi, conoscenza, turismo e soprattutto hi-hi-tech. Parchi tematici, ricca neo-archeologia, smart city, solare. Siamo i loro secondi fornitori europei ci amano. La nostra moda impera e spopola. A Doha siamo di casa, ma non meno ad Abu Dhabi e Dubai, milanesi a pacchi, ristoranti, speculazione immobiliare. Di fatto, gli Emirati sono un paradiso fiscale ufficialmente in black list, ma basta non guardarla ed i soldi viaggiano lo stesso. I soldi da lì ad Israele, andata e ritorno, viaggiano spediti da almeno tre anni.

Lo so, avete una vocina dentro che vi dice: “si vabbe’ ma popolo-élite”? “dov’è la lotta di classe”? socialismo? Democrazia liberale? Diritti civili? Dollaro? Ancora con la “religione”? E le donne? Ma son tutti ultracapitalisti patriarcali? (mah, pare che alcuni siano anche cripto-gay, coraggio). Sbagliate a sovraimporre categorie del nostro mondo e concezione del mondo ad altro mondo di sua propria concezione e per altro lunghissima e gloriosa storia: l’islam arabo inventato da Muhammad nel VII secolo d.C..

Muhammad fece di tribù mercantili periferiche un popolo con la parola di Dio, l’ultima da esso pronunciata dettando mentalmente al Profeta quello che poi diventerà il Corano. Gli ebrei sembravano non aver capito bene, i cristiani peggio mi sento con quel pasticcio del Cristo mezzo profeta (si) e mezzo divino (no), doveva dire le cose ultime una volta per tutte a scanso di interpretazioni, dal 1100 è vietato interpretare i Corano. Non un profeta che dice di aver parlato con Dio, il suo diretto megafono. Per questo il Corano non va tradotto ed è un libro divino, non sacro, è la parola di Dio espressa in arabo e non va tradotta, che traduci Dio? Da cui la nota suscettibilità quando glielo tocchi, non è come la Torah o la Bibbia. Gente che in pochi anni tracima dal deserto e costruisce un impero che va dal Marocco (Spagna, Balcani) all’Indonesia. A volte con la spada, a volte solo con la parola dei mercanti e come mercanti non sono affatto secondi agli ebrei con cui hanno addirittura in comune una genetica religiosa molto forte, nonché secoli di convivenza senza problemi. Se abbiamo ricevuto in eredità Aristotele ed anche buona parte di Platone è merito loro, non memo per neoplatonismo e tradizione ermetica-caldea. Così per l’algebra, i numeri, la cosmologia, molta medicina e molto altro, tra cui gli scambi di civiltà con l’Asia e la Cina antica (seta, carta polvere da sparo etc).

Quanto al successo della loro sola “parola” per le conversioni, tenete conto che dentro, il Corano ha due parti. Quella c.d. meccana è puro monoteismo teologico, ecumenico, salvifico, terapeutico. Sharia e guerre sante stanno nella parte medinese. La parola convertente è quella della prima parte, poi però una volta che ci sei cascato dentro, arriva il regolamento del club dei sottomessi a Dio.

Ora, quanto detto sul Patto di Abramo (Trump) e Via del Cotone (Biden), che a molti è suonato un po’ troppo ambizioso e poco credibile, va riletto alla luce di questi fatti. Quella strategia non è né americana, né cinese, né ebraica, è araba. Gli americani la sfruttano per dire ai cinesi “… e poi quando arrivate lì con la vostra Via della Seta, sappiate che la stazione terminale è anche amica nostra” e ce la danno a noi europei come partner commerciale, industriale, energetico per compensarci dei divieti coi russi e poi quelli intermittenti coi cinesi. Cinesi che potrebbero anche pragmaticamente prender atto che per arrivare all’Europa meridionale, dovranno passare la loro intermediazione (com’è sempre storicamente dato) e che più si allontanano dall’Asia, più debbono fare compromessi di convivenza.

Si diceva del concetto di strategia nell’intervista col Gabellini. Capisco che apprendere che c’è gente che fa quei piani suoni strano a molti di noi che non programmano neanche il week end. Viene da augurargli di andarsene in malora con tutta la loro presunzione prometeica. Tuttavia, sarà antipatico farlo notare, se il mondo è fatto da élite compatte ed organizzate che soverchiano singoli comuni mortali, è perché i primi conoscono e fanno piani sul mondo per cercare di manipolarlo a loro favore e noi no, noi siamo il mondo che manipolano.

Eccoci chiarito perché i gazesi debbono andarsene dalla Palestina e con loro Hamas. Perché non puoi fare cantieri e lavori con il disturbo di Hamas. Crollerebbero le azioni delle imprese coinvolte, i progetti non sarebbero co-finanziati da WB-IMF, tutto finirebbe come al solito da quelle parti nel solito bordello tribale di tutti contro tutti. Per questo Israele impedisce che UNRWA porti aiuti a gruppi di disgraziati che si sono rifugiati tra le macerie del nord di Gaza e sono innocui. Perché se ne debbono andare via, andare da alta parte, disperdersi. Di contro, quello stesso spazio disponibile per progetti di collegamento potrebbe davvero ospitare un ferrovia che colleghi i luoghi santi dell’islam al Mediterraneo orientale. Sono 8 milioni i musulmani balcanici pronti ad usarla per il doveroso e tradizionale pellegrinaggio (haijj), scendono loro, salgono gli arabi aumentando la loro penetrazione egemonica, più di quanto già non facciano col sistema delle moschee. Poiché prima devi costruirla, ecco nonna Tamar di Jerico. Al posto di vedere i suoi cinque nipoti maschi carcerati o mutilati per aver fiondato sassi ad al Aqsa o peggio, eccola felice di invitarli la domenica coi nipotini per una bella festa, ora lavorano, si sono sposati, hanno fatto figli ma adesso hanno progetti. A quel punto, sarà la comunità dei palestinesi stessi che difenderà la stabilità del territorio, il territorio diventa “bene comune”, risparmi in polizia e tensioni, stabilizzi.

Lo so è un mondo nuovo che spesso fatichiamo a conoscere, comprendere ed ancorpiù a giudicare. Ma è il mondo, quello reale e concreto, non quello che avete in testa. Urge che sostituiate quello che avete in testa con quello reale e ci facciate i conti perché una cosa quella gente sa fare bene: contare. Fino ad oggi i soldi, da oggi in poi come peso geopolitico e geostrategico del nostro nuovo Grande Mondo Complesso.

Perdonatemi la solita punta polemica. Potrebbe qualcuno evitare di venire a spiegarmi che le mie analisi sono da ultimo poco complesse? Non sono il guru della complessità, non esiste né può esistere un personaggio del genere, è contro la natura del concetto stesso. In più, tra me ed un guru passa la simpatia che c’è tra un interista ed uno juventino. Tuttavia, la studio a vari livelli da venti anni. Sempre pronto ad imparare, ma assicurateci di aver qualcosa da insegnare prima di imbracciare la matitina rossa e blu.

Con ciò, spero di aver finito il trittico descrittivo ed analitico sulla questione Israele-Palestina. Grazie per la vostra attenzione e anche per le interazioni avute in questi giorni. State dimostrando che i cervelli non sono tutti morti, c’è vita nella mente social e finché c’è vita, c’è speranza ed Ernst Bloch ci sorride dai cieli benevolo verso la nostra umanità ostinata.

Continuiamo a sperare in un mondo migliore ma, come dire, damose anche un po’ da fa’, la manna non cade dal Cielo, manco lì. 

ADD: UN BREVE COMMENTO VIDEO (28.03.04) Si sono fatte due chiacchiere su i temi dei due post recentemente da me pubblicati, con G. Gabellini per sua testata IL CONTESTO. Fino a 6:35 mi sentite ma non mi vedete, poi appaio in video. Sono 26:00 minuti tutto. https://www.youtube.com/watch?v=QZ9BqhqI3CQ

>> https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/27783-pierluigi-fagan-trittico-mediorientale.html

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IL POTERE DELLA PAROLA.

(Post tratto dal mio fb). Nulla sembra ontologicamente più lontano dal concetto di potere con effetti pratico-materiali che la parola, immateriale flatus voci che però ha significati. Questo perché con cecità selettiva, eliminiamo il termine medio: l’umano.

La parola esce da un umano, va da un altro umano, si conficca nelle mente che è poi propriamente ciò che fa dell’umano un umano e l’umano, da solo o più spesso in compagnia, fa cose con effetti pratico-materiali in base a ciò che ha in testa (parole, concetti, idee, immagini di mondo). Tutto molto semplice, sebbene paia a noi strano.

A volte equivochiamo come stranezze del mondo nostre stranezze gnoseologiche, nostre ignoranze, non distinguiamo la nostra stranezza mentale dal mondo, la proiettiamo.

Nel libricino di BCL (La crisi della narrazione, Einaudi, 2024), c’è un racconto del grande studioso di mistica ebraica Gershom Scholem (su cui ha scritto un interessante articolo Alessandro Visalli che rimando in link), che riferisce una vecchia storia chassidica. Non la riporto tutta anche se, se ne perde la godibilità, vado alla struttura logica.

Si parte da un famoso mistico che quando doveva far accadere qualcosa, andava in un posto nei boschi, accendeva un fuoco, diceva delle preghiere e tutto si realizzava secondo proposito. Una generazione dopo rimaneva la conoscenza del posto nel bosco ma si perdeva la pratica del fuoco votivo, tuttavia il risultato finale era identico. La generazione successiva si perse anche la conoscenza ed il ricordo delle preghiere, oltre la pratica del fuoco; tuttavia, bastava andare in quel posto del bosco e il risultato finale era identico. Infine, arriva il momento che nessuno più ricorda il posto del bosco, il fuoco, le preghiere, eppure al semplice racconto di come tutto ciò veniva una volta fatto, si produce lo stesso risultato finale, accadeva la cosa desiderata.

Adorno, amico di Scholem, argomenterà facendola, secondo me, un po’ più complicata del necessario.

Di fatto, quel racconto, è il racconto della grande intuizione culturale proprietaria della antica e longeva cultura ebraica. Il potere della parola. Questo strano popolo senza terra, unico nella storia umana almeno degli ultimi tremila anni, è rimasto una identità senza altro in comune che la potenza della parola. Potenza che è servita loro internamente come legante culturale anche a grandi distanze geo-storiche, che è servito esternamente per difendersi o manipolare a modo loro, il mondo loro circostante.

Nl 2020, più di un terzo dei Premi Nobel era di origine ebraica, il 20% media degli ultimi centoventi anni, di per loro -gli ebrei- sono solo il 2 x 1000 della popolazione mondiale. Sterminato l’elenco dei filosofi del Novecento che vantano questa discendenza culturale (quella genetica oltreché ininfluente è più complessa ed imprecisa). Sceneggiatori, produttori, editori, scrittori, giornalisti, professori, i lavoratori della parola e dei concetti che le parole si portano appresso, hanno nella culla ebraica (che è culturale), un luogo spesso comune. Ma attenzione perché poi di parola in parola, di concetto in concetto, si costruisce una mentalità, una o più “immagini di mondo”.

Gli stessi ebrei interrogatisi sul fenomeno, ricordano l’importanza di un loro fissato codice culturale che risale in scrittura a Maimonide, ma deve essere molto più antico, originario: il potere della parola.

Il codice sarebbe lo “studio” secondo quanto riportato in Mishné Torà (Ripetizione della Torà) del filosofo andaluso del XII secolo (che poi sarebbe anche colonna dell’insegnamento di Confucio). Tutti gli ebrei debbono prioritariamente studiare, anche più che pregare. Dati i risultati direi un consiglio da tenere a mente.

C’è forse di più da dire sul potere della parola già noto anche a Platone (che rimpiangeva l’oralità al posto delle strettoie della scrittura nel Fedro) che pure dagli ebrei ebbe influenze nel suo viaggio egiziano (vero o presunto la questione è controversa), da cui il Timeo, una Genesi rivista in parziale salsa greca ma neanche più di tanto. Ricordo che Genesi pare sia l’ultimo pezzo composto del corpo dell’Antico Testamento, forse 500 a.C. in quel della segregazione babilonese dei sacerdoti ospiti degli zoroastriani, da cui appresero molto come ricorda poi Nietzsche. Peccato che le origini dell’Avesta antica siano perdute (pare IX secolo a.C. ma in questi casi di tradizione orale si può comodamente retrodatare anche di mille anni o più, come per i Veda)

Sta di fatto che questo piccolo ed originale popolo dalla persistenza millenaria per quanto o forse proprio grazia la diaspora continuata, ci mostra sia il potere della parola, della mente, del pensiero, sia l’effetto che questo potere ha su altri umani. Siamo animali narratori, avidi di narrazioni, loro le sanno fare meglio di chiunque altro e così mostrano una conoscenza dell’umano che forse non ha eguali in Occidente.

Attenzione, molta è conoscenza implicita, non è tutto Chomsky. Quando un narratore di origini ebraiche, in una battuta di un film, in un sarcasmo, in una piroetta auto-ironica al limite della ferocia ti fa ridere, è perché ha una conoscenza dell’umano più sferica di quelle che abbiamo noi codificato nelle partizioni disciplinari.

La parola magica sarebbero i tanti nomi di Dio, ma c’è forse da rovesciare l’assunto, il Dio è proprio la parola.

Rif: https://www.mosaico-cem.it/cultura-e-societa/libri/una-quantita-sproporzionata-di-nobel-ebrei-il-segreto-lenorme-valore-dato-allo-studio-religioso-e-secolare/?fbclid=IwAR23F6I8TdSo6wgKwWD1Eh9zp5w-yneUv2gP9lPkSPJGcludwadghpv8Znc

https://www.sinistrainrete.info/filosofia/27519-alessandro-visalli-a-partire-da-gershom-scholem-il-nichilismo-come-fenomeno-religioso-la-questione-dell-elitismo-e-del-messianismo-politico.html?fbclid=IwAR1urfFmCmRUvCPPvu-69uBHeN8w1v8h7mKDLsBVLBet0l2CVqbMLxrwv7Y

>> A chi mai interessasse, segnalo lo sviluppo di un interessante dibattito sul post originario per chi ha accesso al mio fb.

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EUROPA NEL DRAMMA DELLA REALTA’.

La tesi dell’articolo (che deriva da un post su un social) sarà analizzare la condizione di progressiva alienazione di Europa dalla realtà. Europa (sua cultura, politica, mentalità media distribuita, senso comune) si trova oggi conficcata in una ragnatela di impossibilità pratiche e culturali basate su una sostanziale nevrosi da negazione del tempo e del mondo circostante. Alla fine, ci ricollegheremo a due brevi fotografie su alcuni aspetti di questa fuga dal reale su base info-digitale, sintomo del fatto che la negazione nevrotica sta procedendo in psicosi. Più il mondo è aguzzo e ispido, più tattilmente setose le superfici dei nostri smartphone.

Da tempo segnalammo la necessità di cominciare a separare il vago concetto di occidentalità, tornando alle due componenti storico-culturali forti costitutive del sistema, quella europea e quella anglosassone anche se ormai più propriamente statunitense. Europa ed USA si trovano su linee divergenti di condizione, prospettiva e tradizione. Ma se USA fa o tenta di fare la realtà in molti modi, Europa è semplicemente in fuga dal reale. Cosa è successo, cosa sta succedendo, cosa del reale spaventa irrimediabilmente Europa, perché sembra che improvvisamente ci troviamo assediati da “difficoltà insormontabili”? tanto da fuggire da ogni consapevolezza in maniera tanto più patologica tanto più avanzano le contrarietà degli eventi?  

  1. PROSPETTIVA INTERROTTA. Una prospettiva è una proiezione nel tempo della continuità dell’esistente. L’essenza della prospettiva è la prevedibilità. Per almeno sessantacinque anni (1945-2010), la società europea ha vissuto in un ordinamento sociale sufficientemente stabile e funzionante basato su una sostanziale affidabilità e costanza degli indici di crescita economica, una tendenza continuata allo sviluppo, il che per una società basata sul gioco economico e suoi vantaggi sociali è stata sicuramente una ottima intonazione di prospettiva. Per decenni, questo ha tenuto in sufficiente equilibrio i rapporti tra lavoro e vita personale, individuale e sociale, in un quadro di sostanziale tenuta e prevedibilità. Dagli impeti consumo-sviluppisti anni ’50-60, alla loro critica anni ’70, al rilancio edonistico anni ’80, ai trionfi o supposti tali del modello fine della storia sfociante in un globalismo ingenuo anni ’90 si è poi finiti in un decennio iniziato con l’11/09 e terminato con gli effetti dello scoppio di una gigantesca bolla di valore finanziario che qui in Europa (non essendo il luogo in cui s’era prodotta e quindi in gran parte ignari della sua natura, natura nuova inquadrata tra gli altri dal concetto di “finanzcapitalismo” da L. Gallino, 2011 anche con un vistoso ritardo rispetto al fenomeno) non si è gestita affatto a differenza degli americani. Anzi, la si è gestita con terapia di logica di ciclo economico (austerity), quando di per sé era un fenomeno di tutt’altra natura (finanziaria). Del resto, gli USA sono uno Stato, EU è un mercato di Stati differenti. In questa torsione alla “finanziarizzazione”, le nuove ricchezze determinano diseguaglianze sociali inarrivabili e l’ulteriore crisi ontologica di quella cosa che chiamano “democrazia” ne è ovvia conseguenza. Europa ha perso progressivamente il suo ordine sociale, economico e politico portante degli ultimi sessanta anni, goccia a goccia, pezzo a pezzo, nodo per nodo, come un sistema che ha smesso di reagire al suo circostante. Con l’implosione sovietica, l’intera tradizione di pensiero di “sinistra”, storico frattale coordinato dell’insieme che diciamo “Europa”, crolla in un silenzioso dissipamento verso le regioni più gelide e poco frequentate del pensiero sempre più alieno all’azione, scompare per sfarinamento ideologico, si disintegra mostrando incapacità intrinseca di riflessione anche e soprattutto su sé stessa. L’XI Tesi voleva cambiare il mondo, il mondo è cambiato ma ci è sfuggito di mano.  

In un’altra inquadratura della stessa condizione, negli ultimi venti anni, i rilievi sociosanitari di base (OMS 2022), dicono di una vera e propria epidemia di depressione e vari tipi di malinconia, accompagnati da un sovra-consumo farmaceutico e varie patologie mentali. Il fenomeno Covid con un +25% di picco delle patologie ne è solo il culmine accidentale, l’intonazione di fondo era pregressa. Questo piano dell’esistenza è ritenuto strettamente privato ed è negato dalla fabbrica dell’immaginario pubblico. Pubblicità, cinema, internet, discorso pubblico, non hanno alcuna apertura a riflettere questi progressivi stati di incertezza umana, l’ansia, la paura, la mancanza di senso, la solitudine affollata, infelicità senza desideri, la precarietà dilagante. Alla natura corrosiva del problema psicosociale, si aggiungono gli effetti del non riconoscimento e possibile condivisione dello stesso. La contraddizione, la “coscienza” del problema, è repressa poiché inammissibile ai fini della prorogabilità di questo sempre più sbilenco sistema. Gli è negata condivisione sociale, quindi è confinata sempre più negli angusti limiti individuali che non possono che subirla in silenzio e financo negandone l’evidenza per totale incapacità e possibilità stessa ad affrontarla.

  • CONTRAZIONE DEMOGRAFICA. Naturalmente, nessuno “sente” sulla pelle condizione ed andamento demografico che è un mero indicatore statistico, tuttavia il fatto sociale c’è. Da almeno la fine degli anni Sessanta, le società abbienti (circa 50 su 200 nel mondo) risultano al contempo le più ricche, sviluppate e progressivamente infertili, ben sotto l’indice di sostituzione, quindi in contrazione relativa. Società che si contraggono certo non crescono sul piano economico al di là delle dinamiche intrinseche dell’andamento economico in quanto tale. Altresì, rivelano strappi e buchi di funzionalità interna (lavori meno pagati o gratificanti o di forza, sbilancio contributi spesa sociale e pensionistica) che si cerca di compensare importando demografia in esubero da vicini di altre civiltà che di contro, rispetto alla loro condizione, continuano a coltivare il loro “sogno europeo”. Ma non ci sono solo effetti economici e sociali, ce ne sono anche di culturali, la società e la sua intonazione psichica invecchia e va alle prese con problemi pratici di convivenza con altri sistemi culturali forti (islam, africanità). Il nuovo e l’anziano sono stati divergenti in essenza.

Da segnalare che, storicamente, nessuno s’è mai dovuto occupare, prima di oggi, della fine della crescita naturale della popolazione, trattasi di inedito storico, quindi culturale.

Tra questioni di riequilibrio dei ruoli famigliari nei rapporti di coppia, al rapporto tra felicità individuale immediata e costruzione di progetti famigliari, alle rese delle pratiche sessuali sempre più invitate alla libera esplorazione, al peso di prender impegni in una società che altresì richiede improvvisa piena disponibilità a singhiozzo, alla conciliazione lavoro-cura, a questioni meramente tecniche (asili, carriera, lavoro, etc.), alle questioni del supporto pubblico e spesa sociale, sostenibilità economica e precarietà/prevedibilità, la questione riproduttiva investe tipi di società molto varie (sebbene, come detto, tutte affluenti), ma quella europea sembra quella che ne ha risentito prima e ne risente più di ogni altra. Di per sé, questo sarebbe da rubricare come “semplice” fenomeno da valutare ed a cui adattarsi, in sé può esser un “male” poiché ovviamente cambia gli equilibri sociali a cui siamo storicamente abituati o un “bene”, ad esempio, in una poderosa e convinta transizione intenzionale ad altre configurazioni di sistema. Certo, in assenza di una attenzione realista, rimane solo una profonda perturbazione subita.

  • LA QUESTIONE ECOLOGICA. Anch’essa del tutto inedita sul piano della percezione storica, sia nella versione ambientale che climatica, si vien rivelando in vari modi negli anni Sessanta e Settanta. Negata per decenni poiché avversa agli interessi economici e finanziari del sistema in atto, diventa improvvisamente indifferibile solo negli ultimi dieci anni quando i toni di allarme catastrofista crescono a ritmo ed intensità da renderli spesso anche poco credibili ed efficaci. Si assiste alla paradossale riduzione del problema di fattura epocale in un alacre fervore “verde” finalizzato a vendere nuove cose sotto improvviso ricatto valorial-morale mentre è evidente che è un intero “modo di stare al mondo” a generare il problema.

Su questa gestione disordinata e francamente irresponsabile dell’argomento si innesta ovviamente anche il negazionismo a doppia cifra: quello interessato alla permanenza di certi regimi energetici e comunque differimento di certi investimenti o adattamenti costosi e quello da guerriglia culturale riduzionista che pesca nei fantasmi di Davos e del Grande Complotto Mondialista per catalizzare disagio non altrimenti diagnosticato.  Complessivamente, rimane l’effetto realtà allarmata e francamente allarmante, viepiù per le giovani generazioni per altro cinicamente usate dal liberalismo progressista britannico sotto forma di ONG “ribelli” contro addirittura l’”estinzione di massa”, pretendendo di isolare squilibri ed ingiustizie ecologiche da quelle sociali e politiche. Lo stesso meccanismo di rimandare alla Grande Catastrofe (l’estinzione umana) un problema che però andrebbe articolato per gradi, tempi e possibilità di intervento sul piano dell’affronto adattivo, è un meccanismo di difesa. Siano ancora a “gli dèi ci sono avversi”, che possiamo fare? Compriamo una nuova macchina elettrica!

  • UN MONDO SENZA INTERPRETAZIONI. La sconfortante superficialità culturale liberale (la “cultura” liberale è storicamente giovane, localizzata in senso anglosassone, piena di buchi teorico-pratici) ha addirittura celebrato la “fine delle ideologie” negli anni Novanta, cioè la fine delle idee, dei complessi di idee, delle immagini di mondo. In risonanza al fastidio per i discorsi sulle idee già proprio del “grande liberale” Napoleone (1812) ai tempi di Destutt de Tracy. Di fatto, è stato desertificato il panorama interpretativo del reale proprio mentre il reale mostrava una sempre più complessa e contradditoria fenomenologia. Il pensiero liberale che per tradizione si voleva plurale (oddio, ci sarebbe da discutere su questo punto) è confluito in un pensiero unico, l’unico pensiero pensabile o più che pensabile, praticabile. Peggio di ciò che ribolle nel pentolone della realtà complessa delle transizioni storiche c’è il non capire cosa sta accadendo, da dove viene, dove va, perché ci va. Così lo forzo repressivo e reinterpretativo a chiave unica del reale, impiega legioni di storyteller sempre più imbarazzanti nella loro impreparazione. Fino al come i Grandi Narratori Autorizzati europei hanno di recente gestito questioni come la guerra in Ucraina, Palestina-Israele, la questione cinese con ricorsi propagandistici di fattura primo Novecento, imbarazzanti nelle loro rozzezze. Ci tocca vedere un augusto funzionario UE, tale Borell, citare Platone-Vegezio secondo i quali “si vis pacem para bellum”, come si annuncia la settimana del 3×2 alla Lidl mentre su gli scaffali “La pace perpetua” di Kant, piange in silenzio la perduta ragion pura.
  • VIVERE NEL MONDO SENZA PENSARLO. Europa s’è quindi progressivamente trovata in un nuovo mondo il cui avvento non ha avvertito per tempo. In questo mentre, Europa si impegnava nella costruzione di un “mercato” per decenni, pur di salvare le prerogative dei propri desueti stati-nazione in fondo mercantilisti, pur di pensare che la prospettiva mai sarebbe stata interrotta, pur di rimanere nell’incantamento della teoria del mercato autoregolato spontaneo, ignorando i molteplici segnali di sempre crescente marginalità multidimensionale a scala mondo. Europa è totalmente estranea alle nuove produzioni e sviluppi dell’ICT e quelli trainati dalle scienze cognitive, la “conversione verde” si sta rivelando un fallimento, con compagnie che per dimensioni (e relativi piani di ricerca) non riescono ad avere dimensione competitiva con quelle statunitensi e cinesi. Le First/Business Class delle compagnie aeree globali del Golfo ed asiatiche mostrano la tomografia dei nuovi flussi di ricchezza.

Illusa nella propria sfera protettiva di esser divenuta immune al tempo ed alla storia, Europa s’è svegliata di colpo una mattina scoprendo che le magnifiche sorti del globalismo liberale all’occidentale erano state di notte sostituite dal ritorno della storia ovvero delle logiche di potenza che presuppongono Stati, strategie, armi, visione geopolitica. UK (che sull’illusione di nuovi spazi globali da “Global Britain in back!” ci aveva pure fatto la Brexit, almeno secondo le intenzioni delle sue élite), Germania, Francia, di colpo ridotte a compiacenti ancelle strategiche del soggetto americano, l’unico in grado di manovrare storia e potenza in proprio favore. Costrette sempre più assieme all’Italia e le altre a sacrificare investimenti e spesa sociale in favore delle armi. Dopo quello che abbiamo qui combinato nella prima metà del Novecento, non una ma due volte, stiamo tornando ad armarci. Dopo Ypres, dopo Dresda, stiamo tornando ad armarci. Sconcertante. Sconcertanti i fatti certo, ma più ancora la mancanza di riflessione almeno problematica, su fatti di tale natura e portata.

Insomma, Europa ha perso gradatamente il proprio ordine sociale decennale e relativa visione di mondo, non ha neanche bene capito perché e come, si ritrova alle prese con problemi di fattura epocale (demografia, ecologia, geopolitica) che non sa come trattare, priva di schemi di comprensione adeguati alle nuove complessità, nei fatti posta su traiettorie divergenti rispetto alla crudità del reale rimosso: la storia non era finita, era appena riiniziata. Non male come disguido interpretativo. C’è di che prender paura, effettivamente.

Ha così gioco facile il filosofo-cronachista sudcoreano BCL a segnalarci questo nostro perderci nelle “non cose”, una barriera di sostitutivi della realtà, cataloghi di segnali, rappresentazioni, spettri, doppioni, simulazioni, cascate di dati ed immagini al posto del contatto diretto col reale. Le ultime vestigia di cose reali con cui ci impegniamo ormai sono i gatti. Così altresì per l’impero dello storytelling in cui siamo immersi pur non avendo davvero nulla di significativo da dire, se non cercare di restaurare allarmanti segnali di realtà negativa (cascate di improvvisi “glitch” di sistema che si cerca di rattoppare con sempre più affanno) in innocui e deviati temi di intrattenimento social. Viviamo orami in una intercapedine tra noi ed il reale in cui il reale non è mai tale ed anche noi non siamo mai davvero noi ma quel noi che va incastonato in quel gioco dell’irreale facente funzione di reale, in una stanca proroga della prospettiva che nel frattempo ha cambiato profondamente topologia, ordine e dinamica. Non produciamo più immagini di mondo ma immagini come fossero un mondo, sono autoriferite, sono soggetto che si fa oggetto, specchiano ma non riflettono, sono povere di mondo. Continuamente, ci forniscono anche strumenti per ritoccare queste nostre immagini di modo così che non ci venga il ghiribizzo di ritoccare il mondo.

Il menù dell’adattamento al reale per Europa oggi è troppo vasto, profondo e pesante. Che ne è della società del lavoro e reddito, cosa al suo posto? Cosa fare della nostra contrazione demografica, come adattarsi? Come adattarsi ad un mondo naturale che non ci garantisce più condizioni stabili e prevedibili? Come convivere in sistema umano di 8 miliardi di individui e 200 stati raggruppabili almeno in nove condensazioni di diverse “civiltà”, per altro su molti aspetti destinate alla problematica convergenza (che non è fusione), su uno spazio ario-terracqueo che appena settanta anni fa ne conteneva un terzo. Come ricostruire una cultura pubblica e condivisa, per quanto plurale ed anche agonistica, senza la quale le società non possono riflettere sé stesse e su sé stesse? Come poter tornare a decidere qualcosa come demos tanto da continuare a pensare noi si sia quello che non siamo affatto (democratici), né forse siamo mai stati davvero.

Quante cose dovremmo ripensare della nostra forma di “stare al mondo”, incluso lo stesso modo in cui pensiamo le cose? Cose che continuiamo a trattare separate osservando panorami enormi ed in subbuglio coi microscopi e le lenti degli specialisti della frazione congelata. Specialisti “carichi di teorie” tutte per lo più sbagliate non foss’altro perché native di condizione storiche pregresse e non più vigenti.

La nostra gigantesca operazione di rimozione del reale sembra proprio facilmente diagnosticabile come sintomo di questo nuovo complesso di “insormontabile difficoltà” a stare nel reale, a prenderne atto, a provare a riformularci ma senza sapere da che parte iniziare, poveri di strumenti teorici sebbene ubriachi di dati puntiformi ed insensati e con i poteri in atto, come al solito, a strenua ed ottusa difesa del contingente.

Ci sarebbe anche del lavoro da fare sulla immagine storica di noi stessi, dei nostri valori, del nostro valore di civiltà, del nostro troppo stratificato e antico complesso culturale. Forse il nostro “Io di civiltà” ha troppi errati presupposti, troppa idealità e poco pragmatismo concreto, troppi luoghi comuni e categorie oramai sedimentate e divenute strati geologici del pensiero ritenuti irrinunciabili poiché identitari. Idee, proiezioni, giudizi a priori al posto dell’esame puntuale di: “cosa è questo qui? (l’aristotelico “tode tì”). Preferiamo criticare, usiamo “capitalismo” come diagnosi-pattumiera causa di tutte le cause, “neoliberismo” da ultimo, Antropocene, “estinzione di massa”. Come diceva Altan “La soluzione non c’è e questo è un del sollievo”. Si “sollievo” psichico, va tutto sempre peggio ma non è colpa nostra. Già, “cosa possiamo sapere, in cosa mi è lecito sperare, che cosa dobbiamo fare?”. Spaventarci e scappare in qualche angolo buio.

Forse la prima cosa che dovremmo accettare almeno per simulare un tentativo di comune speranza, è ammettere quanto grosso è il problema che abbiamo e quanto non abbiamo la più pallida idea di come affrontarlo. Radicalmente. Tutti.

[Nel post originario si fa riferimento ai due libricini recenti di Byung-Chul Han “Le non cose” (Einaudi 2023) e “La crisi della narrazione” (Einaudi 2024) che però riguardano solo una lettura critica del ruolo psicopatologico che la fuga su Internet ha nella più generale negazione della realtà spaventosa e fastidiosamente concreta]

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PACE E GUERRA.

A marzo di quest’anno, nella distrazione generale delle nostre opinioni pubbliche esposte solo ad alcune notizie, in genere urlate e ignare del tutto di altre notizie che pure meriterebbero attenzione, arriva l’incredibile notizia della ripresa delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita ed Iran grazie alla intensa mediazione cinese. La cosa si porta appresso gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman storico mediatore interno il mondo musulmano diviso tra sciiti e sunniti, il Qatar che sta nel mezzo del Golfo su cui si affacciano i due grandi paesi, non dispiace all’Egitto e alla Turchia. Si apre la prospettiva di un Golfo Persico pacificato e stabile, aperto al commercio di energia da cui, per la gran parte, l’Asia dipende. Incredibilmente, iniziano anche le procedure per riallacciare i rapporti con la Siria di Assad dopo 12 anni e migliaia di morti in una lunga ed inconcludente guerra da cui è sorta anche la strana ISIS. A maggio, Assad è riammesso nella Lega Araba. Ad agosto, nella riunione dei BRICS che discutono il proprio allargamento, l’India porta dentro l’Arabia Saudita (che si porta appresso gli Emirati Arabi Uniti), la Cina porta dentro l’Iran, la Russia porta dentro l’Egitto. Tre dei più importanti paesi musulmani del quadrante mediorientale, dal 1° gennaio sarebbero parte di un’unica organizzazione. A settembre si tengono addirittura colloqui di pace tra sauditi e yemeniti (Huthi) dopo otto anni di una guerra che ha fatto 15.000 morti (più del 60% civili) e milioni di sfollati. Prima dell’attuale Gaza, la “più grande catastrofe umanitaria” dai tempi del Biafra, secondo l’ONU. Paesi difformi ed in lunga tensione reciproca, sciiti-sunniti-e cinquanta sfumature di islam (più “politico” o “religioso”), ognuno con cicatrici per guerre fatte o subite, riuniti dal comune interesse per uno sviluppo economico che non solo costa meno del farsi guerra ma che è l’unico modo per stabilizzare le relative società civili, dando speranza nel futuro.

A settembre, al G20 che si tiene in India, si manifesta un dissidio tra l’ospitante India di Modi e gli Stati Uniti di Biden che per altro lo stesso Modi ha visitato a giugno siglando una dozzina di contratti importanti in campo militare, tecnologico, astronautico. L’americano pretende una dichiarazione di condanna della Russia per la guerra in Ucraina (che Modi non firmerà), ma vuole anche che l’India aderisca al progetto di una nuova Via del Cotone che diventerebbe una spina nel fianco alla Via della Seta cinese (che Modi firmerà). Si tratta di un corridoio logistico su cui far viaggiare merci dall’India all’Europa, via Emirati, Arabia Saudita, Giordania, Israele come terminale portuale di Haifa. Il tutto costruito da imprese tedesche, francesi, italiane. La cosa dispiace a molti. All’Iran che verrebbe emarginato e che perderebbe analogo progetto con l’India che avrebbe collegato questa alla Russia, via Caspio. Alla Russia stessa e per varie immaginabili ragioni. Alla Turchia ed al Qatar emarginati dalla partita. All’Egitto che vedrebbe calare il suo traffico a Suez e relativa centralità geopolitica. Al mondo musulmano più in generale poiché formerebbe una alleanza forte di interessi tra alcuni suoi paesi ed Israele e l’Europa in via esclusiva. Alla Cina, che legge il tutto come chiara interferenza alla sua Via della Seta, ma anche come divisione dell’appena allargato campo BRICS e tentativo di pacificare il Medio Oriente. Ai palestinesi che non è chiaro se beneficiati da qualche briciola della partita come Autorità dei territori e non come Gaza. Inoltre, pare che i sauditi per firmare l’accordo pretendessero il benestare americano ed israeliano allo sviluppo nel loro nucleare civile che, come è noto, differisce non di molto da un possibile uso bellico. La stessa questione che per anni ha avvelenato i rapporti con l’Iran. Un autentico stravolgimento degli equilibri d’area.

Il 7 ottobre scoppia la guerra tra Israele e palestinesi di Gaza/Hamas.

Nel giro di appena otto mesi, c’è stata una inedita e speranzosa ricucitura del martoriato quadrante a cui è seguita una decisa scucitura per mettere alcuni contro altri come noi occidentali lì facciamo da sempre. Blinken sta girando lì come una pallina di flipper per provare a gestire l’incendio catastrofico appiccato dal suo presidente a fini geopolitici ed elettorali interni.  Dopo solo dieci giorni ed ancor prima dell’inizio della penetrazione israeliana a Gaza, si contano già 1400+2750 morti (+1000 dispersi, forse sotto le macerie?), 3800+12.000 feriti (israeliani + palestinesi West Bank/Gaza), centinaia di migliaia di sfollati, distruzione materiale e ben due portaerei mandate dagli americani in zona, tanto per dare una mano a chi e per cosa chissà.

Accanto a tutto questo, un Occidente che pone divieti di manifestare solidarietà col popolo palestinese, ostracizza intellettuali critici, rispolvera i suoi sensi di colpa per la Shoa e bolla come antisemita ogni posizione critica, aspettando il terrorismo islamico che ha così una nuova causa per manifestarsi. Per non parlare del rischio allargamento del conflitto, i prezzi delle fossili, l’ennesima perturbazione di una economia già provata dal Covid, dalla guerra in Ucraina e i nuovi diktat statunitensi sul con chi si può e con chi no, commerciare.

Per mettere a quadro quello che sta succedendo nulla meglio di un esperimento mentale sul tema più difficile ovvero come risolvere la questione israelo-palestinese. Di partenza, ci sono due popoli che contano più o meno circa 9 milioni di persone cadauno (palestinesi di Gaza, Cisgiordania, Israele e parte dei profughi stipati da anni nei campi), reciprocamente estranei per religione ed etnia, ma meno per cultura materiale visto che hanno un lungo passato di normale convivenza. Quindi 18 milioni di persone circa da mettere in una terra (Israele, Cisgiordania, Striscia di Gaza) che sviluppa poco più della superficie della Sicilia (che ne conta poco più di un quarto). È chiaro che nessun altro oltre a loro stessi, può risolvere la difficile equazione. Dovendo trovare lo schema di convivenza, debbono esser spinti a trovarlo da tutte le parti in causa che si collocano loro intorno, sicuramente non sono queste parti esterne che possono trovarlo o imporlo dall’esterno, né si può immaginare loro lo facciano di loro spontanea volontà.   

Andiamo quindi all’elenco delle parti in causa. Si parte dall’Egitto, poi la Giordania, il Libano, la Turchia, la Siria, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar e l’Iran. Tutti questi paesi sono coinvolti per aver confini in comune con la rissosa area (Egitto, Giordania, Libano), perché “vicini” alla storica causa palestinese (intero mondo arabo), perché amici dei Fratelli Musulmani (Qatar e Turchia) a cui appartiene Hamas, perché fortemente ostili ai FM (Egitto, petromonarchie), perché già pieni di profughi (Giordania, Libano), perché non ne vogliono avendo già parecchi altri problemi (Egitto), perché ospitano Hezbollah (Siria), perché supportano Hezbollah e Hamas (Iran). All’elenco si deve aggiungere: la Russia, l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America per ovvie ragioni. In un immaginario tavolo per la pace, pur non direttamente coinvolti ma ormai pesi importanti della comunità internazionale, non sarebbe male convocare anche l’Unione Africana, il Brasile e soprattutto India e Cina, entrambe con forti interessi al commercio e la pacificazione dei propri fornitori di energia arabi.

Quindi, se tutte queste parti in causa si riunissero ponendo assieme tutte le facilitazioni ed appoggi diplomatico-geopolitici, nonché piani di investimento strategici per far ulteriormente sviluppare l’area purché pacificata sul serio e condizionassero questo pacchetto di rosee prospettive garantite come condizione affinché i due contendenti trovino la difficile quadra al loro problema di convivenza, si potrebbe sperare nella pace. Se non lo si fa è guerra, semplicemente perché una situazione già molto difficile di suo, è usata da questo o quello per competere sul piano politico, ideologico, geopolitico e geoeconomico. Così, ogni fazione interna le due parti in causa che avrebbe il suo sponsor esterno a cui affidarsi per continuare a confliggere, per vincere o solo per non far del tutto vincere l’altro.

La tesi è corroborata dai due esempi esposti, fatti svoltisi in appena sette mesi. Un processo di pacificazione tra i due poli più ostili dell’area mediorientale (sauditi ed iraniani, il centro del sunnismo anche quello versione armata e quello dello sciismo anche in versione armata) condotto dai cinesi facendo balenare prospettive di sviluppo, investimenti e crescita economica e commerciale a cui è seguito un benefico processo a cascata in tutta l’area. Da parte americana, un tentato processo di interferenza di questo nascente quadro mettendo assieme solo alcuni, quindi a dispetto di altri a cui ha fatto seguito l’inizio delle nuove ostilità. Oltretutto, importando nel quadrante dinamiche di competizione che riguardano esclusivamente gli Stati Uniti e la Cina. O si pacifica l’intera area o la questione israelo-palestinese rimarrà il frattale del conflitto più ampio.

Antisemitismo, shoah, jihad, democrazie o meno, scontro di civiltà, supremazia dei valori, atrocità commesse scelte a caso per l’amplificazione media, obliterazione del retroterra storico e geografico, diritto internazionale, quanta “vendetta” concedere ad Israele, sono solo sintomi nel discorso pubblico di quanto non si voglia affrontare sul serio la questione e la si voglia vestire ideologicamente per giustificare il conflitto. Perché è utile lì e non solo lì, ci sia conflitto.

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IL NEO-NAZIONALISMO MORALE OCCIDENTALE.

L’argomento è complicato e si debbono usare termini carichi di stratificazioni storiche e ideologiche, termini spesso imprecisi che coltivano fraintendimenti, lo spazio è breve e le mie capacità limitate, tuttavia sento l’esigenza forte di trattarlo ugualmente. Partiamo dalla presentazione della tesi: in Occidente, si va formando un sentimento identitario di appartenenza meta-nazionale, basato sulla superiorità morale. Trattiamo qui Occidente come una macro-nazione coincidente nei bordi con la sua definizione di civiltà. Civiltà, tuttavia, è una definizione storico-analitica, nessuno ha mai provato sentimenti per l’appartenenza ad una civiltà, ad una “nazione” sì.

Il concetto di nazione (o il precedente “popolo”) ha dato storicamente vita a due sentimenti, uno debole come auto-identificazione di appartenenza, l’altro forte come ideologia che dal difensivo (noi siamo diversi da loro) passa facilmente all’offensivo (noi siamo superiori a loro ed abbiamo diritti su di loro in base a tale superiorità). Da coloro che partono dal “sangue comune” fino a chi pensa che il concetto di nazione sia una pura tradizione inventata, c’è un ampio dispiegarsi di posizioni. Mondato il concetto di ogni sentimento e ideologia, di per sé, si possono rinvenire gruppi umani che hanno una certa coerenza interna più di quanto il loro stare assieme abbia con l’esterno. Se li analizzate stando al loro interno e rivolgendovi a questo, sembreranno anche troppo vari e disomogenei per ritenere il concetto sostenibile. Se però li analizzate dall’esterno in contesti più ampi dove ci sono altri gruppi di diversa storia e tradizione, effettivamente l’appartenenza ad una certa nazionalità è congruente, distinguente, “emerge” dalla comparazione. Dire se per cultura o natura è ereditare una falsa dicotomia, insostenibile in biologia e storia.

Ci sono “nazioni” senza stati e stati con più nazioni dentro. La “nazione occidentale” è un inedito in quanto si presuppone una comune appartenenza a genti di più stati che hanno già una loro identità nazionale. Ma le identità multiple (K. Crenshaw) non sono da tempo un problema, ci sono testaccini, che poi sono romani, che poi sono italiani, che poi sono europei, c’è spazio anche per occidentali e sempre che si voglia rimanere dentro la sola definizione geostorica. Alcuni, ad esempio E. Morin[i], sono andati con lo sguardo avanti promuovendo un sentimento di comune appartenenza all’umanità terrestre, in chiave ecologica anche Latour[ii], il che va benissimo. Tuttavia, condizioni per l’evolversi di tale sentimento oggi non esistono ed anzi ne esistono di contrarie. Poiché ogni cosa ha gradini da salire per compiersi, già evolvere un sentimento razionale che cerchi il difficile incastro per una pacifica convivenza planetaria coi differenti sarebbe utile.

Se torniamo alla prima specifica, la nazione aggruppa genti che hanno in comune parecchie cose se comparate con altre genti di diversa storia e tradizione. Poiché non ci siamo mai trovati in un mondo di otto miliardi di individui in duecento stati e varie civiltà, fortemente intrecciati da pratiche e problemi comuni, in competizione più che in cooperazione, ecco che si tenta di formare un sentimento di “nazione” in quella che prima era una più fredda “civiltà”. È l’attrito con le altre civiltà a far scaturire il sentimento di appartenenza che porta poi alla nuova macro-nazione. In sé, ma molto più in come viene raccontata al fine di costruirla.

Alcuni studiosi (Hobsbawm[iii], Anderson[iv] etc[v].) hanno sostenuto l’inesistenza reale di qualcosa come una nazione che sarebbe una tradizione inventata da élite che hanno avuto interesse a riquadrare un popolo sottostante per manovrarlo a propri scopi. C’è del vero storico in questa tesi, ma essa soffre anche dello schematismo originario per cui nasce per togliere legittimità ad ogni nazionalismo (per gli studiosi marxisti ci sono solo “classi”). Sarebbe forse più congruo dire che c’è qualcosa che unisce coloro che appartengono ad un dato popolo e tuttavia da solo, questo “qualcosa” non avrebbe mai generato sentimenti forti o addirittura ideologie quindi, in effetti, c’è chi manipola questo “qualcosa” che c’è, ma è debole o solo in potenza. Per avere un sentimento di nazione ci deve essere un sottostante potenziale, non s’inventa di sana pianta e tuttavia questo sottostante non basta a giustificare la sua deriva ideologica.

Il sentimento “noi occidentali” è oggi una precisa ideologia promossa dalle élite occidentali ovvero quel gruppo con signorie locali che fanno capo ad un principe, statunitense. Il principe statunitense ha lanciato l’operazione “noi occidentali” in Ucraina poiché una delle ragioni del come si sta gestendo quel conflitto in ottica multipolare è stata la piena cattura egemonica dell’Europa, l’annessione dell’altrimenti vociante, incoerente e disparata Europa sotto la protezione del principe di oltreatlantico. La polarizzazione degli occidentali europei è stata ottenuta con sorprendente velocità ed allineamento poiché gli europei vagavano in un limbo idealistico ed irresponsabile di negazione della realtà mentre gli statunitensi, sulla realtà, avevano progetti. Ma la dura struttura non basta, ci vuole un riflesso sovrastrutturale per sentirsi uniti. Ormai usiamo categorie di pensiero, mode del pensiero, slogan americani, software-mail-browser statunitensi, siamo culturalmente euro-americani su fino al come sono impostate molte discipline, la loro epistemologia, il metodo. Tutta questa è la nostra immagine di mondo occidentale dominante. C’è quindi una evidente egemonia che prima che nei concetti e nelle idee è proprio nelle forme del pensare. In Ucraina, a Taiwan, nel Sahel, in Israele e non mancheranno nuove aree di crisi economica-migratoria-ecoclimatica con effetti sociali, la perturbazione unifica e la torsione multipolare del mondo ne promette a ripetizione, il polo occidentale si costituisce perché l’unione fa la forza e sotto attacco c’è bisogno di unirsi.  

Gli statunitensi stanno tentando l’istituzione di un nazionalismo occidentale in un frame che resuscita lo “scontro di civiltà”, intuizione di Samuel Huntington anni ’90[vi]. Abbiamo citato Huntington in un precedente articolo[vii] sulla progressiva corrosione dello standard democratico uscito dal dopoguerra. L’indebolimento della democrazia è propedeutico al principato ed all’unificazione della nuova nazione sotto attacco. Quindi, sul piano concreto ormai l’Europa è messa al corrente delle strategie sul mondo che fanno gli statunitensi, sul piano ideologico consegue il sentirsi parte della nazione occidentale di cui condividiamo una cultura relativamente omogenea, il cui principe sa cosa e come si deve fare in un clima di perenne emergenza. Questo piano politico-ideologico ha bisogno di un sentimento.

La natura di questo nuovo sentimento del popolo occidentale, che, come ogni popolo che finisce con l’esuberare il proprio nazionalismo da identità distinguente a ragione di superiorità ha bisogno di ragioni “alte”, è la superiorità morale.

Noi siamo superiori moralmente: diritti individuali (i sociali non esistono perché non esiste una cosa chiamata “società”), parità dei sessi, tolleriamo i diversamente sessuali, siamo democratici, scientifici quindi razionalmente oggettivi, siamo liberi e liberali, siamo inclusivi, non ammazziamo i bambini ed i civili altrui -a almeno così ce la raccontiamo-, quando non si può fare a meno di difendere qualcuno bullizzato da non civiltà o civiltà degenerate magari usciamo le armi ma è il nostro destino di polizia morale del mondo che ce lo impone, vogliamo “solo” commerciare, competere con regole per la ricchezza e la posizione sociale. Si badi, si può anche credere a tutto ciò ma non c’è nulla in questa credenza che implichi il fatto che “migliore” deve portare allo scontro contro il “peggiore”. Addirittura, si potrebbe argomentare al contrario, proprio perché sei migliore dovresti saper gestire le differenze evitando il conflitto.

Certo se ti sembra normale andare a fare un rave party a poca distanza da un concentrato di due milioni e passa di persone, per lo più altrettanto giovani, che tu hai segregato da recinzioni e oggetto di privazioni e restrizioni che le pongono in condizioni subumane, lo ritieni un “diritto” e non un problema, allora stai ancora a Maria Antonietta per la quale la fame del popolo si doveva curare dandogli i croissant (storiella falsa ma cucita apposta per far capire le contraddizioni a gente che dopo la quinta parola di un enunciato crolla nella nebbia mentale) ovvero hai una totale ignoranza del contesto. Non mi riferisco alla concreta cosa in sé, mi riferisco al piano simbolico, è simbolo dei tempi avvicinare a meno di cinque chilometri giovani che vivono due mondi ed immagini di mondo così diverse e contrastanti, ma correlate sul piano concreto e causativo e non ritenerlo un sintomo problematico in termini di cultura di convivenza[viii].

Non curare le più vistose contraddizioni porta a reazione. Ne consegue ogni bruttura poiché l’azione reattiva non è notoriamente razionale e nell’irrazionale torniamo animali quali in buona parte siamo ancora pur meravigliandoci del fatto, invece di meravigliarci del fatto che ci meravigliamo di una ovvietà. Ribadisco, non c’è problema se ti piacciono i rave party e ti senti superiore moralmente, l’etnocentrismo è lo schema culturale più diffuso al mondo secondo quanto disse -a ragione- Levy Strauss. Solo, dovresti preoccuparti anche solo per buonsenso funzionale, del fatto che hai coltivato una bomba emotiva di rabbia e ci vai ignaro davanti a fare una festa sesso-droga-rock ’n’ roll. Così ti vengono a sparare ed allora tu hai diritto di andare a massacrarli perché loro ti hanno massacrato perché tu li avevi massacrati in passato e così lungo la catena dei misfatti di settanta anni. Sarai anche “migliore” ma non si capisce in cosa visto che sei ancora alle faide tribali.

Quando il ministro israeliano definisce i palestinesi di Gaza “animali umani” non pensa che se tratti qualcuno da animale umano poi quello si comporta da animale umano? Ah, ma così giustifichi Hamas! Ma il problema della “giustificazione” è tutto interno ad una mentalità morale, io non ce l’ho quella mentalità, ho quella realista azione-reazione e mi pare ovvio che se tratti qualcuno da animale poi lui si comporta di conseguenza, non c’è giusto o sbagliato, è ovvio e conseguente, ti piaccia o meno, è un fatto non un giudizio.

I costruttori della nuova supremazia morale stanno in questi giorni piantando nel discorso pubblico il discrimine dell’antisemitismo. Ecco trasformata una complessa questione storico-culturale che ha settanta e passa anni, in una crociata morale. La crociata morale pesca nelle emozioni come il nazionalismo aggressivo, è prepolitica, è dicotomica ovvero taglia ogni mezzatinta, esclude tu possa rifiutare la dicotomia imposta puoi solo scegliere da che parti trovarti anche se il contenuto morale auto-evidente fa sì che tu in realtà non puoi scegliere nulla, non vorrai mica parteggiare per il “nemico della tua civiltà”? Saresti un traditore che è un nemico interno che va trattato come quello esterno, magari un po’ meglio visto che è dei nostri come nazione e quindi merita un occhio di riguardo per non farci scivolare nella barbarie che stiamo combattendo.

Ma è un meglio relativo, come con il meccanismo “aggredito-aggressore” basta l’ostracismo antica pratica di autoprotezione dei gruppi umani. Questi meccanismi sono pensati da qualcuno, compaiono subito e diventano presto condivisi, quello attuale è l’assimilazione di Hamas all’ISIS, quindi jihad e scontro di civiltà a seguire. I nostri media sono presidiati dalla nuova “polizia morale” che ha la stessa funzione che ha in Iran, presidiare la norma. Anzi prima c’è la squadra che taglia la rappresentazione delle realtà e la ripetizione di informazioni in un certo modo, prepara il terreno, poi arriva la polizia morale e punisce in pubblico l’ospite chiamato a sostenere l’insostenibile per testimoniare del nostro liberalismo tollerante. La punizione in pubblico è socio-pedagogicamente proficua per presidiare la norma e mostrare che fine si fa ad esser divergenti.

Molti che contro-argomentano che la nostra civiltà è piena di falsa coscienza, ipocrita, sottilmente altrettanto violenta a mio avviso perdono tempo, accettano la partizione del discorso con gente che ha cento volte la potenza di fuoco dell’immagine di mondo pubblica, una immagine emotiva visto che debbono pompare un sentimento morale. A questo discorso tutto morale va opposto il piano per il quale ci sono solo due modi di ordinare l’intero pianeta umano, contrattando o imponendo, il piano del reale. Il senso di superiorità morale aggressiva non contratta e visto che in teoria dovremmo essere qualcosa di simile ad una democrazia, non si capisce neanche chi l’ha deciso viste anche le conseguenze che comporta. Togliere il fregio di “democrazia” alla nostra civiltà degenerante aiuterebbe a minarne il presupposto di superiorità.

La nota è motivata dall’idea che dobbiamo fare attenzione a certe strutture culturali sociali, preoccuparci sul serio. Non è che perché siamo ormai in gran parte atei o agnostici o deboli di Spirito (in tanti sensi) che la “religione” è morta. La struttura socioculturale del fenomeno religioso (Durkheim per intenderci) spunta fuori anche se non si sta parlando di dio o dei santi o delle preghiere o delle chiese. Non è nata a quel fine, le preesiste nella nostra storia del tempo profondo, molto prima della civiltà.

Così la pulizia etnica o religiosa altro non è che l’antico principio della necessaria omogeneità richiesta per manovrare una nazione senza irriducibili resistenze interne, capita venga usato anche da chi, in altri luoghi e tempi ne è stato vittima se da minoranza si trova poi ad esser nazione.

La struttura socioculturale del nazionalismo aggressivo di antica origine clanico-tribale, spunta fuori anche se con forme quali certo non aveva ai primi Novecento, patria, sangue, destino.

Queste strutture possono esser vestite in vario modo. Ora hanno riscoperto il “profeta” Kagan (2018)[ix]: “L’ordine mondiale liberale (occidentale) è fragile e impermanente. Come un giardino, è sempre sotto assedio da parte delle forze naturali della storia, la giungla le cui viti ed erbacce minacciano costantemente di sopraffarlo”. Come si possa dar per ovvio che l’idea di ordine mondiale di una parte che pesa il 17% del mondo, debba inderogabilmente valere per il 100%, non si sa. Ma al superiore morale la realtà è indifferente, c’è solo la cieca volontà di avere il diritto di estendere il suo locale ad universale perché non riesce a cambiare adattandosi ai mutati contesti. Non riesce a venire a patti con gli altri perché troppo profonde sarebbero le modificazioni cui dovrebbe assoggettarsi. Rifiuta la realtà ed abbraccia la definizione minima di nevrosi: scarsa capacità di adattamento al proprio ambiente, incapacità di cambiare i propri schemi di vita e incapacità di sviluppare una personalità più ricca, più complessa e più soddisfacente. La superiorità morale serve anche a giustificare la nevrosi.

Sappiamo chi pompa questi sentimenti e perché lo fa, sappiamo come va a finire. Pensarci prima è meglio che piangerne dopo. Non è morale, è razionale.

Io sono occidentale e mi vergogno di dover condividere la categoria con certa gente. Dovremmo alzare la voce e contrastare questo tentativo di definire dall’alto la nostra stessa identità, imporre il dibattito su quale tipo di civiltà vogliamo essere nell’era complessa[x]. Porre il discrimine pragmatico tra imporre o contrattare. Nell’era complessa, se la nostra civiltà andrà in guerra, morirà, è una guerra che semplicemente non può vincere.

= = = =


[i] E. Morin, Terra-Patria, Cortina editore, 1994

[ii] B. Latour, La sfida di Gaia, Meltemi, 2020

[iii] E. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1780, Einaudi, 1991-2002

[iv] B. Anderson, Comunità immaginate, Laterza, 1983-2016

[v] Ad esempio: P. Grilli di Cortona, Stati, nazioni e nazionalismi in Europa, il Mulino, 2003

[vi] S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà, Garzanti, 1997

[vii] https://pierluigifagan.wordpress.com/2023/09/29/giu-la-testa/

[viii] I. Buruma, A. Margalit, Occidentalismo, Einaudi, 2004

[ix] R. Kagan, The Jungle Grows Back, Knopf Doubleday Publishing Group, 2019

[x] AA.VV. Genealogie dell’Occidente, Bollati Boringhieri, 2015

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