PACE E GUERRA.

A marzo di quest’anno, nella distrazione generale delle nostre opinioni pubbliche esposte solo ad alcune notizie, in genere urlate e ignare del tutto di altre notizie che pure meriterebbero attenzione, arriva l’incredibile notizia della ripresa delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita ed Iran grazie alla intensa mediazione cinese. La cosa si porta appresso gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman storico mediatore interno il mondo musulmano diviso tra sciiti e sunniti, il Qatar che sta nel mezzo del Golfo su cui si affacciano i due grandi paesi, non dispiace all’Egitto e alla Turchia. Si apre la prospettiva di un Golfo Persico pacificato e stabile, aperto al commercio di energia da cui, per la gran parte, l’Asia dipende. Incredibilmente, iniziano anche le procedure per riallacciare i rapporti con la Siria di Assad dopo 12 anni e migliaia di morti in una lunga ed inconcludente guerra da cui è sorta anche la strana ISIS. A maggio, Assad è riammesso nella Lega Araba. Ad agosto, nella riunione dei BRICS che discutono il proprio allargamento, l’India porta dentro l’Arabia Saudita (che si porta appresso gli Emirati Arabi Uniti), la Cina porta dentro l’Iran, la Russia porta dentro l’Egitto. Tre dei più importanti paesi musulmani del quadrante mediorientale, dal 1° gennaio sarebbero parte di un’unica organizzazione. A settembre si tengono addirittura colloqui di pace tra sauditi e yemeniti (Huthi) dopo otto anni di una guerra che ha fatto 15.000 morti (più del 60% civili) e milioni di sfollati. Prima dell’attuale Gaza, la “più grande catastrofe umanitaria” dai tempi del Biafra, secondo l’ONU. Paesi difformi ed in lunga tensione reciproca, sciiti-sunniti-e cinquanta sfumature di islam (più “politico” o “religioso”), ognuno con cicatrici per guerre fatte o subite, riuniti dal comune interesse per uno sviluppo economico che non solo costa meno del farsi guerra ma che è l’unico modo per stabilizzare le relative società civili, dando speranza nel futuro.

A settembre, al G20 che si tiene in India, si manifesta un dissidio tra l’ospitante India di Modi e gli Stati Uniti di Biden che per altro lo stesso Modi ha visitato a giugno siglando una dozzina di contratti importanti in campo militare, tecnologico, astronautico. L’americano pretende una dichiarazione di condanna della Russia per la guerra in Ucraina (che Modi non firmerà), ma vuole anche che l’India aderisca al progetto di una nuova Via del Cotone che diventerebbe una spina nel fianco alla Via della Seta cinese (che Modi firmerà). Si tratta di un corridoio logistico su cui far viaggiare merci dall’India all’Europa, via Emirati, Arabia Saudita, Giordania, Israele come terminale portuale di Haifa. Il tutto costruito da imprese tedesche, francesi, italiane. La cosa dispiace a molti. All’Iran che verrebbe emarginato e che perderebbe analogo progetto con l’India che avrebbe collegato questa alla Russia, via Caspio. Alla Russia stessa e per varie immaginabili ragioni. Alla Turchia ed al Qatar emarginati dalla partita. All’Egitto che vedrebbe calare il suo traffico a Suez e relativa centralità geopolitica. Al mondo musulmano più in generale poiché formerebbe una alleanza forte di interessi tra alcuni suoi paesi ed Israele e l’Europa in via esclusiva. Alla Cina, che legge il tutto come chiara interferenza alla sua Via della Seta, ma anche come divisione dell’appena allargato campo BRICS e tentativo di pacificare il Medio Oriente. Ai palestinesi che non è chiaro se beneficiati da qualche briciola della partita come Autorità dei territori e non come Gaza. Inoltre, pare che i sauditi per firmare l’accordo pretendessero il benestare americano ed israeliano allo sviluppo nel loro nucleare civile che, come è noto, differisce non di molto da un possibile uso bellico. La stessa questione che per anni ha avvelenato i rapporti con l’Iran. Un autentico stravolgimento degli equilibri d’area.

Il 7 ottobre scoppia la guerra tra Israele e palestinesi di Gaza/Hamas.

Nel giro di appena otto mesi, c’è stata una inedita e speranzosa ricucitura del martoriato quadrante a cui è seguita una decisa scucitura per mettere alcuni contro altri come noi occidentali lì facciamo da sempre. Blinken sta girando lì come una pallina di flipper per provare a gestire l’incendio catastrofico appiccato dal suo presidente a fini geopolitici ed elettorali interni.  Dopo solo dieci giorni ed ancor prima dell’inizio della penetrazione israeliana a Gaza, si contano già 1400+2750 morti (+1000 dispersi, forse sotto le macerie?), 3800+12.000 feriti (israeliani + palestinesi West Bank/Gaza), centinaia di migliaia di sfollati, distruzione materiale e ben due portaerei mandate dagli americani in zona, tanto per dare una mano a chi e per cosa chissà.

Accanto a tutto questo, un Occidente che pone divieti di manifestare solidarietà col popolo palestinese, ostracizza intellettuali critici, rispolvera i suoi sensi di colpa per la Shoa e bolla come antisemita ogni posizione critica, aspettando il terrorismo islamico che ha così una nuova causa per manifestarsi. Per non parlare del rischio allargamento del conflitto, i prezzi delle fossili, l’ennesima perturbazione di una economia già provata dal Covid, dalla guerra in Ucraina e i nuovi diktat statunitensi sul con chi si può e con chi no, commerciare.

Per mettere a quadro quello che sta succedendo nulla meglio di un esperimento mentale sul tema più difficile ovvero come risolvere la questione israelo-palestinese. Di partenza, ci sono due popoli che contano più o meno circa 9 milioni di persone cadauno (palestinesi di Gaza, Cisgiordania, Israele e parte dei profughi stipati da anni nei campi), reciprocamente estranei per religione ed etnia, ma meno per cultura materiale visto che hanno un lungo passato di normale convivenza. Quindi 18 milioni di persone circa da mettere in una terra (Israele, Cisgiordania, Striscia di Gaza) che sviluppa poco più della superficie della Sicilia (che ne conta poco più di un quarto). È chiaro che nessun altro oltre a loro stessi, può risolvere la difficile equazione. Dovendo trovare lo schema di convivenza, debbono esser spinti a trovarlo da tutte le parti in causa che si collocano loro intorno, sicuramente non sono queste parti esterne che possono trovarlo o imporlo dall’esterno, né si può immaginare loro lo facciano di loro spontanea volontà.   

Andiamo quindi all’elenco delle parti in causa. Si parte dall’Egitto, poi la Giordania, il Libano, la Turchia, la Siria, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar e l’Iran. Tutti questi paesi sono coinvolti per aver confini in comune con la rissosa area (Egitto, Giordania, Libano), perché “vicini” alla storica causa palestinese (intero mondo arabo), perché amici dei Fratelli Musulmani (Qatar e Turchia) a cui appartiene Hamas, perché fortemente ostili ai FM (Egitto, petromonarchie), perché già pieni di profughi (Giordania, Libano), perché non ne vogliono avendo già parecchi altri problemi (Egitto), perché ospitano Hezbollah (Siria), perché supportano Hezbollah e Hamas (Iran). All’elenco si deve aggiungere: la Russia, l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America per ovvie ragioni. In un immaginario tavolo per la pace, pur non direttamente coinvolti ma ormai pesi importanti della comunità internazionale, non sarebbe male convocare anche l’Unione Africana, il Brasile e soprattutto India e Cina, entrambe con forti interessi al commercio e la pacificazione dei propri fornitori di energia arabi.

Quindi, se tutte queste parti in causa si riunissero ponendo assieme tutte le facilitazioni ed appoggi diplomatico-geopolitici, nonché piani di investimento strategici per far ulteriormente sviluppare l’area purché pacificata sul serio e condizionassero questo pacchetto di rosee prospettive garantite come condizione affinché i due contendenti trovino la difficile quadra al loro problema di convivenza, si potrebbe sperare nella pace. Se non lo si fa è guerra, semplicemente perché una situazione già molto difficile di suo, è usata da questo o quello per competere sul piano politico, ideologico, geopolitico e geoeconomico. Così, ogni fazione interna le due parti in causa che avrebbe il suo sponsor esterno a cui affidarsi per continuare a confliggere, per vincere o solo per non far del tutto vincere l’altro.

La tesi è corroborata dai due esempi esposti, fatti svoltisi in appena sette mesi. Un processo di pacificazione tra i due poli più ostili dell’area mediorientale (sauditi ed iraniani, il centro del sunnismo anche quello versione armata e quello dello sciismo anche in versione armata) condotto dai cinesi facendo balenare prospettive di sviluppo, investimenti e crescita economica e commerciale a cui è seguito un benefico processo a cascata in tutta l’area. Da parte americana, un tentato processo di interferenza di questo nascente quadro mettendo assieme solo alcuni, quindi a dispetto di altri a cui ha fatto seguito l’inizio delle nuove ostilità. Oltretutto, importando nel quadrante dinamiche di competizione che riguardano esclusivamente gli Stati Uniti e la Cina. O si pacifica l’intera area o la questione israelo-palestinese rimarrà il frattale del conflitto più ampio.

Antisemitismo, shoah, jihad, democrazie o meno, scontro di civiltà, supremazia dei valori, atrocità commesse scelte a caso per l’amplificazione media, obliterazione del retroterra storico e geografico, diritto internazionale, quanta “vendetta” concedere ad Israele, sono solo sintomi nel discorso pubblico di quanto non si voglia affrontare sul serio la questione e la si voglia vestire ideologicamente per giustificare il conflitto. Perché è utile lì e non solo lì, ci sia conflitto.

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti e più anni ritirato a "confuciana vita di studio", svolge attività di ricerca multi-inter-transdisciplinare da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità e pubblica su specifiche riviste di sistemica. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio, in particolare sull'argomento "Mondo e complessità". Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore. A seguire: "Europa al bivio. Tra radici e sfide" a cura di Vincenzo Costa, Marcianum press, 2024 Venezia e "L'era multipolare: competizione o cooperazione" a cura di Gabriele Germani, La Città del Sole, 2024, Napoli.
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Una risposta a PACE E GUERRA.

  1. Patrizia Antonicelli ha detto:

    Grazie!

    Patrizia Antonicelli

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