PACE E GUERRA.

A marzo di quest’anno, nella distrazione generale delle nostre opinioni pubbliche esposte solo ad alcune notizie, in genere urlate e ignare del tutto di altre notizie che pure meriterebbero attenzione, arriva l’incredibile notizia della ripresa delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita ed Iran grazie alla intensa mediazione cinese. La cosa si porta appresso gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman storico mediatore interno il mondo musulmano diviso tra sciiti e sunniti, il Qatar che sta nel mezzo del Golfo su cui si affacciano i due grandi paesi, non dispiace all’Egitto e alla Turchia. Si apre la prospettiva di un Golfo Persico pacificato e stabile, aperto al commercio di energia da cui, per la gran parte, l’Asia dipende. Incredibilmente, iniziano anche le procedure per riallacciare i rapporti con la Siria di Assad dopo 12 anni e migliaia di morti in una lunga ed inconcludente guerra da cui è sorta anche la strana ISIS. A maggio, Assad è riammesso nella Lega Araba. Ad agosto, nella riunione dei BRICS che discutono il proprio allargamento, l’India porta dentro l’Arabia Saudita (che si porta appresso gli Emirati Arabi Uniti), la Cina porta dentro l’Iran, la Russia porta dentro l’Egitto. Tre dei più importanti paesi musulmani del quadrante mediorientale, dal 1° gennaio sarebbero parte di un’unica organizzazione. A settembre si tengono addirittura colloqui di pace tra sauditi e yemeniti (Huthi) dopo otto anni di una guerra che ha fatto 15.000 morti (più del 60% civili) e milioni di sfollati. Prima dell’attuale Gaza, la “più grande catastrofe umanitaria” dai tempi del Biafra, secondo l’ONU. Paesi difformi ed in lunga tensione reciproca, sciiti-sunniti-e cinquanta sfumature di islam (più “politico” o “religioso”), ognuno con cicatrici per guerre fatte o subite, riuniti dal comune interesse per uno sviluppo economico che non solo costa meno del farsi guerra ma che è l’unico modo per stabilizzare le relative società civili, dando speranza nel futuro.

A settembre, al G20 che si tiene in India, si manifesta un dissidio tra l’ospitante India di Modi e gli Stati Uniti di Biden che per altro lo stesso Modi ha visitato a giugno siglando una dozzina di contratti importanti in campo militare, tecnologico, astronautico. L’americano pretende una dichiarazione di condanna della Russia per la guerra in Ucraina (che Modi non firmerà), ma vuole anche che l’India aderisca al progetto di una nuova Via del Cotone che diventerebbe una spina nel fianco alla Via della Seta cinese (che Modi firmerà). Si tratta di un corridoio logistico su cui far viaggiare merci dall’India all’Europa, via Emirati, Arabia Saudita, Giordania, Israele come terminale portuale di Haifa. Il tutto costruito da imprese tedesche, francesi, italiane. La cosa dispiace a molti. All’Iran che verrebbe emarginato e che perderebbe analogo progetto con l’India che avrebbe collegato questa alla Russia, via Caspio. Alla Russia stessa e per varie immaginabili ragioni. Alla Turchia ed al Qatar emarginati dalla partita. All’Egitto che vedrebbe calare il suo traffico a Suez e relativa centralità geopolitica. Al mondo musulmano più in generale poiché formerebbe una alleanza forte di interessi tra alcuni suoi paesi ed Israele e l’Europa in via esclusiva. Alla Cina, che legge il tutto come chiara interferenza alla sua Via della Seta, ma anche come divisione dell’appena allargato campo BRICS e tentativo di pacificare il Medio Oriente. Ai palestinesi che non è chiaro se beneficiati da qualche briciola della partita come Autorità dei territori e non come Gaza. Inoltre, pare che i sauditi per firmare l’accordo pretendessero il benestare americano ed israeliano allo sviluppo nel loro nucleare civile che, come è noto, differisce non di molto da un possibile uso bellico. La stessa questione che per anni ha avvelenato i rapporti con l’Iran. Un autentico stravolgimento degli equilibri d’area.

Il 7 ottobre scoppia la guerra tra Israele e palestinesi di Gaza/Hamas.

Nel giro di appena otto mesi, c’è stata una inedita e speranzosa ricucitura del martoriato quadrante a cui è seguita una decisa scucitura per mettere alcuni contro altri come noi occidentali lì facciamo da sempre. Blinken sta girando lì come una pallina di flipper per provare a gestire l’incendio catastrofico appiccato dal suo presidente a fini geopolitici ed elettorali interni.  Dopo solo dieci giorni ed ancor prima dell’inizio della penetrazione israeliana a Gaza, si contano già 1400+2750 morti (+1000 dispersi, forse sotto le macerie?), 3800+12.000 feriti (israeliani + palestinesi West Bank/Gaza), centinaia di migliaia di sfollati, distruzione materiale e ben due portaerei mandate dagli americani in zona, tanto per dare una mano a chi e per cosa chissà.

Accanto a tutto questo, un Occidente che pone divieti di manifestare solidarietà col popolo palestinese, ostracizza intellettuali critici, rispolvera i suoi sensi di colpa per la Shoa e bolla come antisemita ogni posizione critica, aspettando il terrorismo islamico che ha così una nuova causa per manifestarsi. Per non parlare del rischio allargamento del conflitto, i prezzi delle fossili, l’ennesima perturbazione di una economia già provata dal Covid, dalla guerra in Ucraina e i nuovi diktat statunitensi sul con chi si può e con chi no, commerciare.

Per mettere a quadro quello che sta succedendo nulla meglio di un esperimento mentale sul tema più difficile ovvero come risolvere la questione israelo-palestinese. Di partenza, ci sono due popoli che contano più o meno circa 9 milioni di persone cadauno (palestinesi di Gaza, Cisgiordania, Israele e parte dei profughi stipati da anni nei campi), reciprocamente estranei per religione ed etnia, ma meno per cultura materiale visto che hanno un lungo passato di normale convivenza. Quindi 18 milioni di persone circa da mettere in una terra (Israele, Cisgiordania, Striscia di Gaza) che sviluppa poco più della superficie della Sicilia (che ne conta poco più di un quarto). È chiaro che nessun altro oltre a loro stessi, può risolvere la difficile equazione. Dovendo trovare lo schema di convivenza, debbono esser spinti a trovarlo da tutte le parti in causa che si collocano loro intorno, sicuramente non sono queste parti esterne che possono trovarlo o imporlo dall’esterno, né si può immaginare loro lo facciano di loro spontanea volontà.   

Andiamo quindi all’elenco delle parti in causa. Si parte dall’Egitto, poi la Giordania, il Libano, la Turchia, la Siria, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar e l’Iran. Tutti questi paesi sono coinvolti per aver confini in comune con la rissosa area (Egitto, Giordania, Libano), perché “vicini” alla storica causa palestinese (intero mondo arabo), perché amici dei Fratelli Musulmani (Qatar e Turchia) a cui appartiene Hamas, perché fortemente ostili ai FM (Egitto, petromonarchie), perché già pieni di profughi (Giordania, Libano), perché non ne vogliono avendo già parecchi altri problemi (Egitto), perché ospitano Hezbollah (Siria), perché supportano Hezbollah e Hamas (Iran). All’elenco si deve aggiungere: la Russia, l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America per ovvie ragioni. In un immaginario tavolo per la pace, pur non direttamente coinvolti ma ormai pesi importanti della comunità internazionale, non sarebbe male convocare anche l’Unione Africana, il Brasile e soprattutto India e Cina, entrambe con forti interessi al commercio e la pacificazione dei propri fornitori di energia arabi.

Quindi, se tutte queste parti in causa si riunissero ponendo assieme tutte le facilitazioni ed appoggi diplomatico-geopolitici, nonché piani di investimento strategici per far ulteriormente sviluppare l’area purché pacificata sul serio e condizionassero questo pacchetto di rosee prospettive garantite come condizione affinché i due contendenti trovino la difficile quadra al loro problema di convivenza, si potrebbe sperare nella pace. Se non lo si fa è guerra, semplicemente perché una situazione già molto difficile di suo, è usata da questo o quello per competere sul piano politico, ideologico, geopolitico e geoeconomico. Così, ogni fazione interna le due parti in causa che avrebbe il suo sponsor esterno a cui affidarsi per continuare a confliggere, per vincere o solo per non far del tutto vincere l’altro.

La tesi è corroborata dai due esempi esposti, fatti svoltisi in appena sette mesi. Un processo di pacificazione tra i due poli più ostili dell’area mediorientale (sauditi ed iraniani, il centro del sunnismo anche quello versione armata e quello dello sciismo anche in versione armata) condotto dai cinesi facendo balenare prospettive di sviluppo, investimenti e crescita economica e commerciale a cui è seguito un benefico processo a cascata in tutta l’area. Da parte americana, un tentato processo di interferenza di questo nascente quadro mettendo assieme solo alcuni, quindi a dispetto di altri a cui ha fatto seguito l’inizio delle nuove ostilità. Oltretutto, importando nel quadrante dinamiche di competizione che riguardano esclusivamente gli Stati Uniti e la Cina. O si pacifica l’intera area o la questione israelo-palestinese rimarrà il frattale del conflitto più ampio.

Antisemitismo, shoah, jihad, democrazie o meno, scontro di civiltà, supremazia dei valori, atrocità commesse scelte a caso per l’amplificazione media, obliterazione del retroterra storico e geografico, diritto internazionale, quanta “vendetta” concedere ad Israele, sono solo sintomi nel discorso pubblico di quanto non si voglia affrontare sul serio la questione e la si voglia vestire ideologicamente per giustificare il conflitto. Perché è utile lì e non solo lì, ci sia conflitto.

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IL NEO-NAZIONALISMO MORALE OCCIDENTALE.

L’argomento è complicato e si debbono usare termini carichi di stratificazioni storiche e ideologiche, termini spesso imprecisi che coltivano fraintendimenti, lo spazio è breve e le mie capacità limitate, tuttavia sento l’esigenza forte di trattarlo ugualmente. Partiamo dalla presentazione della tesi: in Occidente, si va formando un sentimento identitario di appartenenza meta-nazionale, basato sulla superiorità morale. Trattiamo qui Occidente come una macro-nazione coincidente nei bordi con la sua definizione di civiltà. Civiltà, tuttavia, è una definizione storico-analitica, nessuno ha mai provato sentimenti per l’appartenenza ad una civiltà, ad una “nazione” sì.

Il concetto di nazione (o il precedente “popolo”) ha dato storicamente vita a due sentimenti, uno debole come auto-identificazione di appartenenza, l’altro forte come ideologia che dal difensivo (noi siamo diversi da loro) passa facilmente all’offensivo (noi siamo superiori a loro ed abbiamo diritti su di loro in base a tale superiorità). Da coloro che partono dal “sangue comune” fino a chi pensa che il concetto di nazione sia una pura tradizione inventata, c’è un ampio dispiegarsi di posizioni. Mondato il concetto di ogni sentimento e ideologia, di per sé, si possono rinvenire gruppi umani che hanno una certa coerenza interna più di quanto il loro stare assieme abbia con l’esterno. Se li analizzate stando al loro interno e rivolgendovi a questo, sembreranno anche troppo vari e disomogenei per ritenere il concetto sostenibile. Se però li analizzate dall’esterno in contesti più ampi dove ci sono altri gruppi di diversa storia e tradizione, effettivamente l’appartenenza ad una certa nazionalità è congruente, distinguente, “emerge” dalla comparazione. Dire se per cultura o natura è ereditare una falsa dicotomia, insostenibile in biologia e storia.

Ci sono “nazioni” senza stati e stati con più nazioni dentro. La “nazione occidentale” è un inedito in quanto si presuppone una comune appartenenza a genti di più stati che hanno già una loro identità nazionale. Ma le identità multiple (K. Crenshaw) non sono da tempo un problema, ci sono testaccini, che poi sono romani, che poi sono italiani, che poi sono europei, c’è spazio anche per occidentali e sempre che si voglia rimanere dentro la sola definizione geostorica. Alcuni, ad esempio E. Morin[i], sono andati con lo sguardo avanti promuovendo un sentimento di comune appartenenza all’umanità terrestre, in chiave ecologica anche Latour[ii], il che va benissimo. Tuttavia, condizioni per l’evolversi di tale sentimento oggi non esistono ed anzi ne esistono di contrarie. Poiché ogni cosa ha gradini da salire per compiersi, già evolvere un sentimento razionale che cerchi il difficile incastro per una pacifica convivenza planetaria coi differenti sarebbe utile.

Se torniamo alla prima specifica, la nazione aggruppa genti che hanno in comune parecchie cose se comparate con altre genti di diversa storia e tradizione. Poiché non ci siamo mai trovati in un mondo di otto miliardi di individui in duecento stati e varie civiltà, fortemente intrecciati da pratiche e problemi comuni, in competizione più che in cooperazione, ecco che si tenta di formare un sentimento di “nazione” in quella che prima era una più fredda “civiltà”. È l’attrito con le altre civiltà a far scaturire il sentimento di appartenenza che porta poi alla nuova macro-nazione. In sé, ma molto più in come viene raccontata al fine di costruirla.

Alcuni studiosi (Hobsbawm[iii], Anderson[iv] etc[v].) hanno sostenuto l’inesistenza reale di qualcosa come una nazione che sarebbe una tradizione inventata da élite che hanno avuto interesse a riquadrare un popolo sottostante per manovrarlo a propri scopi. C’è del vero storico in questa tesi, ma essa soffre anche dello schematismo originario per cui nasce per togliere legittimità ad ogni nazionalismo (per gli studiosi marxisti ci sono solo “classi”). Sarebbe forse più congruo dire che c’è qualcosa che unisce coloro che appartengono ad un dato popolo e tuttavia da solo, questo “qualcosa” non avrebbe mai generato sentimenti forti o addirittura ideologie quindi, in effetti, c’è chi manipola questo “qualcosa” che c’è, ma è debole o solo in potenza. Per avere un sentimento di nazione ci deve essere un sottostante potenziale, non s’inventa di sana pianta e tuttavia questo sottostante non basta a giustificare la sua deriva ideologica.

Il sentimento “noi occidentali” è oggi una precisa ideologia promossa dalle élite occidentali ovvero quel gruppo con signorie locali che fanno capo ad un principe, statunitense. Il principe statunitense ha lanciato l’operazione “noi occidentali” in Ucraina poiché una delle ragioni del come si sta gestendo quel conflitto in ottica multipolare è stata la piena cattura egemonica dell’Europa, l’annessione dell’altrimenti vociante, incoerente e disparata Europa sotto la protezione del principe di oltreatlantico. La polarizzazione degli occidentali europei è stata ottenuta con sorprendente velocità ed allineamento poiché gli europei vagavano in un limbo idealistico ed irresponsabile di negazione della realtà mentre gli statunitensi, sulla realtà, avevano progetti. Ma la dura struttura non basta, ci vuole un riflesso sovrastrutturale per sentirsi uniti. Ormai usiamo categorie di pensiero, mode del pensiero, slogan americani, software-mail-browser statunitensi, siamo culturalmente euro-americani su fino al come sono impostate molte discipline, la loro epistemologia, il metodo. Tutta questa è la nostra immagine di mondo occidentale dominante. C’è quindi una evidente egemonia che prima che nei concetti e nelle idee è proprio nelle forme del pensare. In Ucraina, a Taiwan, nel Sahel, in Israele e non mancheranno nuove aree di crisi economica-migratoria-ecoclimatica con effetti sociali, la perturbazione unifica e la torsione multipolare del mondo ne promette a ripetizione, il polo occidentale si costituisce perché l’unione fa la forza e sotto attacco c’è bisogno di unirsi.  

Gli statunitensi stanno tentando l’istituzione di un nazionalismo occidentale in un frame che resuscita lo “scontro di civiltà”, intuizione di Samuel Huntington anni ’90[vi]. Abbiamo citato Huntington in un precedente articolo[vii] sulla progressiva corrosione dello standard democratico uscito dal dopoguerra. L’indebolimento della democrazia è propedeutico al principato ed all’unificazione della nuova nazione sotto attacco. Quindi, sul piano concreto ormai l’Europa è messa al corrente delle strategie sul mondo che fanno gli statunitensi, sul piano ideologico consegue il sentirsi parte della nazione occidentale di cui condividiamo una cultura relativamente omogenea, il cui principe sa cosa e come si deve fare in un clima di perenne emergenza. Questo piano politico-ideologico ha bisogno di un sentimento.

La natura di questo nuovo sentimento del popolo occidentale, che, come ogni popolo che finisce con l’esuberare il proprio nazionalismo da identità distinguente a ragione di superiorità ha bisogno di ragioni “alte”, è la superiorità morale.

Noi siamo superiori moralmente: diritti individuali (i sociali non esistono perché non esiste una cosa chiamata “società”), parità dei sessi, tolleriamo i diversamente sessuali, siamo democratici, scientifici quindi razionalmente oggettivi, siamo liberi e liberali, siamo inclusivi, non ammazziamo i bambini ed i civili altrui -a almeno così ce la raccontiamo-, quando non si può fare a meno di difendere qualcuno bullizzato da non civiltà o civiltà degenerate magari usciamo le armi ma è il nostro destino di polizia morale del mondo che ce lo impone, vogliamo “solo” commerciare, competere con regole per la ricchezza e la posizione sociale. Si badi, si può anche credere a tutto ciò ma non c’è nulla in questa credenza che implichi il fatto che “migliore” deve portare allo scontro contro il “peggiore”. Addirittura, si potrebbe argomentare al contrario, proprio perché sei migliore dovresti saper gestire le differenze evitando il conflitto.

Certo se ti sembra normale andare a fare un rave party a poca distanza da un concentrato di due milioni e passa di persone, per lo più altrettanto giovani, che tu hai segregato da recinzioni e oggetto di privazioni e restrizioni che le pongono in condizioni subumane, lo ritieni un “diritto” e non un problema, allora stai ancora a Maria Antonietta per la quale la fame del popolo si doveva curare dandogli i croissant (storiella falsa ma cucita apposta per far capire le contraddizioni a gente che dopo la quinta parola di un enunciato crolla nella nebbia mentale) ovvero hai una totale ignoranza del contesto. Non mi riferisco alla concreta cosa in sé, mi riferisco al piano simbolico, è simbolo dei tempi avvicinare a meno di cinque chilometri giovani che vivono due mondi ed immagini di mondo così diverse e contrastanti, ma correlate sul piano concreto e causativo e non ritenerlo un sintomo problematico in termini di cultura di convivenza[viii].

Non curare le più vistose contraddizioni porta a reazione. Ne consegue ogni bruttura poiché l’azione reattiva non è notoriamente razionale e nell’irrazionale torniamo animali quali in buona parte siamo ancora pur meravigliandoci del fatto, invece di meravigliarci del fatto che ci meravigliamo di una ovvietà. Ribadisco, non c’è problema se ti piacciono i rave party e ti senti superiore moralmente, l’etnocentrismo è lo schema culturale più diffuso al mondo secondo quanto disse -a ragione- Levy Strauss. Solo, dovresti preoccuparti anche solo per buonsenso funzionale, del fatto che hai coltivato una bomba emotiva di rabbia e ci vai ignaro davanti a fare una festa sesso-droga-rock ’n’ roll. Così ti vengono a sparare ed allora tu hai diritto di andare a massacrarli perché loro ti hanno massacrato perché tu li avevi massacrati in passato e così lungo la catena dei misfatti di settanta anni. Sarai anche “migliore” ma non si capisce in cosa visto che sei ancora alle faide tribali.

Quando il ministro israeliano definisce i palestinesi di Gaza “animali umani” non pensa che se tratti qualcuno da animale umano poi quello si comporta da animale umano? Ah, ma così giustifichi Hamas! Ma il problema della “giustificazione” è tutto interno ad una mentalità morale, io non ce l’ho quella mentalità, ho quella realista azione-reazione e mi pare ovvio che se tratti qualcuno da animale poi lui si comporta di conseguenza, non c’è giusto o sbagliato, è ovvio e conseguente, ti piaccia o meno, è un fatto non un giudizio.

I costruttori della nuova supremazia morale stanno in questi giorni piantando nel discorso pubblico il discrimine dell’antisemitismo. Ecco trasformata una complessa questione storico-culturale che ha settanta e passa anni, in una crociata morale. La crociata morale pesca nelle emozioni come il nazionalismo aggressivo, è prepolitica, è dicotomica ovvero taglia ogni mezzatinta, esclude tu possa rifiutare la dicotomia imposta puoi solo scegliere da che parti trovarti anche se il contenuto morale auto-evidente fa sì che tu in realtà non puoi scegliere nulla, non vorrai mica parteggiare per il “nemico della tua civiltà”? Saresti un traditore che è un nemico interno che va trattato come quello esterno, magari un po’ meglio visto che è dei nostri come nazione e quindi merita un occhio di riguardo per non farci scivolare nella barbarie che stiamo combattendo.

Ma è un meglio relativo, come con il meccanismo “aggredito-aggressore” basta l’ostracismo antica pratica di autoprotezione dei gruppi umani. Questi meccanismi sono pensati da qualcuno, compaiono subito e diventano presto condivisi, quello attuale è l’assimilazione di Hamas all’ISIS, quindi jihad e scontro di civiltà a seguire. I nostri media sono presidiati dalla nuova “polizia morale” che ha la stessa funzione che ha in Iran, presidiare la norma. Anzi prima c’è la squadra che taglia la rappresentazione delle realtà e la ripetizione di informazioni in un certo modo, prepara il terreno, poi arriva la polizia morale e punisce in pubblico l’ospite chiamato a sostenere l’insostenibile per testimoniare del nostro liberalismo tollerante. La punizione in pubblico è socio-pedagogicamente proficua per presidiare la norma e mostrare che fine si fa ad esser divergenti.

Molti che contro-argomentano che la nostra civiltà è piena di falsa coscienza, ipocrita, sottilmente altrettanto violenta a mio avviso perdono tempo, accettano la partizione del discorso con gente che ha cento volte la potenza di fuoco dell’immagine di mondo pubblica, una immagine emotiva visto che debbono pompare un sentimento morale. A questo discorso tutto morale va opposto il piano per il quale ci sono solo due modi di ordinare l’intero pianeta umano, contrattando o imponendo, il piano del reale. Il senso di superiorità morale aggressiva non contratta e visto che in teoria dovremmo essere qualcosa di simile ad una democrazia, non si capisce neanche chi l’ha deciso viste anche le conseguenze che comporta. Togliere il fregio di “democrazia” alla nostra civiltà degenerante aiuterebbe a minarne il presupposto di superiorità.

La nota è motivata dall’idea che dobbiamo fare attenzione a certe strutture culturali sociali, preoccuparci sul serio. Non è che perché siamo ormai in gran parte atei o agnostici o deboli di Spirito (in tanti sensi) che la “religione” è morta. La struttura socioculturale del fenomeno religioso (Durkheim per intenderci) spunta fuori anche se non si sta parlando di dio o dei santi o delle preghiere o delle chiese. Non è nata a quel fine, le preesiste nella nostra storia del tempo profondo, molto prima della civiltà.

Così la pulizia etnica o religiosa altro non è che l’antico principio della necessaria omogeneità richiesta per manovrare una nazione senza irriducibili resistenze interne, capita venga usato anche da chi, in altri luoghi e tempi ne è stato vittima se da minoranza si trova poi ad esser nazione.

La struttura socioculturale del nazionalismo aggressivo di antica origine clanico-tribale, spunta fuori anche se con forme quali certo non aveva ai primi Novecento, patria, sangue, destino.

Queste strutture possono esser vestite in vario modo. Ora hanno riscoperto il “profeta” Kagan (2018)[ix]: “L’ordine mondiale liberale (occidentale) è fragile e impermanente. Come un giardino, è sempre sotto assedio da parte delle forze naturali della storia, la giungla le cui viti ed erbacce minacciano costantemente di sopraffarlo”. Come si possa dar per ovvio che l’idea di ordine mondiale di una parte che pesa il 17% del mondo, debba inderogabilmente valere per il 100%, non si sa. Ma al superiore morale la realtà è indifferente, c’è solo la cieca volontà di avere il diritto di estendere il suo locale ad universale perché non riesce a cambiare adattandosi ai mutati contesti. Non riesce a venire a patti con gli altri perché troppo profonde sarebbero le modificazioni cui dovrebbe assoggettarsi. Rifiuta la realtà ed abbraccia la definizione minima di nevrosi: scarsa capacità di adattamento al proprio ambiente, incapacità di cambiare i propri schemi di vita e incapacità di sviluppare una personalità più ricca, più complessa e più soddisfacente. La superiorità morale serve anche a giustificare la nevrosi.

Sappiamo chi pompa questi sentimenti e perché lo fa, sappiamo come va a finire. Pensarci prima è meglio che piangerne dopo. Non è morale, è razionale.

Io sono occidentale e mi vergogno di dover condividere la categoria con certa gente. Dovremmo alzare la voce e contrastare questo tentativo di definire dall’alto la nostra stessa identità, imporre il dibattito su quale tipo di civiltà vogliamo essere nell’era complessa[x]. Porre il discrimine pragmatico tra imporre o contrattare. Nell’era complessa, se la nostra civiltà andrà in guerra, morirà, è una guerra che semplicemente non può vincere.

= = = =


[i] E. Morin, Terra-Patria, Cortina editore, 1994

[ii] B. Latour, La sfida di Gaia, Meltemi, 2020

[iii] E. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1780, Einaudi, 1991-2002

[iv] B. Anderson, Comunità immaginate, Laterza, 1983-2016

[v] Ad esempio: P. Grilli di Cortona, Stati, nazioni e nazionalismi in Europa, il Mulino, 2003

[vi] S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà, Garzanti, 1997

[vii] https://pierluigifagan.wordpress.com/2023/09/29/giu-la-testa/

[viii] I. Buruma, A. Margalit, Occidentalismo, Einaudi, 2004

[ix] R. Kagan, The Jungle Grows Back, Knopf Doubleday Publishing Group, 2019

[x] AA.VV. Genealogie dell’Occidente, Bollati Boringhieri, 2015

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IL FUTURO DELLA NOSTRA CIVILTA’.

O. Spengler venne preso con leggerezza quando ai primi Novecento vedeva, -come vedono certi intellettuali ovvero con un misto di ragione, sentimento ed intuito- il tramonto della nostra civiltà.

Vedere processi storici di tale portata significa collassare il tempo, ridurlo in modo da fare entrare l’inizio e la fine in una mentalità limitata, qual è la nostra. Sono pochi coloro che si dedicano a quella che un attore che lavora con le parole ha felicemente chiamato “voto di vastità”. Vastità spaziale tanto da inquadrare una intera civiltà, vastità temporale tanto da inquadrare cicli di secoli. Non cito Spengler perché ne condivida l’analisi nello specifico, ma perché intuire il senso del titolo-concetto “Tramonto dell’Occidente” nel 1918 è comunque rimarchevole. Aveva ragione?

Leggendo un autore asiatico, tempo fa, un pensatore che ha stima dell’Occidente sebbene rimanga profondamente asiatico (non cinese, né indiano), mi ha colpito il suo sincero sconcerto per quello che abbiamo combinato nel Novecento. Il tizio, studioso della nostra filosofia politica da Machiavelli a Kant, Hegel e successivi, non si capacitava del fatto che cotanta civiltà fosse finita nel buco nero del doppio conflitto mondiale. Come se un altissimo livello di civiltà teorica, convivesse con un bassissimo livello di civiltà pratica, una sorta di schizofrenia semi-funzionale. Già da prima, ma di più da allora, guardo alla nostra storia dell’ultimo secolo come se non vi appartenessi.

Noi nasciamo e viviamo nel racconto di quelle due guerre, se non è la scuola è la cinematografia o la letteratura a “normalizzare” quel doppio conflitto. Per carità, entrandovi dentro sappiamo che tragedia fu, ma così perdiamo il senso dell’imbarazzo che si ha standone fuori, guardando la questione come ci venisse raccontata da quelli di un altro pianeta che raccontano eventi di un’altra galassia. Come ha fatto quella civiltà evoluta e complessa a finire inghiottita dentro un tale buco nero da lei stessa generato?

Ieri Putin che ha la strana posizione di chi vive ai margini di un sistema, con un piede dentro ed uno fuori, come le particelle virtuali al limite dell’orizzonte degli eventi di Hawking, che cioè ci conosce perché in fondo fa parte di quella stessa civiltà e tuttavia non ne è il cuore e con un piede sta dentro altre sfere di civiltà, ci ha di nuovo detto che stiamo sbagliando. Invito chi non riesce a non farsi prendere dall’orticaria sentendo “Putin” a seguire comunque il discorso, a fare voto di vastità e guardare le cose dall’alto, senza emozioni particolari.

Nel 1997 la Russia viene invitata in pianta stabile nel G7 che diventa G8. Il formato durerà fino al 2014, per diciassette anni il cuore dell’aristocrazia politica occidentale comprendeva la Russia. Per quindici di questi diciassette anni, Putin è stato presidente o primo ministro della Federazione, quindi partner paritario. Lui variabile fissa, i vari leader occidentali variabili variate. Come e perché abbiamo avuto rapporti di così alto livello con lui se poi due anni fa abbiamo cominciato a dire che è pazzo, criminale, invasato dall’idea di reincarnare Pietro il Grande? È credibile, ha senso che vari leader occidentali di vario orientamento politico, di varie grandi nazioni della nostra civiltà abbiano fatto colloqui e riunioni strategiche con un tizio che dopo venti anni scoprono esser in realtà pazzo e criminale? Quando è diventato pazzo e criminale?

Non ancora pazzo e criminale, ma non più leader paritario è diventato quando fallì il G8. E quando fallisce il G8? L’anno di piazza Maidan, la rivolta ucraina che porta ad un “regime change”. L’altro giorno discutevo qui dove mi trovo con un australiano invasato che trasecolava ad ascoltare il mio punto di vista sulla guerra ucraina, stante che lui, come molti anche in Italia, nulla sanno di cosa è successo nel 2014 e dal 2014 all’invasione del febbraio di due anni fa.

Wikipedia, che pur sappiamo esser supervisionata dai tutori dell’immagine di mondo occidentale, riporta comunque che sondaggio d’opinione ritenuto affidabile secondo i nostri standard fatto ai tempi, confermato da pari risultati ottenuti da altri sondaggi, dava gli ucraini perfettamente spaccati tra gli “a favore” e “contro” quelle manifestazioni e quelle istanze. Con marcate differenze ragionali com’è noto a chi sa due-cose-due del paese che si estende in orizzontale tra Russia ed Europa, una naturale dissolvenza incrociata tra due culture, tradizioni, storie. Quello che ha ripetuto più volte Kissinger e che chiunque si occupi professionalmente di questi argomenti sa perfettamente.

Gli ucraini volevano fortemente e non volevano altrettanto fortemente l’esito di quel drammatico regime change che noi raccontiamo come sollevazione democratica. Se erano spaccati a metà come si fa a dire che quella era una volontà democratica? E se non era democratica, cos’era? E la nostra civiltà è intervenuta negli eventi per difendere quale versione della volontà democratica su una questione così incerta?

Tutto cancellato, conoscenze cancellate, memorie cancellate, storie cancellate. Un giorno ti svegli ed inizia il mondo e sorpresa! C’è un aggredito ed un aggressore, alle armi! alle armi! difendiamo la civiltà sotto attacco! Nel 2023, nella nostra civiltà, accade ancora e di nuovo che si neghi la realtà e la complessità delle questioni che, come nel 1914, facciamo collassare nel diritto delle armi. Ancora oggi, affrontiamo i problemi storici sparando e dando la colpa agli altri di aver pretestuosamente iniziato mettendoci con le spalle al muro, senza lasciarci scelta.

L’anno dopo Euromaidan, dopo che per anni una coalizione con Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Canada, Germania, Norvegia, Paesi Bassi più mezzo mondo arabo più o meno petromonarchico e petrolifero e la Turchia diceva di star combattendo in Siria uno strano esercito islamista irregolare con la bandiera nera che aveva fatto anche qualche morto qui in Europa con attentati clamorosi, i russi mandano qualche bombardiere e magicamente, in poco tempo, tutte le postazioni e l’intera logistica del minaccioso ISIS, vengono distrutte all’istante. Tutta quella coalizione non sapeva come farlo? Dovevano aspettare i russi? E perché ci siamo così arrabbiati per quello che hanno fatto?

C’è un doppio livello problematico nella nostra civiltà, narrazioni del tutto scombinate e surreali che tuttavia vengono credute verità lampanti e verità concrete che sono scabrose e scandalose ancorché coperte da suddette narrazioni.

Tutto ciò, piaccia o meno, non funziona più. Non è così che si può stare in un mondo di 8 miliardi di persone, con 200 stati, con tutti che usano l’economia moderna per crescere e svilupparsi, creando una inestricabile matassa di interrelazioni ed effetti problematici. Non è sparando e raccontando storie surreali che si dà un futuro alla nostra civiltà. Anche perché è bene ricordare che gli altri hanno più o meno lo stesso nostro numero di testate atomiche.

Non è una questione morale o etica, non funziona, non può ottenere i risultati attesi. E se non funziona, enormemente problematica sarà la cascata di controeffetti che ci pioverà sulla testa. Una civiltà che non funziona crolla. Vogliamo aspettare ci crolli il tetto in testa mentre si aprono sotto i piedi voragini ed abissi di cui non vediamo il fondo o peggio, che ci guardano mentre noi vi guardiamo dentro?

Questa nota pone il problema: siamo in grado di ripensare la nostra civiltà? Perché se non siamo in grado di immaginarla, non saremo in grado di cambiarla e se non la cambiamo temo che ci crollerà addosso.

Visto che nel mio insignificante piccolo ho fatto anche io quel “voto di vastità” che fecero gli Spengler, i Toynbee, i McNeill o i Mann, una primitiva idea mi si è formata nel tempo.

Penso che per primo la nostra civiltà dovrebbe fare una rivolta di potere interno contro il dominio e l’egemonia anglosassone, l’attuale aristocrazia della nostra civiltà, gli anglosassoni sono un problema serio, credo che se non gli aiutiamo non saranno in grado di cambiare e ci trascineranno nel loro cupio dissolvi. La civiltà occidentale è europea, tocca riprenderne in mano i destini.

Per secondo, dobbiamo iniziare una stagione di stretto realismo, guardare la realtà, guardarci in faccia e dirci le verità sgradevoli. Ognuno è convinto delle sue ragioni ma deve farsi dire da gli altri anche gli inevitabili torti.

Per terzo, noi riteniamo di esser democratici e gli altri no. Ma gli altri ci chiedono democrazia nella gestione del mondo e noi invece continuiamo a comportarci come ne fossimo l’aristocrazia. Tanto più gli altri ci fanno sentire il peso della loro legittima richiesta, tanto più noi dissolveremo ogni minima forma di democrazia reale al nostro interno. Allora forse il problema è che la nostra aristocrazia, quella che governa la nostra civiltà e vari livelli, va sostituita.

Non solo va sostituita perché fallimentare, va proprio sostituito il sistema per il quale il nostro mondo è governato da una aristocrazia. Rosa Luxemburg nel Junius pamphlet, Chapter 1 – 1916 (più o meno l’epoca di Spengler), usò l’espressione “socialismo o barbarie” che per altro non era sua ma di Engels. Socialismo si oppone a capitalismo, ma sebbene le forme economiche siano certo anche politiche, concettualmente quelle politiche dovrebbero venire prima, dovrebbero esser le forme politiche a decidere quelle economiche. È il “capitalismo” ad averle fuse assieme subordinando quelle politiche a quella economiche come notò Polanyi nel concetto di “disembedded”, l’Economico scorporato che ordina il Politico.

Quindi, se è il Politico il primo livello delle volontà del sistema sociale, la nostra civiltà mostrò già nel 465 a.C. (Erodoto-Storie) le scelte fondamentali: governo dell’Uno, dei Pochi o dei Molti. Quello dei Molti si chiama “isonomia” secondo quanto riferisce Erodoto, dove il popolo di autogoverna, si dà la legge da sé.

Credo che per varie ragioni, tutte strettamente funzionali e non ideali, il futuro della nostra civiltà sia riprendere il bivio da cui nacque e riconsiderare la via che abbandonò per incapacità storica, la via più difficile, quella poi poco tentata e sempre fallita: l’isonomia. In breve, l’unica alternativa è: Democrazia o barbarie.

Abbiamo percorso per due millenni e passa la via dell’Uno che fosse monarca, imperatore, duce, fuhrer o tiranno; altrettanto spesso la via dei Pochi che fosse aristocrazia, oligarchia, casta o élite. Dobbiamo tentare la terza opzione, evitando la demagogia ed evolvendo la democrazia. Non vedo altra possibilità. Non importa quanto difficile o improbabile sia, prima ci si chiarisce le idee, poi si prova a conseguirne il “che fare?”.

Se fosse stato facile perseguirla prima l’avremmo fatto, ma è proprio perché non l’abbiamo fatto che siamo qui a rischiare il collasso di civiltà.

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NUOVA DEMOCRAZIA.

Approvata la scorsa settimana in Grecia, antica patria del concetto di democrazia, una nuova legge sul lavoro.

Settimana di lavoro estesa al sabato, si potranno sommare due lavori fino a 13 ore al giorno, si potrà andare in pensione fino a 74 anni, licenziamenti senza preavviso entro il primo anno, periodo di prova fino a sei mesi per gli impiegati, drastiche limitazioni al diritto di sciopero. Chi ostacolerà il lavoro dei colleghi, per esempio con il picchettaggio, sarà punito con una pena detentiva di 6 mesi e una multa di almeno 5mila euro.

Va be’, si dirà, se la sono voluta visto che quelli che hanno approvato questa mostruosità qualcuno li avrà pure eletti, no? Questi sono gli effetti della svalutazione del Politico e della democrazia di cui parlavamo nel post precedente, valido anche per capire come siamo finiti qua.

In nome della “governabilità” si sono approvati una legge ultra-maggioritaria. Avendo il controllo dell’opinione pubblica hanno accompagnato le recenti elezioni di giugno a modo loro. Così, sono andati a votare solo il 50% degli aventi diritto. Nea Dimokratia -ovvero il partito dell’oligarchia- ha preso il 40%, ha potuto fare un monocolore ed approvare la legge mostruosa. Quindi un partito votato dal 20% degli aventi diritto oggi comanda come gli pare e piace, formalmente eletto. “Democrazia” è nel nome del partito che ha compiuto il misfatto e del sistema elettoral-politico che glielo ha permesso, è questa davvero una “democrazia”?

Quel 20% di greci, sono più o meno quanto i sociologi stimano essere la parte alta della piramide sociale nei nostri tipi di società occidentali. Gli americani a cui piacciono le semplificazioni e gli slogan pubblicitari, hanno sintetizzato il concetto dell’1% a dire quanta sproporzione c’è tra i super ricchi ed i normali.

I populisti, gente che ha materia grigia sì e no per giocare al fantacalcio, ripetono il mantra, secondo loro questa è l’ingiustizia, popolo vs élite ristrettissima. Ma le cose non funzionano così. Intorno quell’1% c’è un primo 5% e poi un ulteriore 10-15% di persone che supportano il sistema perché ne traggono, proporzionatamente, grandi benefici.

Sono poi quelli che fanno l’opinione, quelli che manifestano il consenso delle persone per bene ed informate. Loro sì motivatissimi ad andare a votare, consapevoli della splendida opportunità di poter mandare al governo gente che poi fa quelle leggi che permettono loro più ricchezza e più potere. Non sono miliardari, magari hanno solo un ristorante vista mare o disegnano ville per quelli più ricchi. Questo quinto delle nostre società, a volte un quarto, è mimetico, silenzioso, inoffensivo. Magari al bar si unisce agli altri a criticare il governo ed il quanto male va il mondo.

Non vorrei scomodare l’antiquaria concettuale ovvero la lotta di classe; tuttavia, coloro che sbraitano contro le élite dell’1% dovrebbero capire che c’è un ampio gruppo sociale a supporto e sostegno di quella risibile percentuale, sono tra noi, magari amici, gioviali, simpatici sono uno su un quinto, a volte uno su un quarto. Mentre maledici quelli potenti che sono imprendibili ed inarrivabili, questi ce li hai accanto a te.

Questa è la dittatura della minoranza della democrazia liberale, una minoranza eletta da una minoranza elettrice.

Così è stato il sistema elettivo inglese sin dal 1688-89. Almeno fino al dopoguerra era così per legge. Poi hanno dovuto concedere il diritto formale di voto a tutti con pari valore (forse non è noto che in Gran Bretagna alcuni possidenti potevano votare in più circoscrizioni fino al ’48, in realtà fino al ’69 per le locali, ancora oggi nella City). Il voto plurimo per la piramide sociale è dentro il cuore della teoria politica liberale, è in John Stuart Mill.

Da quaranta anni hanno a tal punto svalutato politica e rappresentanza che ormai hanno riottenuto la condizione originaria liberale per cui si votano tra loro e poi ti governano a piacimento. Si fanno le leggi elettorali su misura, ridisegnano i collegi, ti bombardano di stupidaggini a cui abbocchi invariabilmente per dire la tua e sentirti “libero”. Ma al momento giusto, fanno leggi, adesso anche in nome e per conto tuo che non li hai votati, per silenzio-assenso, costituzionalmente, democraticamente.

E cosa decidono? Che devi lavorare più ore, più anni, a meno, a chiamata e senza fiatare.

Comprendo amici e colleghi impegnati nell’analisi e nel lavoro critico contro lo stato di cose. Capisco che qualcuno si possa appassionare a questo o quell’aspetto del sistema complesso dominante e senta la ragione e la spinta a concentrarsi su quello. Tuttavia se, come credo, i loro intenti intellettuali e politici sono onesti, dovrebbero riflettere su questo scandalo che si sta allargando a macchia d’olio.

Negli USA che sono una macchina del tempo in cui possiamo vedere il nostro futuro, dopo l’annessione egemonica dell’Europa susseguente la guerra in Ucraina ormai in forma a trazione integrale, con trasferimento di idee e soluzioni a breve tempo, stanno già un passo avanti.

Già nel 2023, sette progetti di legge per indebolire la tutela del lavoro minorile sono stati introdotti in sei stati del Midwest (Iowa, Minnesota, Missouri, Nebraska, Ohio e South Dakota) e in Arkansas, dove è stato adottato un disegno di legge che abroga le restrizioni sul lavoro per i ragazzi di 14 e 15 anni. anni è ora diventato legge. Un disegno di legge introdotto in Minnesota consentirebbe ai ragazzi di 16 e 17 anni di lavorare nei cantieri edili. Dieci stati hanno introdotto, preso in considerazione o approvato leggi che riducono le tutele per i giovani lavoratori solo negli ultimi due anni.

La sistematica distruzione della scuola pubblica ha decenni di pratica. Visto quindi che i figli dei meno inseriti e capienti non studiano e magari si drogano di fentanyl, “che vadano a lavorare” diventa invocazione comune. Così funziona l’accorta manipolazione della società, portarla a pensare e dire cose assurde, ma con piena convinzione, ragione, evidenza.

In attesa sorga il sol dell’avvenire, crolli il capitalismo sotto il peso delle sue contraddizioni, si dissolva per magia la temperie neoliberista, la Russia e la Cina vincano la battaglia per un mondo più giusto (sicuri ???), arrivi un leader-padre-monarca benevolo, le masse popolari insorgano prendendo il palazzo di mezza stagione (peccato non ci siano più le mezze stagioni…), non dovremmo pensare di far qualcosa di più concreto, come difendere i criteri minimi di democrazia?

Vale ancora l’antica credenza di lasciar fare la talpa della storia per cui tanto peggio-tanto meglio, alla fine ci sarà la ribellione delle masse e noi lì pronti a dar la linea (avercela ed avercene “una” poi). Sono secoli che quella talpa scava ma senza venirne a capo, magari qualcuno che ci vede meglio delle talpe che notoriamente non vedono poi così bene, potrebbe far qualcosa?

Oltre a brandire con impeto morale la matitina rossa e blu con cui segniamo gli errori del potere di turno, domandarci quali responsabilità abbiamo noi, non è il caso? Abbinare alla coazione critica anche un po’ di autocritica, visto come siamo messi, non è il caso? A monte il problema è sempre assai complesso, ma a valle si arriva al semplice punto: come facciamo a non far precipitare la società nell’annunciato buco nero del futuro senza uno straccio di minima democrazia? Se non vi mobilita almeno la difesa del minimo livello del Politico perché vi piace “volare alto”, come pensate di arrivare, più poi che prima, al vostro sogno di una società sovrana, socialista, comunista, decrescista, più tradizionalista o più progressista, onesta, comunitaria, equilibrata, ecologista, pacifica, più giusta, non patriarcale o oligarchica, di piena occupazione o una o l’altra o più d’una opzione al contempo, senza uno straccio di democrazia reale?

Forse non è il momento di fondare partitini dell’1% che partecipino al gioco truccato che chiamano democrazia, oltretutto legittimandolo ed al contempo contribuendo con fallimenti su fallimenti a cumulare frustrazione. Forse è “solo” il momento di creare un movimento di idee ed azioni in semplice difesa dei requisiti minimi di cosa è e cosa non è una “democrazia”. Riduzione dell’orario di lavoro, processi di formazione e distribuzione della conoscenza, accesso pluralistico all’informazione, occasioni di dibattito in cui trasferirsi idee e conoscenze. Il mondo è sempre più complesso, la mentalità collettiva lo è sempre meno, tocca colmare questa divergenza. Senza modi per creare masse critiche, se il gioco è truccato, inutile pensar di giocare partite. Prima il regolamento, poi il gioco, altrimenti con queste regole si sa già chi vince prima ancora di scendere in campo.

Forse i nostri teorici, dovrebbero concentrarsi un po’ di più a riflettere su cosa è una democrazia, dove poter agire, cosa poter pretendere, quali concetti trasformare in parole d’ordine, quali obiettivi minimi darsi e su questo aggregare i tanti punti di vista critici che vogliono vincere il Giro d’Italia prima ancora di avere una bicicletta. Ci saranno modi e tempi per disputarci le diverse visioni del mondo quando avremo le concrete possibilità di realizzarle, almeno in potenza. Per ora, di radicale, abbiamo solo l’impotenza.

Diceva Eraclito (fr. 44 Diels-Kranz): “bisogna che il popolo combatta per la legge come per le mura”. La democrazia nacque come legge di regolazione non solo del giuridico, ma del politico che doveva ordinarlo, questo fecero Clistene (508 a.C.) a cui seguì Efialte (462 a.C.) ben prima di Pericle. Forse è il momento di ristabilire la legge, il regolamento di minima democrazia. O c’è ancora qualche romantico attardato che vagheggia il cambiamento del mondo via “rivoluzioni” o pensa di far il partitino anti-neoliberista come se ci fosse veramente la possibilità di portarlo al governo e poi saper davvero governare una società complessa in un mondo sempre più complesso?

Attenzione a concentravi solo sulle cose lontane, vicino ci sono muri molto spessi che si stringono intorno a noi sempre di più.

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GIU LA TESTA.

Più l’Occidente perde potere demografico, economico, geopolitico in favore del resto del mondo, più questo “resto” reclama e reclamerà una gestione più democratica delle istituzioni del mondo comune.

Più il resto del mondo reclama e reclamerà una condivisione maggiore dei poteri che decidono le cose del mondo, più l’oligarchia del sistema occidentale dissolverà ogni residuo di democrazia interna al proprio sistema.

Più il mondo si avvia a nuovi ordini multipolari, meno democrazia ci sarà in Occidente. Questo perché la “ricchezza delle nazioni” che ordina le nostre società, dipende spesso direttamente, altre volte indirettamente, da quanta porzione di mondo controlliamo come “sistema occidentale”. Meno controllo, meno ricchezza distribuibile, più problemi sociali, più problemi di governabilità -quindi- meno democrazia.

L’adattamento a questo potente movimento storico richiederebbe qui da noi una revisione molto profonda dei nostri modi di essere, dagli individuali ai sociali, dalle istituzioni sociali e giuridiche alle forme politiche, ma soprattutto, le forme mentali, le immagini di mondo. Stiamo passando ad una nuova epoca storica, ma senza una democrazia ogni cambiamento strutturale sarà impossibile.

La democrazia non è un sistema ad interruttore che c’è o non c’è. Nelle società complesse dovrebbe essere un “tendere a…” con vari gradi di intensità, il continuo rischio di regressione, una lunga scala ascensionale di espansione ed intensione da sperimentare, correggere e riproporre con passi indietro e qualcuno avanti, lungo decenni e decenni.

L’iniziale forma democratica guadagnata nel dopoguerra ha avuto un certo impeto per i primi tre decenni, poi è stata sistematicamente ridotta e sabotata. La democrazia è un ordine culturale, emerge da un certo modo di essere della cultura (in senso esteso) dei cittadini di uno stato, modo che va coltivato e continuamente evoluto, solo dopo si formalizza in un ordine giuridico, non si compie perché ce l’hai scritto in Costituzione.

La sistematica ed intenzionale erosione democratica degli ultimi quattro decenni è avvenuta perché le élite del sistema occidentale, a partire da quelle americane, hanno cominciato a comprendere già da metà anni ‘70 che la triplicazione mondiale della popolazione umana che si è poi compiuta dal dopoguerra ad oggi avrebbe modificato il quadro radicalmente. Problemi demografici, migratori, sanitari, alimentari, ecologici, limiti alla crescita economica, conflitti ponevano severi rischi alla governabilità. A seguire, l’inevitabile trasferimento al resto del mondo dei modi economici moderni avrebbe ulteriormente chiuso le condizioni di possibilità del sistema di cui loro erano l’oligarchia eletta.

Inoltre, lo spazio per una crescita continuata della complessiva ricchezza occidentale andava a restringersi oltreché per ragioni esterne, per ragioni interne di fine ciclo. Il sistema di economia moderna, come ogni cosa, ha un suo ciclo, non è un ordine eterno. Ha a che fare con umani e natura, enti finiti, difficile trarre un infinito dai finiti. Segue una curva logistica e sempre che poi non si trasformi in una a campana, è una erezione eterna solo nella metafisica economica. Non c’entra solo la termodinamica, nella seconda metà del Novecento abbiamo un decimo delle innovazioni basilari della prima metà Novecento (meccaniche, chimiche, mediche, telecomunicazioni, trasporti etc.), c’è un limite all’inventabile, all’utile ed anche all’inutile.

Hanno così varato una doppia strategia adattativa, adattativa per loro. Non vedendo alternative visto che certo non si potevano rimettere in discussione i loro unilaterali interessi, le élite hanno stracciato il contratto sociale. Se non si considera il punto critico, non si comprende la svolta neoliberale. Da una parte hanno liberalizzato la circolazione dei capitali, i loro, di modo da scommettere sulle crescite di questi nuovi spazi (soprattutto in Oriente, materie prime, scommesse sulle altrui scommesse, nuove tecnologie) ed accumulare così depositi di valore in pochissime mani come forse mai -complessivamente- prima registrato nella storia umana. Oltretutto stoccati in decine e decine di paradisi fiscali quasi tutti, invariabilmente, anglosassoni.

Dall’altra, sapendo che l’intero movimento economico collegato alla loro “globalizzazione” avrebbe generato una pressione restrittiva verso il medio e basso sociale interno, hanno costruito teorie versione migliore dei mondi possibili per dar sostegno a quello che stava succedendo nel mentre hanno cominciato sistematicamente a ridurre quantità e qualità democratica dell’ordine interno. Questa seconda azione era in previsione del quando la narrazione si sarebbe scontrata con gli effetti della diversa realtà. Coi muscoli bolliti, quando la rana realizza che nella pentola il calore è insopportabile, non può più saltar fuori. Noi tutti, oggi, siamo quella rana, ci manca la democrazia per provar a saltar fuori, ci hanno bollito i muscoli democratici a fuoco lento. Adesso stanno passando direttamente al cervello.

Negli ultimi quattro decenni è crollato il Politico occidentale. Vanno a votare sempre meno persone, più per abitudine che per convinzione o passione politica. La “passione” è un sentimento impossibile oggi da collegare a “politica”. E dire che viene da polis, la nostra forma di vita associata, l’essere in società con estranei e tuttavia, dipendervi, non si vede di cosa di più importante dovremmo occuparci in quanto soci di una società. La svalutazione della politica e della stessa democrazia unitamente a sistemi elettivi ultra-maggioritari, fanno sì che votando in sempre meno, si vincono le elezioni e si governa con poco. Nelle opinioni pubbliche la qualità della conoscenza distribuita rispetto ai problemi che abbiamo è infima, così il dibattito pubblico che la riflette in modo anche peggiore.

Il pluralismo politico ha perso interamente la sua fazione di sinistra che pure era quella che aveva spinto alla democratizzazione sin dalla Rivoluzione francese, nel movimento primo Novecento per il suffragio universale e poi nel dopoguerra. Il suo centro ha perso in Europa la sua matrice cristiana e sociale ed è diventato sempre più anglo-liberale. La sua destra, una destra che storicamente col concetto di democrazia c’entra poco visto che crede le diseguaglianze “di natura”, è cresciuta in composizione cha va da un confuso nazionalismo sovranista che però poi viene tradito non appena si ottengono posizioni di governo, ad un eterno tradizionalismo conservatore, a qualche esuberanza demagogica che però serve solo a trasformare rabbia repressa in voti per andare a gestire il sistema in nome e per conto l’élite liberale. Magari versione un po’ meno “woke” ma con non meno intenzione nel controllare lavoro, redditi, fisco, leggi, diritti sociali, cultura, democrazia imponendo diseguaglianze in favore del dominio oligarchico.

A fine anni ’70, mentre l’oligarchia americana convocava i vassalli europei e giapponesi per spiegare loro che i gravi e crescenti problemi di governabilità che si andavano a registrare negli anni ’60-‘70 erano dovuti ad un “eccesso di democrazia” (rapporto alla Commissione Trilaterale 1975, parliamo di Samuel Huntington, il “principe” della “scienza” politica di Washington), un astuto cinese dal nome Deng Xiaoping, che aveva studiato in Francia per “Imparare la conoscenza e la verità dell’Occidente per salvare la Cina”, cominciò a trapiantare semi di sistema economico moderno nel suo paese andato incontro a seriali fallimenti a seguito della applicazione delle idee marxiste-leniniste-maoiste in economia. Quel complesso teorico di audaci ambizioni era validissimo sul piano teorico e su quello critico, ma del tutto fallimentare sul piano economico. A seguire, la svolta cinese si è espansa al Sud Est asiatico e poi a tutto l’ex-Terzo Mondo. Quel Sud Globale che oggi reclama più democrazia nella conduzione dell’ordine del mondo agli stessi che negli ultimi decenni l’hanno contratta nei propri paesi, i nostri.

Quello che poi si è sviluppato in Cina è “capitalismo”? Purtroppo, definire “capitalismo” porta via interi boschi per trarne carta su cui scrivere definizioni poi da rivedere, collegare tra loro, precisare, ambientare in storia e geografia, con spruzzi antropo-culturali e vari tipi di distinzioni tassonomiche che si perdono nelle varie eccezioni a gran sempre più fine; quindi, alla fine, è un imprendibile ed imprecisabile concetto-saponetta e quindi la domanda non ha senso. Basta andare in libreria o biblioteca e vedere quanti si sono periti di dar la loro definizione che è sempre parziale ed incompleta, da più di un secolo e mezzo. È un ordine economico? Sociale? Politico? Geopolitico? Culturale? Storico? Religioso? Il concetto così formulato più da Sombart che da Marx, è inservibile. Ce lo scambiamo con l’aria di chi capisce bene cosa intende, ma credo non sia così, è ormai un vago “luogo comune” per giochi linguistici sociali. La diagnosi su “in quale sistema viviamo?” non è chiara, ovvio non lo si sappia gestire diversamente.

C’è una differenza fondamentale tra sistema cinese e sistema occidentale e non è nell’economia ma nella relazione tra economia e politica. Nel sistema cinese, c’è una economia di tipo moderno-occidentale, con più o meno Stato e relativo mercato, ma l’ordinatore finale della società è politico, è nel Partito Comunista Cinese, partito unico che ha in esclusiva tutte le chiavi ordinative in mano (legislative, militari, fiscali). Nel sistema occidentale, invece, la forma economica è di mercato (tutt’altro che smithiano, in realtà corrotto, manipolato, mono o oligopolista, spesso aiutato dallo Stato in vari modi), ma soprattutto la politica è decisa dall’economia, non dai cittadini. In Occidente, Il partito unico che ha tutte le chiavi in mano, è fatto dai funzionari del sistema che garantisce ad una ristretta élite di accumulare sempre più ingenti quantità di capitale e potere, qualunque cosa succeda nel mondo e nel mercato stesso. Anzi, tanto più è difficile sfruttare il mondo come è stato fatto per almeno tre secoli, tanto meno funziona il mercato interno, tanto più potere e capitale vogliono accumulare temendo l’implosione sociale o ambientale o geopolitica e quindi tanto meno democrazia possono sopportare.

I cittadini debbono veder svanire il loro peso politico democratico e subordinarsi sempre più, lavorare sempre di più, guadagnare sempre di meno, rendersi flessibili e morbidi, pensare sempre meno, discutere sempre meno, stare con la testa china su qualche apparato elettronico per sognare o sfogarsi. Al limite, possono scrivere contro l’ennesima ingiustizia, fare “critica culturale” o denunciare le trame oscure di quelli di Davos. Possono cioè “criticare”, così certificano che qui da noi c’è la libertà. È la democrazia “liberale” ovvero la dittatura della minoranza per evitare quella della maggioranza.

Negli ultimi due anni, abbiamo visto l’Europa, sistema storico che ha all’incirca più di due millenni ed a lungo dominante, disintegrare ogni propria autonomia in favore dell’élite americana. Tre giorni dopo l’inizio della voluta guerra in Ucraina, l’Europa si è “consegnata” ed è oggi una inerte e vassalla propaggine del sistema americano. Gente che solo fino a tre anni fa era convinta che tutto il mondo fosse un mercato post-storico destinato a sciogliere gli stati centralizzati in favore di nebulose di città-Stato profumate di innovazione, scambi senza frontiere e gobal-cosmopolitismo, ora sbava urlante per produrre più carri armati, più missili, più bombe per dar una lezione alle odiate autocrazie e difendere le nostre prerogative di “civiltà”.

Alcuni studiosi hanno scritto analisi e libri sul quanto repentino e profondo fu il cambio di mentalità tra primavera ed autunno del 1914. Speriamo sia vera quella battuta delle ripetizioni di tragedie in farse, letterariamente suona bene ma nei fatti non ne sarei così sicuro. Dopo due conflitti mondiali di origine intra-occidentale, c’è sempre la possibilità del “non c’è due senza tre”, è nella nostra poco compresa e scabrosa genetica storico-culturale occidentale.

Siccome qui in Occidente non siamo cinesi ovvero non abbiamo quella storia, geografia e cultura, da noi è impensabile un sistema politico con un partito unico per giunta socialista o addirittura comunista, almeno nelle dichiarazioni. Da noi, invertire le relazioni tra politica ed economia, avrebbe dovuto vedere una cosciente, forte e costante pressione di massa per evolvere e migliorare la nostra democrazia.

Ma le élite a partire da quelle di Washington, proprio cinquanta anni fa decisero che questa strada doveva esser percorsa al contrario. La sinistra che pure aveva contribuito a svilupparla ed un po’ se l’era trovata in atto per reazione al collasso bellico, che più di ogni altra parte politica avrebbe dovuto strenuamente difenderla, non avendone una teoria nei sacri testi tutti di socio-economia e con un po’ di “rivoluzione” qui e lì, non si è accorta di niente. Ha continuato la sua “critica al capitale”, una sorta ormai di inoffensiva contro-religione negativa ai cui officianti non si nega una cattedra universitaria, con le sue sterili e formali dispute scolastiche e testuali che non interessano nessuno ed annichiliscono ogni fluttuazione sociale perché non conforme alle previsioni dei sacri testi. Questo nella sinistra intellettuale che sognando il superamento del “capitalismo” intanto s’è fatta scippare la minima democrazia.

La sinistra che interpreta weberianamente la politica come professione, s’è invece adeguata presto alla versione di una economia sempre più per pochi, sempre più ricchi, sempre più potenti, un modo economico sempre meno sociale e sempre più individualista ed americano. Una sinistra senza identità perché non ha un chiaro progetto sul mondo (del resto visto che i teorici s’impegnano solo in critica cosa vuoi che sappia costruire?), votata sempre meno perché se devi avere ad ordinamento il sistema di mercato allora scegli chi di quel sistema è conseguenza o al limite, la sarabanda di destra che tanto non mette certo in discussione i fondamentali e si dedica ai “valori” immateriali. Un po’ più armi e crocifissi ed un po’ meno gay e migranti.

Più che l’ennesima tiritera sulle difficoltà odierne del pensiero critico, la sinistra dovrebbe riflettere sulla mancanza di pensiero auto-critico. Come è potuto accadere tutto ciò? Quale punto cieco teorico sul cambiamento abbiamo per non accorgerci che passo dopo passo stavamo regredendo ad una forma di ferrea oligarchia telematizzata? In più, non sarà forse il caso di abbandonare la credenza che a furia di criticare il mondo lo cambieremo? Non sarà forse il caso di accorgerci che non abbiamo pensiero strategico, non siamo in grado di darci un posto credibile e possibile dove portare la gente e noi stessi? Una strategia che persegua qualche obiettivo almeno progressivo e di minima?

Senza una minima forma di reale democrazia non possiamo dire niente, fare niente, decidere niente, cambiare niente. C’è gente che è morta, nella storia, per averla e darcela in eredità. Noi l’abbiamo persa come si perde il tempo, senza accorgersene. I posteri si domanderanno dove avevamo la testa…

Forse è tardi, tuttavia rimettere quella testa a studiare e sviluppare una teoria politica forte sulla democrazia, almeno ci ridarebbe l’ultimo principio che tra i tanti abbiamo perso: il principio speranza.

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ADATTAMENTO AL MONDO COMPLESSO.

A chi mai interessasse, il link al n. 28 di Riflessioni sistemiche, rivista di studio dell’Associazione Italiana di Epistemologia e Metodologia Sistemiche – AIEMS. A p. 78 un mio contributo che si ricollega ad un articolo più o meno sullo stesso argomento nel precedente numero della rivista. I temi dell’articolo precedente sono brevemente riassunti all’inizio di questo nuovo.

In breve, si segnala l’eccezionalità della transizione storica iniziata settanta anni fa: 1) triplicazione di esseri umani e Stati in soli settanta anni; 2) adozione mondiale generalizzata dei modi e forme dell’economia moderna; 3) formazione di un nuovo livello del sistema mondo in cui la civiltà occidentale -tendenzialmente- contrae il suo peso percentuale in termini demografici, di potenza economica, di potenza geopolitica. La questione dell’equilibrio generale tra sistema umano e pianeta in termini eco-climatici e problema delle risorse è conseguente i primi due punti. Le turbolente questioni geopolitiche, invece, discendono dal terzo.

Tutto ciò pone il problema dell’adattamento che è forse il senso più importante di quella che altrimenti abbiamo chiamato teoria dell’evoluzione ovvero la compatibilità tra tutte le parti di un insieme in un flusso dinamico di tempo. Per le società occidentali, questo verifica adattiva sarà particolarmente problematica.

Per affrontare queste problematicità ci vorrebbero società capaci di manifestare processi di autorganizzazione in quanto proprio la cultura sistemico-complessa nata proprio in osservazione problematiche di questo tipo, a vari livelli, questo ha dedotto dai suoi studi su sistemi complessi e contesti dinamici.

Le nostre società sono ordinate dai fatti economici e questi sono sovraintesi da una teoria basata proprio sulla logica dell’autorganizzazione ovvero la libera dinamica dei mercati che mostra, secondo i suoi teorici, facoltà di intelligenza di processo, la c.d. “mano invisibile”. Si dà per scontato che questo ordine dinamico ordinerà poi in senso positivo anche la società, ma questo “scontato” non lo è affatto. Questa convinzione si basa su un riduzionismo indebito e non sostenibile ed in fondo, mai davvero discusso e sicuramente inverificabile. Nei fatti, le società umane sono molto di più che non la loro forma economica.

Per questo, nell’articolo, ci poniamo il problema di quale sia l’ordinamento naturale di una società umana, rinvenendolo nella politica, non nell’economia, cosa per altro nota dai tempi di Aristotele ed anche prima. Ma da molti altri anche dopo.

Qual è allora la forma di sistema autorganizzato in politica? L’autogoverno dei Molti ovvero la “democrazia”. Non certo quella forma che tale chiamiamo oggi, ma la democrazia reale, una forma da sviluppare progressivamente seguendo, come minimo, un pentalogo di principi illustrati nell’articolo: recuperare tempo per l’attività di autogoverno sottraendolo al tempo di lavoro, porsi i problemi di formazione, informazione, distribuzione, dibattito sulla conoscenza diffusa tra i soci naturali della società. Se i soci del sistema sociale in assetto autorganizzato non hanno conoscenze di ciò che debbono gestire, certo non ci sarà alcuna “mano invisibile” che farà tornare i conti. Non far tornare i conti significa disadattamento ed il fallimento adattivo porta con sé molte disgrazie che sarebbe meglio evitare.

Come si vedrà, abbiamo evitato il lungo elenco dei sogni sul migliore dei mondi possibili (più giusti, più egalitari, più etici, più ecocompatibili, più di qui e più di là) tanto ci sono chilometri quadri di biblioteche a disposizione per farsi idee in merito. Ci siamo invece concentrati sul terribile punto espresso nell’undicesima Tesi su Feuerbach di Marx: come mettere le nostre società in grado di cambiare intenzionalmente.

Link al n.28 della rivista: https://www.aiems.eu/…/riflessioni…/ultima-monografia…

Link al numero 27 della rivista in cui si trova il primo articolo del ragionamento: https://drive.google.com/file/d/1admN-NPcDmVdoQr1MvxBaW04ejUsvSP0/view

Link al sito dell’AIEMS: https://www.aiems.eu/home-page

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LA CAOSIFICAZIONE DEGLI AMERICANI.

In un doppio post recente sulla crisi della civiltà occidentale, ponevo come un sottosistema a sé le società anglosassoni, gli Stati Uniti d’America, la Gran Bretagna ed altre tre minori. Riguardo gli USA, c’è da segnare come, finita la presidenza Trump, le notizie date qui su quel mondo sono semplicemente sparite. Sulla Gran Bretagna, talvolta, qualche europeista prova piacere a raccontare i significativi malesseri britannici addebitandoli alla Brexit, ma niente di più. Infine, col nuovo governo, siamo diventati “amici preferiti” tanto dell’uno che dell’altro. Nel caso americano ne va anche della coerenza di allineamento geopolitico con attualità nel conflitto ucraino, posizione super-partes nello schieramento politico italiano che per altro, secondo scarni sondaggi, non rifletterebbe per niente il sentimento maggioritario del Paese. Quindi sugli USA, dal punto di vista interno, non c’è niente da dire?

Nel 2022, una storica americana specializzata in conflitto civile (fondazione storica degli States), ha fatto clamore, sostenendo che in base alla letteratura di analisi storica generale, si potevano sintetizzare alcuni punti di crisi che potevano far prevedere l’imminente rischio di scoppio di una “stasis”. Secondo B.F. Walter, gli Stati Uniti sono oggi dei perfetti candidati a piombare nella guerra civile. È stata seguita da altri autori e molta eco mediatica, sia americana che britannica, hanno amplificato il tema ponendolo al centro del dibattito pubblico.

In un recente articolo di L. Caracciolo sulla Stampa, lo studioso usa questa espressione “Oggi l’America non si piace più. Come può affascinare gli altri?”. Buon annusatore dello spirito del tempo, Caracciolo si è convertito già dall’editoriale sull’ultimo numero di Limes ora in edicola, alla verità dell’epocale transizione dei poteri nel mondo, segnalando come gli Stati Uniti abbiano perso l’aurea e con essa il soft power.

Ribadisce George Friedman sulla stessa rivista, nel titolo della sua analisi “Gli Stati Uniti sono prossimi a un collasso interno”, sorbole! L’elenco di Friedman cita “rivendicazioni sociali al picco di intensità, questioni morali, religiose, culturali”, poi ci sono i fallimenti bancari, le revisioni strategiche verso la globalizzazione, il grande punto interrogativo cinese, ombre scure sui Big Five dell’on-line (che per altro licenziano a manetta) e le oscure sorti progressive dell’A.I., la Nasa che pare non sappia più come fare una tuta da astronauta, figuriamoci mandarlo sulla Luna; permangono attriti sui flussi migratori e sempre forti sulla convivenza razziale. C’è anche una profonda crisi interstatale/federale che arriva fino al ruolo del Congresso e della Corte Suprema. “Mai nella storia, vi è stato un tale livello di rabbia e disprezzo reciproco tra gli americani”, è la nota inquietante di Friedman. Se ne danno davvero di santa ragione su questo e su quello a livelli veramente pre-isterici, quando non si sparano e fanno e parlano di cose in modi davvero bizzarri (Dio, aborto, transessuali che risulterebbero solo lo 0,5% della popolazione, tradizionalismo e progressismo, pedofilia, complotti surreali et varia).

Questa agitazione, che più d’uno ha interesse a radicalizzare, trova il suo inferno su Internet ed i social. Quanto ai social, è il formato stesso dell’interazione anonima, con scritto privo di corredo facciale e comportamentale, costretto in spazi più da battuta che da discorso argomentato (woke! cristofascista!), la clausura nelle piccole comunità dei comuni pensanti che si eccitano a vicenda, a dar benzina a braci già ardenti. Radicalizzazione ci mette del tempo a costruirsi e non si smonta in tempi brevi, deposita rancori, astio, odio viscerale. Alla fine, non è più una questione di argomenti ma di irrigidimenti.

Sebbene sia una nazione di 330 milioni di persone (con, si stima, 400 mio di armi private, molte di livello militare) e pure con una composizione assai varia, tende a spaccarsi semplicemente in due ed il formato “noi contro loro”, alimenta il suo stesso radicalizzarsi semplificando. La semplificazione, del resto, è un tratto caratteristico della mentalità americana empirico-pragmatica ovvero sovrastimante il fare al posto -o priva- del pensare.

L’aspettativa di vita in America è in caduta libera da circa un decennio: è arrivata a 76,1 anni (da noi è da cinque a dieci anni di più). Grandi balzi in avanti tanto della mortalità infantile che di quella generale: diffusione armi ormai fuori controllo (in America oltre 200 persone al giorno vengono ferite da armi da fuoco, 120 vengono uccise. Di queste 120, 11 sono bambini e adolescenti), tasso di omicidi tra adolescenti +40% in due anni, overdosi ed abuso farmaci, incidenti auto. Nelle scuole, a molti bambini è imposto un corso di comportamento nel caso qualcuno entrasse in classe sparando con un mitra. E meno male che sono pro-life!

Al 10° posto per teorica ricchezza pro-capite in realtà gli USA sono 120° per uguaglianza di reddito (WB 2020), dopo l’Iran ma prima del Congo (RD). L’ascensore sociale è rotto da almeno trenta anni, ammesso prima funzionasse davvero. Americani poveri, in contee povere, in stati del Sud, muoiono fino a venti anni prima degli altri. Gli afroamericani cinque anni -in media- prima dei bianchi. Col solo 4,5% della popolazione mondiale hanno il 25% della popolazione carceraria, spaventoso il grafico di incremento negli ultimi trenta anni. La media europea è di 106 incarcerati su 100.000 abitanti, in US è 626, sei volte tanto che è primato mondiale. Fatte le debite proporzioni tra morti per overdose e popolazione totale, per ogni morto in Italia ce ne sono 50 in USA. Sebbene abbiano meno del 5% di popolazione mondiale spendono il 40% del totale mondo in spesa militare (a cui aggiungere le armi interne). Se ci si annoia coi libri di storia, basta guardare nell’immaginario la produzione cinematografico-televisiva per capire quanto attragga culturalmente la violenza, da quelle parti. La violenza è la cura dei contrasti sociali, atteggiamento pre-civile.

Avendo a norma sociale il libero perseguimento della felicità versione successo economico-sociale su base competitiva delle qualità individuali nel far soldi, non avendo idea di come il gioco sia truccato, mancando tradizione di pensiero e di analisi di tipo europeo (ad esempio per classi), questa massa di reietti, che spesso vivono in condizioni subumane, ovviamente arrabbiati quando non rintontiti da tv-alcol-farmaci-droghe, vengono reclutati dalle varie élite per sostenere o combattere ora questo, ora quel diritto civile. Il che alimenta questa tempesta di odio reciproco a livello di “valori”, che siano della ragione o della tradizione, ma mai economico-sociali.

I “bianchi” sono oggi il 58% ma nel 1940 erano l’83% ed ancora nel 1990 il 75%, il trend è chiaro. Già si sa che perderanno la maggioranza assoluta nel 2044, tra due decenni. Peggio per la quota WASP dentro il cluster “bianchi”, con età media più alta, in piena sindrome Fort Apache.

Un sondaggio 2022 dava a 40% tra i dem e 52% tra i rep, favorevoli a separare stati rossi e blu in una sorta di secessione ideologica e atti politico-giudici locali, nonché la pratica tradizionale del -gerrymandering-, una sorta di sartoria dei collegi elettorali per predeterminare la vittoria di certi candidati nelle forme della rappresentanza che non è mai proporzionale, sembra esser andata in questa direzione negli ultimi anni. Alcuni rep, da un po’, propagandano l’idea di alzare l’età del voto per evitare che i più giovani portino voti ai dem. Questa idea di divorzio territorial-ideologico è inedita e dà il senso della profondità della frattura sociale. Lo screditamento reciproco dei rappresentanti locali e federali dei due partiti è all’apice.

Del resto, il crollo di fiducia è molto ampio: chiesa, polizia, giornalisti, intellettuali, accademia e scuola stessa ed ovviamente i politici che spesso in realtà sono cercatori di posizione sociale disposti a tutto. La guerriglia condotta sulla legittimità dei voti, potrebbe adombrare una ipotesi ventilata sul “voto contingente” dove in mancanza di un chiaro pronunciamento (ovvero contestato), ad ogni stato viene attribuito un voto, essendo la maggioranza degli stati (che hanno però minor popolazione) repubblicani, ecco qui realizzata l’intenzione che sempre più spesso esce da certe bocche “Noi siamo una Repubblica, non una democrazia”, il che -per altro- è una limpida verità.

È del resto certificato da studi di Princeton e Northwest sui contenuti delle leggi deliberate dal Congresso, già di dieci anni fa, che gli Stati Uniti sono una oligarchia e non una democrazia. È questa oligarchia che ha interesse ad incendiare il sottostante, lì dove il popolo si scanna per questioni di diritti civili, razza, prevalenza sessuale e non per diritti sociali, qualità della vita, ridistribuzione dei redditi e potere connesso.

Ci sono presupposti per verificare questa profezia di una ipotetica guerra civile, profezia che dato il grande rilievo media dato in America rischia di diventare del tipo “… che si auto-avvera”? Ci sono parecchie ragioni per dubitarne, sempre che s’immagini barricate e vasti disordini per strada accompagnati da terrorismo interno. Tuttavia, per quanto l’analisi dovrebbe esser più profonda di quanto permetta un post, questa analisi specifica sulla crisi interna la società americana certifica che è il cuore della civiltà occidentale ad esser in crisi profonda.

Per questo agli europei si consiglierebbe di allentare i legami trans-atlantici, gli americani sono destinati ad una continuata contrazione di potenza mondiale mentre all’interno danno sempre più di matto su tutto tranne che sul continuo aumento delle diseguaglianze, malattia mortale per ogni società.

Parecchia della fenomenologia perversa qui brevemente descritta, ha già contagiato le nostre società. Dal globalismo-neoliberale alla lagna unidimensionale sui diritti civili e non sociali che eccita l risposta tradizionalista, l’intero immaginario che percola dalle serie tv e dal cinema, l’intero Internet e la logica dei social, ora dell’A.I. che discende da un preciso milieu psico-culturale comportamentista (cioè finalizzato al controllo del comportamento e della cognizione, altro che “intelligenza”), la ripresa europea ed italiana nelle produzione e commercio di armi, la distruzione democratica già programmata dai primi anni ’70, la demagogia, l’ignoranza aggressiva, il drastico scadimento qualitativo delle élite, la scomparsa della funzione intellettuale, il semplicismo, l’infantile entusiasmo tecnologico, una irrazionale fede sul ruolo della tecnica, le epidemie di solitudine sociale e depressione, la farmaco-dipendenza, la plastificazione corporea e la manipolazione neurale. La crisi del centro anglosassone del sistema occidentale irradia da tempo tutta l’area di civiltà, anche dove l’antropologia culturale, sociale e storica, sarebbe ben diversa.

Si consiglierebbe di cominciare a programmare un divorzio, una biforcazione dei destini, una rifondazione dell’essere occidentali che chiuda la parentesi anglosassone. Viaggiare i tempi complessi con questa gente alla guida potrebbe esser molto pericoloso.

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UNA CIVILTA’ IN CRISI.

Riporto il testo di un intervento in due differenti post pubblicati sulla mia pagina fb dove ormai continuo il mio diario di ricerca che animò i primi anni di vita di questo blog, ultimamente, trascurato.

Rispetto al titolo dell’articolo, partiamo chiarendo prima il punto di vista del nostro discorso. Il nostro punto di vista è storico, osserviamo l’oggetto civiltà, quella occidentale nello specifico, dal punto di vista del corso storico. L’argomento è vasto e complesso e soffrirà delle riduzione ad un paio di post.

Questa civiltà che si fa nascere coi Greci duemilasettecento anni fa, è stata per più dell’ottanta-per-cento del suo tempo, un sistema locale ed interno. Per il resto, dal XVI secolo in poi, a gli inizi del periodo che chiamiamo moderno, il sistema ha avuto un big bang inflattivo che si è esteso a livello planetario, non già assorbendo al suo interno spazio, popoli e natura, ma sottomettendoli e sfruttandoli. Va precisato che a noi qui non interessa proferire alcun giudizio morale, ci interessa solo l’analisi funzionale. In questi cinque secoli, la civiltà occidentale si è sovralimentata potendo alimentare il suo piccolo interno con un relativo dominio su un molto più grande esterno, ha potuto contare cioè su vaste e ricche condizioni di possibilità.

All’interno di questo frame temporale di cinque secoli, detto moderno, la civiltà occidentale è cambiata nel profondo. A livello di composizione, ha visto una migrazione interna del suo punto centrale che dal Mediterraneo greco e poi romano, è passato prima alla costa europea nordoccidentale, poi ha saltato la Manica ambientandosi in Inghilterra (poi Gran Bretagna, poi Regno Unito), poi ha saltato l’Atlantico ambientandosi nel Nord America. Si potrebbe anche dire che provenendo da una zona che per sua natura geografica è iperconnessa (Europa, Asia, Medio Oriente, Nord Africa), si sia progressivamente isolata prima continentalmente, poi insularmente, poi finendo addirittura in una terra al riparo di due vasti oceani. L’isolamento geografico è però valso la facoltà di dominare grande parte dello spazio-mondo senza rischiare troppo una controreazione come si è sempre verificato nelle dinamiche espansive degli imperi-civiltà terrestri.

A livello di bilancio material-energetico, una regione del mondo ha progressivamente dominato gran parte del mondo, ha enormemente dilatato il suo spazio vitale.

Tali condizioni hanno permesso alla originaria parte europea della civiltà, di frazionarsi in piccoli stati. Europa ha una media di territorio/popolazione per Stato molto al di sotto della media mondiale. In Europa c’è un numero di stati all’incirca pari a quelli dell’intera Asia o Africa stante che il suo spazio è quattro o tre volte più piccolo. Per altro, tale comparazione non è neanche del tutto corretta poiché sono stati proprio gli imperi europei a frazionare per propri interessi imperial-coloniali sia lo spazio asiatico che africano che chissà quali altre dinamiche avrebbero avuto se lasciati liberi di esplorare il proprio spazio di possibilità. Questa strana partizione localista europea ha dato segni di evidente squilibrio sistemico per ben due volte nel secolo scorso, accelerando il processo di migrazione del centro di civiltà nell’isola britannica e poi nell’isola continentale nordamericana.

Questi “Stati” ognuno con un suo popolo detto “nazione”, si sono sempre più ordinati con un sistema doppio di tipo economico-politico. Sul piano economico, gli occidentali hanno elaborato un sistema sovralimentato per materie ed energie per lo più prese dall’esterno. A tale sovralimentazione materiale, hanno affiancato altre due sovralimentazioni immateriali. La prima fatta da denaro creato dal nulla che anticipa il valore che poi si pretende venga restituito (estinguendo il debito dell’anticipazione) rilasciando una eccedenza detta profitto. Tale profitto si è accumulato o reinvestito per alimentare nuovi cicli. La seconda fatta dall’enorme sviluppo di conoscenze, saperi e pratiche tecniche e scientifiche. Materie, energie, denaro e conoscenze sono finite dentro una macchina produttiva-trasformativa. Questa macchina, attraverso il lavoro umano, è diventata il cuore ordinativo di queste società, ogni produttore è anche consumatore. Dalla macchina sono usciti due flussi, uno dei prodotti o servizi venduti al mercato per ottenere la restituzione del capitale iniziale più il profitto, l’altro di rifiuti o di lavorazione o di consumo.

Sul piano politico, l’ordinamento è stato creare un sistema originale nelle forme ma non poi così tanto nella sostanza che abbiamo chiamato, impropriamente, democrazia o in vena di sprezzo per la logica linguistica (ossimori): democrazia di mercato. La sostanza è quella solita di ogni civiltà da cinquemila anni ovvero il fatto che una parte minore (Pochi), domina e governa con alterne fortune una parte maggiore (i Molti). L’originalità, che più che democratica va detta repubblicana, è stata che i Molti hanno avuto (per altro solo da qualche decennio di questi cinque secoli), la facoltà di esprimere un qualche gradimento o meno per il tipo di interpreti del formato che non è stato mai messo in discussione. Gradimento molto superficiale ovvero non basato su un profonda condivisione cosciente dei diversi programmi politici.

La “crisi” nella quale è entrata la civiltà occidentale, è data dalla più o meno improvvisa restrizione di tutte queste condizioni di possibilità contemporaneamente. Per questo la si chiama “crisi sistemica”. In un sistema, lo stato di crisi comunque generato è sempre la crisi di tutte le sue parti e relative interrelazioni.

L’assetto per il quale questo sistema minore di occidentali ha potuto dominare un ben più ampio spazio per sovralimentarsi, oggi non si dà più e sempre meno si darà nell’immediato futuro. C’è una logica storico-demo-fisico-culturale sotto questa nuova impossibilità, non è argomento oggetto di volontarismo o discussione, è un fatto ineliminabile. Restringendosi sempre più lo spazio delle possibilità esterno, si va screpolando la tenuta interna del sistema.

Nei fatti, il centro americano-anglosassone ha una sua logica e dinamica tendenzialmente divergente dallo spazio europeo. A sua volta, questa Europa che ha una precaria ontologia geografica e geostorica, risulta un sistema debolissimo, anziano, iperfrazionato, viziato con una strana convinzione post-storica che ha pensato che il nuovo ordine fosse appaltabile ad una pura dinamica (mercato) in luogo di una statica (stato poi più o meno dinamico). Una sorta di ontologia dei flussi tutta forma e niente sostanza. Quella antica sindrome del pensiero occidentale per la quale queste genti pensano che poiché una cosa può esser pensata questo la rende esistente (nota come sindrome dei Cento talleri) e funzionante nel concreto.

La parte economica del suo ordinamento ha perso l’esclusività essendosi oggi replicata in tutto il mondo. Inoltre, a differenza di questo “resto del mondo”, l’Occidente ha già prodotto tutto ciò che gli serviva e da tempo continua a produrre cose che non servono più a niente se non a tenere in stentata vita il sistema. Infine, l’Occidente continua ad avere molti bisogni che però non evade perché non sono trasformabili in merci e prestazioni.

Ma in più, qui si verifica che il grande big bang iniziato a metà XIX secolo come cascate di invenzioni generative (vapore, meccanica, fisica, chimica, sanitaria, elettronica), nella seconda metà del Novecento ha prodotto solo il campo ICT che oggi si prova a declinare anche nel bio. Tant’è che s’è data per persa la produzione materiale rifugiandosi in uno stanco sogno immateriale di tipo finanziario che ha fatto perdere al cuore della macchina produttiva la sua funzione ordinativa sociale (lavoro, redditi). Alcuni pensano ciò stato un errore anche perché la nozione di errore comporta la reversibilità. Purtroppo, non c’è alcuna reversibilità, si poteva e doveva gestire il problema diversamente (globalizzazione scellerata e corrispettivo ideologico neoliberale), non c’è dubbio, ma il fondo della dinamica di perdita dell’impeto produttivo tradizionale era ed è, di fondo, irreversibile.

Sebbene gli stessi occidentali si ritengano “materialisti” forse non è a tutti chiaro quanto “vale” l’ICT o il NBIC (nano-bio-info-cognitivo) rispetto al tradizionale produttivo propriamente materiale. Non si tiene certo in vita un sistema economico complesso con la restrizione delle attività produttive nate dalle varie rivoluzioni innovative della prima metà del Novecento, ipoteticamente compensate da questi nuovi campi. Per altro innovazioni di mezzi (modi nuovi di fare cose vecchie) non generative di cose nuove, sostituzione di modi che per altro rilasciano saldi occupazionali negativi. Produttori in crisi che diventano crisi di consumo inceppando l’intero meccanismo.

Il “resto del mondo” è invece ai primi passi della curva logistica del ciclo di produzione-consumo, ha ancora molto da fare per far crescere la propria ricchezza collettiva e personale. Solo tra indiani e cinesi siamo a quasi tre miliardi di persone con la Cina al 72° per Pil/pro capite e l’India addirittura al 144° posto (IMF). E non c’è solo la ricchezza pro-capite, c’è anche la spessa infrastrutturale e collettiva dei singoli Paesi che accederanno ad una qualche loro forma di modernità.

La parte politica è diventata il sottosistema che ha concentrato in sé tutte queste dinamiche restrittive tentando di assorbirle senza gestirle. Ne è conseguito il disfacimento della forma presuntamente democratica in favore di un repubblicanesimo privatizzato ovvero la perdita di ogni nozione propria di res pubblica.

La breve analisi ci porta in dote questo penoso elenco di severe problematiche: a) rapporti tra Occidente e Mondo; b) rapporti interni ad Occidente (sfera anglosassone e continentale); c) inconsistenza degli Stati-nazione europei e della forma sistemica che gli europei hanno pensato di darsi in questi ultimi sessanta anni; d) fine ciclo storico di vita dell’economia moderna per il solo Occidente; e) tragedia delle forme politiche interne gli stati occidentali.

Tutte le problematiche convergono infine nella società in cui e di cui tutti viviamo.

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Le società animali e quelle umane più di altre, andrebbero intese come veicoli adattivi. Gli individui creano e si adattano alla società che aiuta ad adattarsi al mondo. Una civiltà è un meta-sistema, meno definito di quanto sia una società propriamente detta ma col vantaggio della massa. L’unità metodologica qui è la società, la società si adatta e partecipa della civiltà la quale aiuta ad adattarsi al mondo.

Lo stato di crisi precedentemente illustrato percorre tutti i livelli che vanno dalla civiltà alle società componenti, singole nazioni o gruppi di esse più omogenei, da queste alla loro composizione interna per strati, ceti, classi, funzioni, fino ai singoli individui. In una crisi adattiva, ognuno di questi soggetti, singoli o collettivi, si trova nella difficile situazione di esser, al contempo, “contro e con” qualcun altro.

Si può guadare con simpatia l’odierna emersione di nuove potenze interne altre sfere di civiltà, se non altro perché questo può muovere la struttura della nostra civiltà, aprire a possibili cambiamenti. Ma tali cambiamenti dovrebbero vederci pronti a farci carico della ridefinizione della nostra civiltà, non certo aspirare ingenuamente ad esser cambiati da altre civiltà. Ogni civiltà è aliena all’altra. Le civiltà possono e dovrebbero dialogare e scambiarsi idee, tratti e caratteri, ma rimangono soggetti con fini, scopi e modi integralmente diversi e di fondo, reciprocamente competitivi.

Così, la crisi della nostra civiltà ci riguarda integralmente tutti sebbene ognuno di noi abbia porzioni di distinguo e dissenso con la sua forma attuale. Ci riguarda come società che dovrebbe perseguire il proprio interesse nazionale ma “contro e con” altre società similari, il che vale anche per la dialettica tra ceti, classi e funzioni interne alla singola società, fino al livello individuale e nelle aspettative tra interessi teorici e pratici, financo dentro noi stessi.

Lo stato di crisi ontologica della civiltà occidentale e di ogni sua componente interna è certo la crisi dei suoi modi, strutture e dei suoi usuali processi di organizzazione, ma è anche la crisi del proprio mentale. Per gli umani, il mentale, è stata la principale e per altro molto potente arma adattativa. L’umano mostra una peculiarità cerebro-mentale che frappone tra intenzione ed azione uno spazio, in quello spazio c’è la simulazione degli effetti di ogni possibile azione, il pensiero. Il pensiero è una azione off line, una ipotesi di azione non ancora agita in attesa di diventare atto, soggetta a strategia, simulazione e valutazione. Tramite questa novità biologico-funzionale, abbiamo perso ogni tratto adattivo animale non più necessario (pelo, artigli, canini e potenti mascelle, agilità e muscoli etc), diventando al contempo uno degli animali più morfologicamente fragili a livello individuale quanto operativamente il più potente a livello collettivo o comunque sicuramente il più adattivo.

A questa dotazione mentale generale diamo il nome di “immagine di mondo”, ne sono dotate le civiltà, le società a gruppi o singolarmente prese, gli strati (ceti, classi e funzioni interne), gli individui. Oltre che nella scomoda situazione dell’esser al contempo “contro e con”, noi oggi ci troviamo con un mentale disallineato ai tempi. Il nostro mentale distilla i cinque secoli del moderno, anche se alcune strutture di pensiero che hanno funzione profonda, architettonica e fondazionale, risalgono a secoli e millenni addietro (ai greco-romani, al cristianesimo). A seconda di quanta epocalità vogliamo riconoscere al passaggio storico nel quale siamo capitati, verificheremo anche la più o meno profonda inadeguatezza di ampie parti del nostro mentale. Siamo in una epoca nuova con una mentalità vecchia. Su questa presunta epocalità, forse val bene ricordare il semplice dato che ci siamo triplicati sul pianeta in soli settanta anni, nella storia del genere umano evento mai registrato in un tempo così breve e partendo già da 2,5 mld. Al 2050 ci saremo quadruplicati per via di transizioni demografiche statisticamente inalterabili qualunque cosa decideremo di fare nei prossimi due decenni. Tutto ciò, portando sempre più in primo piano i problemi di compatibilità ambientale planetaria, visto che ormai tutto il mondo usa il modo economico moderno (materie-energia-capitale-tecnoscienza-produzione-consumo, scarti). Se non è “epocale” questo, non saprei come altrimenti definirlo.

Quello che preoccupa più di ogni altra cosa di questa fase storica è proprio la mancanza di coraggio mentale. In Occidente, i complessi ideologici vanno irrigidendosi in tristi scolastiche, non si nota alcuna primavera del pensiero, in nessun campo che non sia attuativo-strumentale (tecnica). L’assenza di creatività del nostro pensiero è pari all’impressione di inoltrata anzianità delle nostre società alla fine di più di un ciclo storico.

La mentalità occidentale ha due problemi principali. Il primo è di forma. Una civiltà e viepiù la sua crisi adattiva, è un problema eminentemente complesso ovvero dotato di molte parti, molte interrelazioni tra queste parti, processi non lineari ovvero non-meccanici, un sistema posto in un contesto turbolento. Che si usino discipline scientifiche o storico-sociali o pensiero riflessivo, nel moderno abbiamo sviluppato singoli tagli, singoli sguardi, singole metodologie disciplinari. Ancorché proficuo spezzettare oggetti o fenomeni per ridurne la dimensione alle nostre limitate facoltà mentali, tutto ciò non torna mai alla visione completa, non arriva mai al “com-prendere”, al prendere assieme. L’intero in rapporto al suo contesto ci sfugge sistematicamente e con esso la facoltà di poterlo maneggiare.

Il secondo problema è dato dal fatto che ognuna di queste discipline è ingombra di teorie, per lo più locali, ma non solo. Il paesaggio teorico è una intricata foresta di legami e rimandi tessuti nel tempo storico proprio, periodi storici in cui la nostra civiltà si trovava in un punto ben diverso della sua curva adattiva ed altrettanto il contesto-mondo. In molte discipline cruciali per la comprensione allargata vige un paradigma meccanico-atemporale che governa l’indagine ed il pensiero su cose che però sono storico-biologiche. Sono quattro secoli che la nostra foga di fare ha portato a tipo ideale macchine idrauliche, fontane, orologi, il modello sistemico del primo moderno. Poi è stata la volta della macchina a vapore, oggi il computer. Ma niente del nostro essere umani, bio-sociali e mentali auto-coscienti, ha a che fare con queste infondate analogie, è proprio la logica di comprensione che è disallineata. Infine, questo paesaggio teorico ha una sua propria consistenza interna che, nel tempo, si è allontanata dalla natura del proprio oggetto producendo una ingombrante selva di problemi fittizi e mal posti, stratificati in quadri polemici alimentati dalla competizione ideologica ed accademica, sempre più alla deriva di realtà.

Quello che manca per muoversi dentro lo stato di crisi in cerca dell’uscita non è un altro modello di società col suo immancabile lungo elenco di “vorrei che così fosse” qualora ci venisse concesso il ruolo di “legislatore del mondo”, ma un metodo per pensarla, discuterla e condividerla, tentarla, farla evolvere assieme ad altri. Ci scatta subito il piacere di disegnare società migliori, ma non abbiamo alcuna possibilità di portare questi progetti a fatti o tentativi di fatti.

In effetti il problema millenario del potere sociale è semplice. Di volta in volta, ristretti gruppi segnati da qualche specialità sociale (anagrafica, di genere, militare, religiosa, etnica, politica, oggi economica o forse più finanziaria), pur competendo tra loro per la quota di potere effettivo, sono stati strettamente solidali nella difesa del principio strutturale per cui Pochi dominano i Molti prendendosi la gran parte dei vantaggi adattivi del vivere in forma associata. Quando si è vissuto fasi di relativa abbondanza i Pochi hanno condiviso qualche briciola, quando si sono vissute fasi restrittive i Pochi hanno semplicemente scaricato tutta la contrazione sui Molti. Che è poi quello che è accaduto negli ultimi trenta anni. Ai Molti questo principio pratico primo del potere sfugge, discutono di questa o quella miglior forma di società ed immagine di mondo come fosse loro permesso di decidere di questo o di quella versione quando il problema è proprio come rispondere alla domanda fondamentale “chi decide?”. Non “cosa” decidere, questo dovrebbe venire dopo, prima si deve porre il soggetto, il “chi?” ed il modo, il “come?”.

Quella che ci sembra essere per noi occidentali una imprescindibile transizione adattativa, ha il duplice carattere del mentale e del reale, ma per costruire il secondo va trovato e condiviso il modo politico nel primo.

Quanto al mentale, la nuova era storica ci chiede di conoscere gli interi, il “penoso elenco di severe problematiche” cui abbiamo accennato, richiede conoscenze geo-storiche, culturali, ambientali, economiche, sociali, politiche, intrecciate tra loro, a valle di una nuova definizione di umano che non sarà più l’animale che fa, ma l’animale che pensa prima di fare. C’è da sviluppare un nuovo corso della conoscenza parallelo a quello sin qui svolto, un corso integrato, sistemico-olistico, che possa dare anche nuove condizioni di possibilità al pensiero per superare i pantani forestali di intrecci teorici non più utili poiché limitati e non più corrispondenti alla realtà. Un certo ritorno “ritorno alla realtà” s’impone date le caratteristiche del passaggio storico.

Quanto al reale sociale, è evidente che le società della civiltà occidentale, quantomeno quelle che non ne sono state il centro propulsore ovvero quelle anglosassoni, non possono più esser ordinate dal fatto economico. Non perché non ci piaccia, semplicemente perché ha esaurito il suo ciclo storico, non funziona più e tenderà a funzionare sempre meno. S’impone un ordinamento politico strutturato da una teoria forte della democrazia. Le civiltà, sino ad oggi, sono stati oggetti che abbiamo considerato dopo che si erano formate e sviluppate, nessuno le ha progettate ex-post. Se, come pare necessario, ci troviamo nella necessità di modificare le nostre forme di vita associata nel profondo e nel loro intreccio multidimensionale, non possiamo non presupporre una partecipazione ampia e costante di una ben vasta massa critica di associati, è la società intera che deve auto-trasformarsi.

C’è da ripensare in profondo lo statuto del Politico nelle nostre singole società, c’è da ripensare ruolo e modi dell’economico, c’è da ripensare la forma stessa dello Stato-nazione di taglia europea mentre ripensiamo del tutto e daccapo le regole di convivenza interne lo spazio europeo, ci sono completamente da rivedere i rapporti tra Occidente europeo ed anglosassone (sistemi che hanno tanto reciproche similarità quanto profonde divergenze geo-storiche), c’è da ripensare l’intera postura di relazione tra il nostro occidente ed il resto del mondo (Asia, soprattutto Africa), oltreché col mondo in quanto pianeta. E tutto ciò, presuppone modifiche non meno ambiziose e radicali del nostro pensare, conoscere, progettare il mondo ed il modo di abitarlo.

Il processo di adattamento ad un mondo così inedito, mutato e mutante nel profondo, oltretutto con tempi accelerati, a livello di società-civiltà, sembra ci porti a dover diluire il potere sociale a quante più sue componenti di modo che il sistema di cui facciamo parte mostri agilità e prontezza coordinata al cambiamento deciso dalla massa critica. Il cambiamento dei fondamenti impone il ritorno ai fondamentali del nostro pensiero politico, all’eterna battaglia tra il potere dei Pochi e quello dei Molti. Nel mondo dei viventi, i sistemi complessi più adattivi sono autorganizzati. La forma politica del principio di autorganizzazione è la democrazia reale. Ci manca una teoria forte della democrazia.

Questo, a mio avviso, il più urgente compito per un pensiero che abbia a traguardo l’azione trasformativa ed adattativa ai difficili tempi che ci son toccati in sorte di vivere.

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I PRINCIPI DEL PRINCIPIO. Novembre 2022.

Posto il link ad un mio intervento alla seconda edizione di Biennale Tecnologia che si è svolta il 10-13 novembre scorso al Politecnico di Torino. Il fuoco di questa edizione era proprio la riflessione su i princìpi che fondano o dovrebbero fondare le nostre immagini di mondo a cui sono stati invitati scienziati, tecnologi, scrittori, economisti, filosofi, giornalisti, storici, artisti. Programma molto fitto e qualificato che ha spaziato da Taleb a Pievani, Morozov e Benasayag, Sadin e Zagrebelsky e molti, molti altri di cui a questo programma: QUI . Di ognuno potrete vedere il video dell’intervento.

Il mio, nello specifico, s’intitolava I PRINCIPI DEL PRINCPIO ovvero quali principi sembrano più idonei a favorire il nostro adattamento ad un mondo completamente nuovo, al “principio” di una nuova fase storica. Temi che qui abbiamo trattato più volte. Le mie riflessioni che hanno a lungo animato questo blog ora si sono trasferite su facebook. Mi scuso con eventuali lettori e lettrici per il blackout, fb è una piattaforma pubblica ma, comprensibilmente, molti non gradiscono accedervi. E da un po’ quindi che non ci incontra qui sul blog, conto di tornarci presto però. Intanto, chi fosse interessato, mi trova QUI su YouTube.

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IL CONGELAMENTO DI AGOSTO.

Raccolgo qui una serie di informazioni, articoli, opinioni lette in questi giorni sulla stampa internazionale, per tentare la risposta alla domanda su quanto manchi alla fine del conflitto russo-ucraino. Sviluppiamo il ragionamento in forma ovviamente ipotetica, sebbene riteniamo di aver solide ragioni che limitano il campo delle ipotesi. E la risposta alla domanda è simile a quella data, se ben ricordo, poco tempo fa da un generale ucraino ed altri analisti che indicava agosto come termine dello scontro armato. Perché?

Chiariamo innanzitutto che con “termine del conflitto” intendiamo non la pace, ma la sospensione delle operazioni sul campo, quello che chiamano “congelamento del conflitto”, il conflitto rimane, diventa diplomatico o prende altre forme politiche ed economiche e perde quelle militari. Agosto è la stima del tempo che i russi potrebbero impiegare per prendere territorio dell’est fino ai confini amministrativi pieni dei due oblast del Donbass. Quasi raggiunto l’obiettivo per il Lugansk, manca ancora un bel po’ per il Donestsk. A quel punto, i russi potrebbero vantare appunto tutto il Donbass, la striscia sud fino all’antistante di terra della Crimea, il Mar d’Azov trasformato in un lago russo, la Crimea che già avevano annessa, il blocco navale completo nell’antistante Odessa, Kherson, la centrale di Zaporizhzhia (la più grande d’Europa) e altri annessi.

I russi avevano dato gli obiettivi dell’operazione militare speciale già il 7 marzo in una intervista Reuters a Peskov e da allora sono stati ribaditi ogni volta che ne hanno avuto occasione. Che fossero i veri obiettivi o gli obiettivi di minima qui non ci interessa, ci interessa fossero la versione ufficiale perché è rispetto a questa che il Cremlino chiederà alla propria opinione pubblica e quella internazionale, di esser giudicato.

Il pacchetto prevedeva 3+2 punti. 1) De-militarizzazione. Si potrà dire che le strutture militari ucraine sono state in buona parte degradate anche se il bilancio reale nessuno lo potrà fare anche perché l’obiettivo così espresso era sufficientemente vago. Vedremo se effettivamente ci saranno prove dei fatidici laboratori biologici o delle temute manipolazioni di materiale atomico per bombe sporche. In più, se le strutture logistiche e le dotazioni originarie sono state senz’altro colpite, i grandi trasferimenti d’arma dalla NATO ed in particolare UK ed USA, non erano previsti e non possono entrare nel bilancio; 2) de-nazificazione. Obiettivo semmai anche più vago del precedente. Senz’altro la fine dell’epica di Azovstal (non ancora del tutto conclusa), gli interrogatori, le foto, i processi, le condanne dei superstiti dell’Azov e tutto l’intorno, daranno dimostrazione che tale obiettivo è stato raggiunto o almeno così si potrà sostenere all’ingrosso; 3) dopodiché, che l’Ucraina non possa entrare dalla porta d’ingresso nella NATO rimarrà proprio nella misura in cui il conflitto non terminerà formalmente forse per anni, lo vieta un articolo del regolamento di accettazione nell’organizzazione, 4) che la Crimea non sarà riconosciuta legittimamente russa non è un problema tanto la richiesta aveva come fine farsi togliere le sanzioni relative e s’è capito che quelle sanzioni rimangono ben poca cosa dopo quelle comminate in questi tre mesi; 5) il punto chiave ovvero il riconoscimento delle due repubbliche popolari, verrà superato dal fatto che avranno ottenuto il doppio di territorio originario, più tutto ciò che va dal Donbass alla Crimea, con un bel po’ di materie prime ed industrie con le quali pagarsi le spese per il conflitto. Con prigionieri e prove di malefatte, da una parte e dell’altra, più il blocco navale, discussioni sui confini da provvisori a definitivi, c’è materia per almeno dieci anni di inconcludenti trattative. Ecco il perché della stima di agosto manca ancora il pieno controllo soprattutto dell’oblast di Donetsk. Infine, i russi potranno sempre dire che Zelensky si dovrà politicamente accollare tutti i morti e la distruzione materiale dell’Ucraina perché tanto alla fine ha perso anche più di quanto non avrebbe perso trattando il 7 marzo. Zelensky ed alleati potranno sempre dire “visto? se non ci battevamo avremmo preso ben di più”.

Si renderà anche chiara la logica del conflitto almeno sul piano militare e del perché è stata definita “operazione militare” e non guerra. Ripetiamo, non ci interessa quanto di tutto ciò fosse o sia vero o meno, va valutata la sostenibilità pubblica del discorso ed il discorso (che è stato così preparato strategicamente sin dall’inizio) così messo sta più che in piedi, piaccia o meno. Soprattutto a coloro che in questi mesi hanno scambiato i fatti con la fog-of-war propagandistica che ha lungamente vaneggiato di blitzkrieg, annessione di tutta l’Ucraina, cavalli russi che si abbeverano alle fontane del Vaticano ed eliminazione di Capitan Ucraina, tutta narrazione quale si conviene in casi del genere. Per altro speculare a quelle russe che hanno minacciato Armageddon un giorno sì e l’altro pure.

Tutto ciò, sarà la base su cui trattare, per anni. Un giorno gli ucraini apriranno al riconoscimento delle due repubbliche ma poi si ritrarranno, allora i russi diranno che stanno valutando l’annessione dell’intero Donbass nella Federazione rendendo il possesso del territorio irreversibile. Un giorno qualcuno farà qualche azione militare al confine per forzare la mano nelle trattative, poi la farà l’altro. Si tenga però conto che la piena perdita del Mar d’Azov ed il blocco navale di fatto nell’antistante Odessa, sono mani stringenti intorno al collo economico di ciò che resta dell’Ucraina. Aprire un po’ e poi richiudere il blocco sarà la tattica negoziale principale. Nei fatti, entrambi potrebbero aver interesse a non finire mai davvero la tenzone ufficialmente poiché il conflitto sottostante, rimane. Interesse della Russia tenere l’Ucraina per il collo, interesse degli ucraini andare a piangere dagli occidentali, interesse degli americani per sgridare gli europei sul fatto che non fanno abbastanza (svenandosi ancora di più ed a lungo, il che li renderà viepiù docili ed impegnati dal divide et impera di Washington), interesse di nuovo dei russi che vogliono vedere se e quando gli europei occidentali troveranno forza e coraggio di ribellarsi. Inoltre, né i russi, né gli ucraini sono politicamente in grado di giustificare internamente l’eventuale compromesso che ogni trattato di pace comporta.

Vediamo un po’ di saggiare la logica dell’ipotesi da entrambe le parti, partiamo dai russi. Che i russi volessero effettivamente più o meno questo e non altro, si deduce in chiarezza dalle poche truppe schierate in campo. Nell’est del fronte, sino ad oggi, si son visti più ceceni e repubblicani locali che russi veri e propri. Le dichiarazioni pubbliche di Putin da dopo il 9 maggio, si sono fatte meno urlate ed aggressive. Il supporto interno è ai massimi, quindi da qui in poi può solo scendere. Khodaryhonok, l’esperto militare russo che parla alla trasmissione di punta del primo canale russo, voce che ha l’aria di parlare con la voce più propria del Cremlino presentata però come opinione personale, giorni fa ha escluso la mobilitazione generale per chiari motivi di opportunità e sostenibilità che qualcuno invocava anche in Russia e l’altro giorno ha fatto una impietosa disamina della situazione motivazionale sul campo che vede senz’altro favoriti gli ucraini. Viepiù con l’arrivo dei nuovi sistemi d’arma americani. Più passa il tempo più le sanzioni faranno effetto. Si deve presumere, come poi verificheremo dall’altra parte, che tutta la comunità internazionale se non a favore, non contraria a Mosca, spinga alla cessazione delle operazioni, il disordine mondiale (soprattutto economico) è già oltre i livelli di sopportabilità. Così per la carestia alimentare e la turbolenza sul mercato delle materie prime. Ricordo che l’obiettivo reale dell’iniziativa russa travalica le questioni ucraine e se tale motivo era più che sufficiente per Putin, non lo è come possibile ed aperta condivisione sia interna, che esterna, più passa il tempo e si alzano i costi politici, economici, diplomatici. Quindi, fin qui va bene, ora basta.

Vediamo nell’altro campo. L’altro campo va diviso quantomeno in tre. C’è Zelensky e la sua banda che vuole un futuro per sé ed il proprio paese, l’asse anglosassone ed europei orientali, gli europei occidentali che hanno visioni diverse da quelli orientali.

Partiamo dagli ucraini. Gli ucraini hanno sin qui ottenuto grande visibilità e prestigio internazionale, molte promesse, armi, hanno contenuto i russi sul campo o almeno così si è percepito, si sono uniti come un solo uomo (non lo erano affatto). Ora debbono gestire la seconda fase. Ieri un ministro ucraino ha detto che lì c’è da sminare un territorio pari all’Italia, ogni giorno in più di guerra sono 30 giorni di sminamento ulteriore. Hanno fatto stime sulla necessità iniziale di un piano di ricostruzione di almeno 600 miliardi, più 5 di mero funzionamento amministrativo mensile, più le armi. Il Paese è nullo come attività economica, Pil, tassazione, insomma è a terra, completamente, manca pure la benzina. Hanno la questione del grano dove se non si sbrigano a svuotare i silos, non potranno riempirli col nuovo raccolto. Problemi con le altre esportazioni che sostenevano la magra economia ucraina. Hanno perso quasi 6 milioni di abitanti e la natalità già bassissima, si sarà ulteriormente bloccata. Si può immaginare che le precedenti élite economiche (oligarchi o meno), siano in fermento per non dire di peggio. Col tempo, gran parte della popolazione rimasta che è lontana dal fronte attivo, sentirà viepiù i morsi della crisi profonda e sempre meno lo spirito di patria compenserà la manca di pane e companatico, lavoro, requisiti minimi di normalità di esistenza.

Si apre così la partita con l’Europa occidentale. È l’Europa occidentale che dovrà contribuire più di ogni altro al futuro piano Marshall ed è la stessa che dovrà trovare il modo di inglobare l’Ucraina (paese che non era definito “democratico” prima delle guerra, corrotto a livelli stratosferici, privo di effettivo stato di diritto, con un Pil pro-capite a livello di repubblica centro-americana -133° posto-, senza politiche di genere e tratta delle donne giovani avviate alla prostituzione industriale della loro ampia malavita organizzata in affari con la ndrangheta, primo hub europeo per traffico d’armi e droga, con livelli di garanzia democratica e per i partiti e per la stampa inesistenti e da ultimo pure peggiorati) non certo pienamente nell’UE (impossibile per via dei parametri e del tempo richiesto per adeguarvisi, decenni su decenni, ma con l’opzione “Confederazione” che però è tutta da sviluppare). Ecco allora che il governo ucraino dipende dall’Europa occidentale per due ottimi motivi: a) il riconoscimento come candidato, obiettivo da vantare sul piano interno per le prossime elezioni in cui Zelensky rischia la testa (se non la rischia prima per altre ragioni); b) i soldi. È l’Europa occidentale che imporrà all’Ucraina di adeguarsi al congelamento del conflitto. Le armi debbono tacere, le luci si debbono spegnere, l’attenzione deve scemare per poter gestire il complesso dopoguerra. Crisi alimentare, commodities, milioni di esuli che già si lamentano, in attesa si comincino a lamentare le popolazioni che li ospitano una volta terminata la fase Eurovision, impossibile rinuncia sia al petrolio per non parlare del gas, inflazione ai massimi, migranti afro-arabi affamati, relazioni commerciali sovvertite, investimenti persi, catene logistiche da ristrutturare, mercato finanziario in contrazione mondiale, costo delle sanzioni, cisti del riarmo, un vero disastro.

Così dopo un certo allineamento delle intenzioni tra russi, europei occidentali che costringeranno gli ucraini ad adeguarsi, rimarrà l’asse anglosassone. Qui la situazione Biden in vista delle elezioni di mid-term (dall’inflazione agli effetti del terremoto economico-finanziario) è molto critica. Molte le altre cose da fare. Dal gestire il bottino NATO con i nuovi candidati scandinavi (al di là delle impuntature truche, ci vorrà ancora un anno prima di ottenere tutte le approvazioni e la strada potrebbe non esser così piana come ad alcuni sembra), alla ripresa dell’offensiva diplomatica soprattutto in Asia. In fondo, lo sfregio di reputazione russa si è ottenuto almeno per le platee occidentali, il declassamento d’immagine come superpotenza in parte, l’Europa che si riarma e stacca i legami con Mosca è forse il bottino più succoso, le sanzioni faranno il loro corso ed anzi ci sarà da tenere a bada gli europei che tenteranno qualche reversibilità e compromesso come stanno già facendo col fatidico pagamento in rubli a Gazprom.

Insomma, del Grande Conflitto per o contro l’Ordine Multipolare, che è la ragione propria di tutto questo macello, si potrà chiudere la prima fase, aprendo la seconda che si dovrà gestire a livello economico, finanziario, monetario, diplomatico e di alleanze, gestendo la complessa fase post-bellica, trasferendone il fulcro in Asia mentre si prepara la nuova puntata dell’Artico che è poi ciò che ha mosso al repentino assorbimento dei due scandinavi. Svezia e Finlandia hanno decenni di pacifica convivenza coi russi, nessun contenzioso, nessuna enclave russofona, nessuna ricchezza da disputarsi, la Svezia non ha neanche un confine di terra con la Russia. La Finlandia ce l’ha ma è esageratamente lungo, pianeggiante, disabitato e freddo, sostanzialmente indifendibile. Ma non si capisce cosa della Finlandia possa mai attrarre i russi. La loro frettolosa e sin troppo festeggiata adesione, non può che riferirsi a ben altro conflitto quale quello che si sta approntando per le risorse e la viabilità dell’Artico.

Il seguito di questo conflitto a scala planetaria non è facilmente ipotizzabile. Se lo è sul piano delle strategie generali, manca chiarezza sulla forza del suo soggetto ovvero l’attuale presidenza Biden. Quasi certa la perdita del Senato alle prossime mid-term, potrebbe perdere anche la Camera ed i due anni che, a quel punto, separeranno dalle presidenziali sarebbero una ghiotta occasione per i repubblicani per fargli perdere più punti di quanto ne potrebbe acquisire. Il tutto, in un contesto mondiale ormai disordinato irreversibilmente, con prospettive economiche plumbee. Di contro, potrebbe esser allora intenzione proprio dell'”anatra zoppa” drammatizzare il conflitto internazionale, specie se a quel punto diretto anche contro la Cina. Un richiamo a cui non potrebbero resistere neanche i repubblicani. L’enorme elargizione di dollari al complesso militare-industriale ha sempre affetti bipartisan.

Sin dall’inizio delle nostre cronache sul conflitto ucraino, ci siamo posti il problema tra l’estrema ambizione del piano americano e la sua forza relativa nel poterlo dispiegare nel tempo contro le avversità da esso stesso generate. Schematicamente, delle due l’una: o il piano è frutto di un entusiasmo poco avveduto strategicamente e realisticamente o si è prevista la necessità di alzare continuamente la posta per imporlo come unico schema di riferimento, forzando tutte le incertezze e contrarietà crescenti. Questo secondo caso sarebbe davvero preoccupante ed allora le continue uscite russe sull’opzione nucleare, passerebbero dal novero della semplice propaganda alla risposta a minacce strategiche che le opinioni pubbliche ancora non vedono con chiarezza.

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UNA TRANSIZIONE EPOCALE?

A chi mai interessasse, il mio intervento di apertura al lancio della XIIa edizione del Festival della Complessità che si è tenuto sabato scorso in quel di Parma. Cose per i lettori e lettrici del blog relativamente note, con l’unico beneficio che qui sono messe assieme a comporre una lettura di quadro, anche se la tirannia del tempo e dell’attenzione implica il dover appena toccare punti che in realtà andrebbero a loro volta approfonditi e di non poco.

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MORE IS DIFFERENT.

Era il 1972 quando un fisico americano, P. W. Anderson, poi premio Nobel (1977) diede alle stampe su Science un breve articolo con questo titolo, un articolo che risulterà tra i più citati in assoluto nella letteratura scientifica degli ultimi cinquanta anni. “L’aumento del numero di componenti di un sistema determina un cambiamento non solo quantitativo ma anche qualitativo” compendia G. Parisi (Nobel 2021) nel suo recente “In un volo di storni” (Rizzoli, 2022).

Se come è accaduto nel mondo nei soli ultimi settanta anni, è più che triplicata la popolazione umana ed il numero di Stati, questo “more” in che modo ha creato un mondo “different”? In che senso il nostro mondo è differente da quello appena passato, a quanti e quali livelli, con quanti e quali effetti, lineari e non? Viepiù visto che ci aspettiamo crescerà ancora per i prossimi trenta anni arrivando nel 2050 ad essersi quadruplicato in un solo secolo?

Di questo parlerò nella relazione di apertura del Festival della Complessità che si terrà a Parma il 7 maggio, a partire dalle 9.30 ripercorrendo proprio questa dinamica ed i suoi molteplici effetti sino ad arrivare all’odierno terremoto del mondo con epicentro in Ucraina con effetti di vasta e profonda portata, in quella che possiamo senz’altro definire una transizione epocale.

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UN SECOLO E MEZZO DOPO.

Ricorre oggi, il primo di maggio, la c.d. “festa dei lavoratori”. Questa data venne fissata a seguito di vicende su cui qui sorvoliamo, originatesi negli Stati Uniti, ai tempi della Rivoluzione industriale. Tali vicende presero forma di violenti scontri di piazza, attentati veri o presunti, arresti, condanne a morte. Tutto ciò seguiva l’idea di estendere a tutta l’America una legge fatta nell’Illinois nel 1866, appunto un secolo e mezzo fa. La legge prevedeva, per prima, la riduzione dell’orario di lavoro ad otto ore.

Sulle otto ore di lavoro al giorno si scontravano due interessi. Quelli degli imprenditori e loro logica detta capitalistica e quelli dei lavoratori. L’interesse dei lavoratori era semplicemente di tipo umano ovvero riservare otto ore per dormire, otto per lavorare, otto per tutto il resto. In quel “tutto il resto” si concentrava l’essenza umana. L’essenza umana, infatti, solo per ragioni biologiche ha bisogno di dormire otto ore, ma è questione del corpo immobile, quando dormiamo non siamo coscienti e non abbiamo relazioni tra noi e col mondo. Altresì, quando lavoriamo siamo coscienti ed in relazione ma in contesti e fini che non scegliamo liberamente. È la nostra convenzione sociale che determina il meccanismo per cui per far funzionare la vita associata e la stessa nostra al suo interno, vendiamo il nostro corpo e la nostra mente per un pacchetto di ore giornaliere, per giorni, mesi ed anni, fino a quando non lavoriamo più e poco dopo moriamo. C’è chi ne trae anche soddisfazione, materiale ed anche ideale, ma è spesso un far di necessità virtù, non è esattamente e convintamente per tutti una nostra scelta. Sicuramente non è una scelta libera.

Una libertà, per quanto relativa, è riservata alle altre, ultime, otto ore. Spesso, questo pacchetto di tempo in cui sfogare la nostra essenza umana è a sua volta limitato. C’è da curare la nostra persona, occuparsi di faccende domestiche, accudire i nostri amori ed affetti, andare e tornare dal lavoro, mangiare. Rimane un po’ di tempo, talvolta, per stordirci ovvero fare cose senza troppo impegno per distrarre la mente sovraccarica. Così ogni giorno, così più o meno per sempre. La nostra condizione umana così settata ai tempi moderni, riserva così da poco e per niente tempo per curare il nostro diritto primario.

Il nostro diritto primario è quello di esser soci di una società che richiederebbe tempo di attenzione ed azione come ogni socio riserva alla società di cui possiede diritti societari. Non solo è un diritto, ma sarebbe anche un dovere in quanto se non ci curiamo noi della nostra società non si vede chi altro dovrebbe curarsene. In realtà sono in molti a curarsene, ma ognuno di coloro che possono farlo lo fanno ovviamente nel loro interesse, nel loro disegno, non certo nel nostro, anche loro sono soci naturali come noi solo che, a differenza di noi, hanno modo di far valere quel diritto e noi no.

Dipendiamo non solo dal nostro corpo, dalla nostra rete sociale affettiva ed amicale, da coloro a cui abbiamo venduto un terzo del nostro tempo-vita, dipendiamo anche ma forse soprattutto dalla nostra società perché come tutti gli animali sociali, siamo vincolati al fatto che la nostra sfida adattativa al mondo la giochiamo in squadra che è appunto la società. Ma pur essendone soci naturali, non abbiamo sufficientemente tempo per occuparcene. Ciò determina la nostra condizione sociale. Quanto tempo hai dedicato a studiare il mondo intorno a te, quanto ne sai, da chi l’hai saputo, quante occasione hai di dire la tua, di confrontarti con altri, di discutere e con ciò apprendere da altri o aiutare altri ad apprendere. Così fino alla domanda finale che è l’essenza della politica: chi decide ed in base a cosa decide?

L’insieme di questa descrizione porta a molte distorsioni. Molti non hanno la più pallida idea della loro società e del mondo in cui questa è posta. A molti sfugge l’inestricabile complessità di tutto ciò. Questo provoca ansia che si somma al risentimento perché, nel frattempo, la nostra condizione sociale provoca molte contraddizioni, frustrazioni, problemi. Ci sono molti apparati, qualcuno li ha chiamati dispositivi o strutture, utili a deviare la nostra ansia e risentimento, utili come omeostatica del sistema sociale ovvero come farlo funzionare e mantenerlo in parziale equilibrio nonostante sia obiettivamente dotato di poco senso e perennemente disequilibrato. Tutto ciò ha un fine primario ovvero evitare in ogni modo noi si eserciti i nostri diritti naturali di socio di società. Occupatevi di tutto ma non della vostra società e questo perché così se ne può occupare chi ha interesse essa sia fatta così e non cosà.

La cosa è nota anche perché ha una sua banalità, come vedete è semplice sebbene porti poi a molta complessità emergente dai suoi funzionamenti. In ciò, dispiace notare come molti di coloro che si sono potuti dedicare a questo problema comune a noi tutti, almeno quelli che se ne sono occupati dal punto di vista comune di coloro che subiscono questo ordine disequilibrato che gli stessi definiscono “ingiusto”, abbiano fatto tanti tentativi di sovvertirlo, ma evitando la strada più semplice. Risuona qui un detto di Bertold Brecht “è il semplice che è difficile a farsi”.

La via più semplice e tuttavia più evidentemente difficile a seguire, è in quel risultato ottenuto nell’Illinois un secolo e mezzo fa: diminuire il tempo di lavoro per investirlo in tempo per esercitare i nostri diritti societari naturali. C’è stata una implicita sfiducia nella capacità umana di poter decidere per sé il proprio meglio, anche da parte di quei pochi che hanno avuto il loro tempo per studiare la faccenda e pur animati da buoni intenti di aiuto agli altri meno fortunati che quel tempo non l’hanno avuto, l’hanno sprecato.

Diceva un filosofo che il compito della filosofia dovrebbe essere aiutare la mosca ad uscire dalla bottiglia. La mosca vuole volare libera, vede la libertà davanti a sé attraverso la trasparenza del vetro, ma quando cerca di accedervi sbatte contro qualcosa di duro ed impenetrabile. L’attività umana più nobile ovvero il pensiero del pensiero dovrebbe aiutare a trovare la soluzione ovvero quel piccolo foro che unico, fa uscire dalla prigione trasparente, che è poi quello in cui incautamente si è attraversato finendo nella prigione.

Ma così, fino ad oggi, non è stato. Abbiamo diverse teorie emancipative, ma hanno tutte un difetto fondamentale. Il difetto fondamentale è che per praticare qualsiasi di esse, si deve presupporre una massa sociale, altri con cui praticarle, altri con cui fare fronte comune, ci si emancipa in gruppo non da soli. Per cambiare l’ordine sociale, si deve comunque formare una massa critica in grado di incidere nelle decisioni dell’assemblea dei soci. Per farlo però, ci vorrebbe il tempo. Tempo per leggere, studiare, discutere, dibattere, cambiare idea e farla cambiare ad altri, organizzarsi, trovare il modo stesso di come organizzarsi stante che non è facile (a partire dal ricatto dei soldi, servono soldi per fare qualsiasi cosa nella nostra forma di società, quel “il tempo è denaro” che è la formula stessa del nostro ordine sociale), rendersi immuni dalla potenza di fuoco contrario che può contare su enormi capacità ed armi da usare per convincere i nostri stessi simili delle più assurde assurdità in modo siano loro ad avversare i nostri progetti emancipativi che pure converrebbero pure a loro.

Noi siamo animali intenzionali, per uscire dalla bottiglia ci vuole l’intenzione e la conoscenza, la conoscenza si nutre di tempo, non averlo ci porterà per l’eternità a sbattere contro il vetro.

Un secolo e mezzo è tanto tempo, ma la questione umana-sociale è sempre là in quella intuizione dei lavoratori americani intenzionati dalle prime teorie politiche emancipative: riprendersi il proprio tempo. Tempo come condizione di possibilità necessaria senza la quale ogni altra condizione, intenzione, progetto su noi e sul mondo non può avere soddisfazione. Tempo da investire nell’esercitare il nostro naturale diritto-dovere di soci naturali di società. Interesse questo personale, ma legato giocoforza ad una rivendicazione sociale, fatta in società.

Speriamo di non dover buttare via un altro secolo e mezzo prima di capirlo. Anche perché il tempo, per noi, ha questa antipatica abitudine, ad un certo punto finisce.

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CRITICA DELLA RAGIONE CINICA.

Visto il diluvio di parole e la mancanza di analisi a grana fine sulla guerra, che qui circoscriviamo a puro fatto militare, mi sono preso la briga di capire meglio e condivido il tentativo.

Metodo: ho preso la due cartine dall’Institute of Study of War, think tank americano finanziato dai principali poli produttivi del complesso militare-industriale americano. Non sono dissimili da quelle di altri enti (tutti anglosassoni) e vanno trattate all’ingrosso. La prima è quella al 14 marzo, la seconda è quella del 25 aprile. Su quella più recente ho incollato il profilo dei territori del sud-est scontornato da quella del 14 marzo. Con il tratteggiato nero ho evidenziato i territori che gli ucraini avrebbero, più o meno, perso in circa l’ultimo mese e mezzo. Ne hanno anche ri-guadagnati, a nord dove i russi si sono ritirati dal dopo dell’incontro-trattativa in Turchia che pure aveva acceso qualche speranza di pace. Molto all’incirca, si potrebbe dire che gli ucraini hanno riavuto territori dai russi per una estensione più o meno pari a quelli che hanno perso, in seguito, a sud-est. In particolare:

A. Una penetrazione verso Mykolayiv e che include Kherson che proprio ieri i russi hanno affermato di aver consolidato definitivamente (secondo loro).

B. Una penetrazione avanzata da sud a nord sull’asse di Mariupol. A scala usata dal ISW, sarebbero ad occhio circa 100-120 km che allontanano definitivamente gli ucraini da ogni velleità di arrivare a Mariupol.

C. L’avanzata più importante che porta ad una conquista di circa l’80-85% del Lugansk. Sempre verso nord un inspessimento dei territori in direzione di Kharkiv, la seconda città per popolazione dell’Ucraina.

Si noti che il confine di conflitto a nord di Donetsk è rimasto praticamente invariato. Lì, nella sacca ancora in mano ucraina, dicono si concentrino i migliori 40.000 uomini delle armate di Kiev.

A proposito del “diluvio di parole” e di analisi sostituite da propaganda, si può notare un altro fatto non espresso da queste cartine. La versione dominante dei fatti dice che l’iniziale, presunto, blitzkrieg a nord sarebbe fallito per l’incrocio tra incapacità di pianificazione e logistica russa e la inaspettata resistenza ucraina. Non mi voglio spacciare per un esperto di studi strategici e militari quale non sono. Ma se si va sul link dell’Istituto (qui) e si cercano le cartine della prima settimana di conflitto, si vedrà che il vero blitzkrieg c’è stato, solo che era a sud, davanti la Crimea. A logica rivelata nel proseguo dei fatti, si potrebbe anche dire che quello a nord sembrerebbe esser stato un diversivo per distrarre le difese ucraine, al fine di penetrare largamente, velocemente e senza molti danni, dove invece interessava strategicamente di più. Tutto ciò, ripeto, non per scendere sul piano dalle analisi militari a grana fine, ma solo per evidenziare proprio la mancanza di analisi militari a grana fine, sostituite da agit-prop che hanno sedimentato nelle opinioni pubbliche “verità” che tali potrebbero non essere. Tali “verità” date spesso per assodate, vogliono evitare si conosca davvero “il nemico”, le sue logiche, le sue capacità, il che è un pessimo segnale.

Commento: ora, tutto si può dire tranne che l’Ucraina stia vincendo la guerra, almeno misurando in territorio. Usando cartine dell’archivio di ISW, a parte i territori da cui si sono ritirati i russi per raggruppare truppe al sud-est e qualche puntino sulla cartina, non risulterebbero significativi territori riconquistati dagli ucraini per via militare nei due mesi di guerra, mentre ne risultano di persi.

Si consideri infine che la guerra, sul campo, si fa con le armi e con gli uomini. Il limite della forza ucraina è nel numero degli uomini che non può esser esteso a piacimento, per quanti “alleati” si contorni. Purtroppo, non sappiamo nulla della reale consistenza, della collocazione, dello stato di servizio dopo due mesi, del tono dell’umore dei soldati ucraini stante che parrebbe esser una squadra che ha perso molto più di quanto abbia realmente vinto. Ricordo che una parte dell’esercito è stata aumentata con la coscrizione obbligatoria e molti di quegli uomini sono mariti e padri di altre ucraine ed ucraini tra i 6 milioni di profughi espatriati. Ce li raccontano molto convinti di quello che fanno, ma si potrebbero anche nutrire dubbi.

Per carità, la guerra si fa anche se non soprattutto, a volte, con la propaganda e quindi ci sta assolutamente tenere l’umore alto, dire che gli ucraini sono d’acciaio e che la Russia non potrà che perdere perché è dalla parte sbagliata della storia e che l’Ucraina vincerà. Non è per questo che abbiamo fatto la verifica.

Volevamo invece capire la logica della guerra propriamente detta. È ovvio che l’enorme mobilitazione nei rifornimenti dei sistemi d’armi all’Ucraina da parte dell’Occidente a guida americana, porterà vantaggi. Ma sembrerebbero più vantaggi di resistenza che non vantaggi per una possibile controffensiva o forse più che una resistenza che tiene la linea, un attrito che rallenti l’avanzata. Ma anche fosse, una resistenza in vista di cosa? Dicono “avere più potere di trattativa”. Ma se hanno già perso più del doppio dei territori reclamati dai russi, che trattativa s’immaginano di fare? Qual è dunque il fine ultimo?

Kiev sostiene che il suo obiettivo è riconquistare i confini al 2014, quindi tutto ciò che ha perso in questi due mesi, più l’intero Donbass con evidente sterminio dei filorussi della regione in conflitto da otto anni, nonché la Crimea con sterminio locale dei russi e russofili. Un obiettivo che ci sembra, francamente, impraticabile.

Per carità, ripeto, la propaganda ci sta tutta in guerra. Ma visto che siamo spettatori interessati in quanto partecipiamo come alleati di Kiev, avremmo anche l’obbligo di capire meglio di cosa siamo alleati davvero. E su questo punto le cose non sono affatto chiare, mi sembra. Mi sembra solo chiaro che gli obiettivi vantati da Kiev siano semplicemente impossibili da conseguire. Di cosa, quindi, siamo alleati?

Un filosofo tedesco, Peter Sloterdijk, pubblicò a suo tempo una “Critica della Ragione Cinica” in cui sosteneva che “Cinico è colui che ammanta la propria azione (improntata al più duro, privo di scrupoli, calcolatore, realismo) con una giustificazione moralistica relativa al suo fine.” (all. 2). Ecco ci sembra ciò valga al nostro caso.

La giustificazione moralistica della guerra dal punto di vista occidentale ed ucraino è declinata sui principi della difesa della democrazia, dei valori di libertà ed autodeterminazione, dei diritti di resistenza di ogni aggredito che chiama alla solidarietà contro l’aggressore. Ma il sottostante realistico è portare vari colpi alla credibilità e consistenza di potenza russa da parte americana ed europea orientale e con ciò colpire l’intero fronte multipolare che è il nemico ultimo reale degli Stati Uniti. Quello ucraino è farsi pagare il servizio che prevede molti morti e molta distruzione materiale in patria, a fini reali quali abbiamo ipotizzato in un articolo precedente (Dal punto di vista di Zelensky), forse. Quello europeo occidentale non c’è, il comportamento europeo occidentale è solo figlio dell’impotenza geopolitica, con una implicita gara a chi perde più dignità in cui dispiace distinguere il governo italiano.

L’Ucraina non vincerà nulla, perderà anche più della Crimea e del Donbass ed avesse realisticamente accettato questo fatto sin dai primi giorni (il che non impediva all’Occidente di fare tutte le ritorsioni messe in campo contro i russi ed altre che ancora non ha messo in campo, per l’eternità ed oltre) avrebbe salvato molte vite e molta sua ricchezza e residua possibilità di avere un futuro. Così noi europei occidentali ci saremmo risparmiati l’ennesimo suicidio socio-economico-(geo)politico ed il mondo stesso avrebbe evitato la sua più pesante perturbazione dal dopoguerra dagli imprevedibili ed incalcolabili effetti finali (vedi allegato).

E dire che i cinici filosofici, in origine, ai tempi di Diogene, erano quelli che “avevano il coraggio di dire la verità” (parresia). Diogene fu quello che quando ricevette la visita di Alessandro Magno curioso di conoscerlo e pronto ad esaudire ogni suo desiderio per compiacerlo, si sentì rispondere dall’incurante filosofo adagiato a terra “scansati che mi fai ombra”.

Ecco a cosa serve la moderna ragione cinica, ad evitare i prezzi di dire la verità e conseguirne comportamenti conseguenti. In questo, la nostra ennesima bancarotta della ragione, il cui prezzo pagheremo molto caro, in molti modi, per molto tempo a venire, temo.

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DAL PUNTO DI VISTA DI ZELENSKY.

Avrete notato forse che Zelensky ha un preciso entourage e sono tutti mediamente giovani. Molti hanno studiato o lavorato in Gran Bretagna, qualcuno in America. Alcuni di loro zampillano dalle nostre reti televisive o in video on line e sono tutti dotati di capacità argomentativa non banale, sono molto decisi e cosa più importante, sono coordinati nel senso che sembrano usciti da una riunione di briefing in cui hanno condiviso tutti una unica linea. Si può ipotizzare esista una sorta di Zelensky & Partners, un gruppo coeso ed omogeneo di persone che condividono una precisa strategia politica per tenere il potere in Ucraina al fine di …?

Isoliamo questo soggetto collettivo, dimentichiamoci chi ha intorno come partner interessato (USA, UK, una parte dell’Europa orientale e dei vertici della burocrazia euro-unionista, l’oligarca Kolomoyskyi) concentriamoci sulle sue proprie ipotetiche intenzioni. Come forse saprete, questo gruppo è diventato un partito poco prima finisse la terza stagione della serie televisiva che vedeva Zelensky come protagonista. Si è presentato alle elezioni del 2019 e secondo quanto scriveva the Guardian tre anni fa quando ancora non eravamo arruolati: … con “poche informazioni sulle sue politiche o sui piani per la presidenza, basandosi su video virali, concerti di cabaret e battute al posto della tradizionale campagna elettorale” ottenendo un insperato 30%.

La geografia del voto di questo primo turno, lo collocava al “centro”, sia geografico che politico. Ad ovest i nazionalismi di Poroshenko-Timoshenko, ad est i filo-russi confezionati in partiti apparentemente più di “sinistra”. Un gruppo di giovani ben intenzionati, con tecniche di marketing e comunicazione mediatica molto “occidentali” ha incarnato una possibile speranza. Sappiamo che questa speranza stava scemando prima del 24 febbraio, gli indici di gradimento della Zelensky e Partners (Z&P) erano in discesa e la rielezione fra due anni era data come improbabile.

Non credo si possa pensare che la Z&P fosse solo una associazione di potere ovvero un gruppo che ha tentato e vinto il vertice della tribolata nazione. Come detto sono “giovani” e rampanti e sembrano animati da ideali forti, giusti o sbagliati che siano, sembrano un gruppo di giovani europei occidentali e filo-anglosassoni che si sono paracadutati in un complicato e declinante paese ex sovietico. Sono svegli, attenzione a rubricarli sotto la semplificata categoria dei “manipolati”, se lo sono (e certo lo sono) è perché hanno interesse ad esserlo. Ma per fare cosa?

L’UCRAINA PRIMA DELLA GUERRA: Prima dell’inizio della guerra, l’Ucraina era il 133° paese al mondo (quindi su 190 e poco più Stati) per pil pro-capite. In pratica, tra Guatemala ed El Salvador. Il peggior Paese dell’UE in questa classifica è la Bulgaria, 84°. Il risultato non cambia molto se usate il Pil PPP. A queste condizioni, l’Ucraina non sarebbe praticamente mai potuta entrare nell’UE. L’ammissione poi non avrebbe solo avuto a parametro questi indicatori quantitativi e su quelli qualitativi come trasparenza, corruzione, sostenibilità e prospettive, le cose sarebbero andate -se possibile- anche peggio.

Dal 2000 al 2021, l’Ucraina ha perso il 15% della sua popolazione per migrazioni, scarsa fertilità (la più bassa d’Europa) ed elevata mortalità tra gli anziani. È dal 1994 che l’Ucraina perde popolazione. Hanno anche perso la Crimea e forse potremmo metterci anche le due repubbliche popolari, sempre che non si debbano aggiungere abitanti dei vari territori che gli ucraini hanno già perso e continueranno a perdere nel proseguo del conflitto. L’ultimo censimento è ancora al 2000 e dichiarava 42 milioni di abitanti, ma altre stime più aggiornate (fatte dagli ucraini stessi) scendono fino a 32 milioni. Gli attuali 6 milioni di profughi, da vedere poi quanti di questi rimarranno fuori o rifluiranno verso casa, sarebbero ad occhio un altro -15% di popolazione in soli due mesi e sempre che si fermino qui.

Hanno anche la più alta percentuale di popolazione femminile in Europa dopo la Lituania e il secondo posto per tasso di mortalità dopo i bulgari. Molte donne quindi ma anche penosi indici di diseguaglianza di genere, 88° posto su 189 paesi secondo l’ONU . L’alto tasso di mortalità è dovuto alla congiura di diversi fattori quali l’inquinamento atmosferico dove c’è industria pesante, alcol, tabagismo, cattiva alimentazione, cattiva qualità del sistema sanitario nazionale.

Come saprete, la composizione etnica è mista con due poli, pienamente ucraina e tendenzialmente di cultura balto-slava europea all’estremo occidente, più russofona-fila all’estremo oriente. Il fiume Dnepr taglia in due il continuum ucraino e funge da separatore tra due diverse composizioni socio-demo su molti item.

A livello di criminalità, l’Ucraina è storicamente attiva la tratta di giovani donne avviate alla prostituzione in Europa mentre dai tempi della grande svendita degli asset militari sovietici dopo il 1991, è altrettanto attivo il traffico d’armi. Global Organized Crime Index nel rapporto 2021, quotava l’Ucraina come “il” o “uno dei principali” mercati d’armi in Europa, soprattutto piccoli e medi calibri e relative munizioni derivate dall’incessante flusso di armamenti proveniente dagli Stati Uniti da almeno venti anni. Armi ridistribuite al terrorismo e criminalità di mezzo mondo. È chiaro che l’attuale flusso proveniente soprattutto dall’Europa restia ad impegnarsi su armi di maggior peso, darà altro impulso al traffico. Quanto alla prostituzione e la tratta di esseri umani il problema è così vasto e profondo da meritare addirittura due specifiche pagine di Wikipedia.

Il rapporto 2013 del Dipartimento di Stato americano INCSR (International Narcotics Control Strategy Report) classifica l’Ucraina come uno degli hub chiave per il traffico di droga internazionale ed il primo hub per l’entrata in Europa di cocaina ed eroina tramite i porti di Odessa e Mariupol. La mafia ucraina è in solidi affari (armi, droga, donne) specie con la ‘ndrangheta calabrese.

Due anni di Covid con uno dei bassi indici assoluti di vaccinazione, hanno prodotto statistiche severe e gravi impatti sulla già claudicante economia e relativa organizzazione sociale.

Come segnalammo qualche post fa, l’Ucraina non era ritenuta un paese democratico dal the Economist nella sua speciale classifica condotta dal 2006. L’Ucraina era ritenuto il paese all’ 86° posto del Democracy Index, tra le Fiji ed il Senegal, qualificato come “regime ibrido” . Dal 2020, il Governo ha intrapreso una serrata lotta con la Corte costituzionale che ne limitava l’azione volta a porre leggi più rigide e severe, saltando però le cautele costituzionali. Complice la guerra, ha potuto arrestare e far sparire molta gente scomoda, silenziando i media non conformisti, mettendo fuori legge partiti nemici. La legge marziale è oggi prorogata almeno fino a fine maggio.

La diagnosi problematica è che l’Ucraina era sostanzialmente un paese fallito. Troppo grande, troppo poco popolato, troppo etnicamente disomogeno, troppo asimmetrico nei generi, troppo povero, strutturalmente troppo agro-industriale quando l’Occidente invece si è sviluppato nei servizi, troppo influito dai minacciosi vicini russi. Con troppi interessi di mezzo come nel sistema degli oligarchi tra cui un congruo numero di veri e propri delinquenti dediti al traffico di donne, armi e droga, tra l’altro spesso proprietari di vari mezzi di informazione. Un sistema del genere non aveva alcun futuro possibile e senz’altro nulla che potesse interessare il gruppo dei giovani Zelensky & Partners. Decennale e molto improbabile il processo necessario a riformarsi per entrare nell’UE. Che fare?

L’UCRAINA DOPO LA GUERRA? L’obiettivo strategico di Zelensky è stato dichiarato ai primi di aprile. Z. ha dichiarato l’obiettivo di far dell’Ucraina una “Grande Israele”. Lasciate perdere il lato religioso del riferimento e concentratevi su quello geopolitico e strategico-economico. Israele è un paese non in pace, permanentemente all’erta contro nemici di circondario. Questo è un ottimo ordinatore interno perché semplifica la vita politica, quantomeno tutti gli israeliani sono uniti nell’idea di doversi difendere da vari nemici di circondario. La pratica dell’obiettivo prevede una militarizzazione importante della vita civile e soprattutto una chiara direzione di sviluppo dell’attività economica.

Questo ha fatto di Israele quello che un fortunato saggio americano del 2009 definì una “Start up Nation”. I primati tecnologici, di brevetto e sviluppo, di Israele nelle nuove tecnologie è universalmente riconosciuto e si ricordi che se queste attività partono da strategie militari, le ricadute civili sono anche importanti.

La stessa questione poco chiara dei bio-laboratori in conto terzi che già affollerebbero l’Ucraina disegna una possibilità di ospitare le forme di ricerca più avanzate ma anche più rischiose, ad esempio sull’A.I., un po’ come hanno tentato di fare i sauditi in cerca anche loro di un futuro, nel loro caso post-petrolifero. Elon Musk gli ha già portato i terminali per Starlink. La ricerca avanzata in questi campi rischiosi da parte di USA, UK, Francia, Germania, ha bisogno di de-localizzare i rischi che non si possono correre nel proprio paese.

Gli investimenti militari e una mentalità orientata all’efficienza digitale, necessaria per qualunque guerra, potrebbero rappresentare lo stesso motore di innovazione per l’Ucraina, che già può contare su quattro “unicorni” – GitLab, Bitfury, People.ai e Grammarly – e su un ecosistema che è cresciuto di dieci volte negli ultimi cinque anni, passando a un valore complessivo di oltre 600 milioni di dollari e 146mila brevetti. Unit.city a Kiev è già oggi il più importante parco tecnologico dell’Europa orientale. Si tenga conto che questo posizionamento, è lo stesso occupato da dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia dalle tre repubbliche baltiche che, tra l’altro, son quelle che hanno registrato gli indici di crescita economica più importanti in Europa, negli ultimi decenni. Ma, come nel caso israeliano o delle repubbliche baltiche, questo tipo di sviluppo economico centrato sull’ICT, può reggere solo una demografia più giovane e contenuta di quella precedente.

L’UCRAINA IN GUERRA. La guerra, si sa, è un acceleratore. Nelle complesse transizioni storiche, la guerra ha svolto sempre il ruolo di “distruzione creatrice”, concentrare dinamiche disordinanti in poco tempo pagando con morti e distruzione materiale, una sorta di necessaria operazione senza anestesia, dolorosa ma necessaria.

Z&P si sono immediatamente mostrati pronti al conflitto e lo hanno gestito, certo anche aiutati, in modo davvero abile. Z&P avevano ed hanno bisogno della guerra per fare o far fare ai russi, operazioni di semplificazione dell’Ucraina. Rimpicciolire un territorio ingestibile e irriformabile. Chiarirne la composizione etnica rendendola omogenea. Diminuire la popolazione accettando la perdita di numeri per cessione territori ai russi e profughi scappati da tutte le parti. Servire la causa anglosassone sia di messa in profondo stress della Russia, sia della sua attuale dirigenza (Putin), sia di fargli usare la “tragedia ucraina” come perno per i regolamenti di conti nella battaglia di grande strategia tra bipolarismo e multipolarismo ottenendo in cambio protezione, gratitudine ed investimenti futuri per fare della martoriata Ucraina un caso di “futuro vincente” il che presuppone vari, futuri, piani Marshall. Ottenere in contropartita anche la necessaria spinta da parte americana verso la recalcitrante Europa, ad abbracciarne la causa al punto da comprimere i complessi passaggi per la piena entrata nella sfera europea che è l’obiettivo primario. Magari non subito nel cerchio centrale della confederazione unionista, ma in quello allargato di cui si è già cominciato a discutere. Assorbire nel progetto i nazionalisti occidentali, distruggere l’ordito economico-sociale precedente, fare perno su una nuova classe militare forgiata in una guerra di resistenza e quindi potenziata in armi, logistica e potere.

Tutto ciò presuppone due cose sul campo. La prima è che gli ucraini sanno benissimo che perderanno formalmente la guerra coi russi al di là dei proclami, come si è lasciato sfuggire il noto gaffeur Boris Johnson rilevando quello che i suoi servizi e militari gli hanno spiegato a telecamere spente. Non è in discussione che l’Ucraina perderà o il sud-est o la parte ad est del Dnepr, si tratta solo di vedere come ed in che tempi. La seconda è che una guerra persa secondo i canoni normali di conteggio di territori persi, ordine perso, morti e distruzioni, può esser una guerra vinta se l’obiettivo è avere una Ucraina semplificata, compattata, assunta nell’alveo occidentale, velocemente, senza se e senza ma. Si compra un futuro pagandolo con la svendita del passato.

Non solo quindi la guerra sarà lunga, il tempo necessario a far pagare ai russi prezzi su prezzi sempre più alti come desiderato dagli sponsor anglosassoni, ma non finirà mai formalmente. La Nuova Ucraina in rampa di lancio per una modernizzazione 2.0 accelerata, avrà bisogno sia di ritenersi in “conflitto permanente”, sia di tenere attorno a sé i suoi preziosi alleati, sia internamente sospendere le normali convenzioni socio-politiche per procedere a tappe forzate verso la transizione di fase alla nuova terra promessa, la “Grande Israele”.

Mi rendo conto che questa è solo una articolata ipotesi, la questione -come vedete- è molto complessa, è sempre una questione di numero di variabili di cui tener conto e di come queste giocano assieme in un dato contesto di cui non si governano tutte le dinamiche, un gioco rischioso. Ma dietro ogni conflitto ci sono nodi e bisogno di scioglierli. Conosciamo forse la visione dei nodi dal punto di vista russo ed anglo-americano, da quello degli europei orientali e delle non perfettamente allineate tra loro élite di Bruxelles (Michel, von der Leyen, Borrell) e dei paesi europei occidentali, Francia e Germania in testa.

Ma sul campo giocano coi morti solo russi ed ucraini, capire la strategia di questi ultimi è indispensabile per capire meglio cosa succede e poter ipotizzare cosa succederà. Anche se poi ciò che succederà in concreto sarà comunque il frutto dell’interrelazione di molte più variabili di quante ne prevedano le strategie dei vari attori e delle nostre stese capacità di leggerle e prevederne l’esito.

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È IL MOMENTO DI FARCI UNA DOMANDA: CHE DOMANDA DOVREMMO FARCI?

L’intero apparato di gestione e controllo del pensiero e conseguente dibattito pubblico, ha ricevuto precise indicazioni dagli strateghi della psicologia comportamental-cognitivista. Per tutti costoro c’è una sola domanda da farsi: che fare davanti ad una ingiustificabile aggressione che provoca morte, distruzione e dolore ad un aggredito?

Qualcuno segnala la stranezza di farsi tali domande oggi quando non ce le siamo mai fatte e continuiamo a non farcele per molti altri tristi casi di conflitto planetario. Altri pensano forse che l’aggressione se non giustificabile andrebbe almeno contestualizzata. Qualcun altro pensa forse che anche l’aggredito non è esente da responsabilità pregresse. Altri infine sospettano che tra aggredito ed aggressore c’è un terzo incluso che andrebbe specificato per capire meglio la situazione per poi prender decisioni. C’è anche chi la mette sul pragmatico e cinicamente invita a farci i conti di quanto costa rispondere in un modo o in un altro a quella domanda. Ma è davvero questo la domanda più importante da farsi? O forse la domanda da farsi prima di ogni altra è proprio “ma chi ha deciso che è questa la domanda più importante da farci?”. Potrebbe esser il caso invece di farci questa seconda domanda e scoprire che rispondendo a questa, avremo anche più conseguente e logica risposta a quella che ci viene imposta.

Vediamo un po’. Vari istituti di ricerca d’opinione, segnalano concordi che c’è una evidente asimmetria tra quello che il parlamento italiano sta decidendo su i fatti relativi la guerra in Ucraina (non solo armi sì o no), unitamente alle unanimi convinzioni dell’intero apparato di gestione e controllo del pensiero e conseguente dibattito pubblico e l’opinione prevalente del popolo italiano. In una recente trasmissione televisiva un ambasciatore ed un oligarca occidentale hanno candidamente ammesso che la gente normale di queste cose non capisce niente e quindi c’è chi deve decidere per loro. Ma da qualche giorno, emerge anche un’altra questione interessante.

L’istituto SWG ha fatto una ricerca sui sentimenti geopolitici degli italiani. Tra il vissuto precedente il conflitto e l’oggi emergono significativi scostamenti. Sono crollate le simpatie verso la Russia dal 18% al 2% e quelle verso la Cina dal 22% al 3%. Sono salite quelle verso la Francia dal 15% al 38% e quelle verso la Germania dal 12% al 34%. Quindi si rileva un significativo ri-orientamento dall’Italia soggetto individuale con sguardo interessato verso altri mondi, all’Italia che riconosce comunanza di interessi coi consimili europei. Da notare che se il frame è l’Europa, questi sono stati a lungo vissuti come concorrenti, se il frame si allarga al mondo allora le differenze che notiamo con questi vicini ci fanno sembrare questi prima concorrenti, dei fratelli quasi naturali.

Ma il dato più interessante è forse un altro. La precedente postura di una Italia curiosa e libera di coltivare desiderio di relazione con questo o quello, inclusi i russi ed i cinesi, era pensato e vissuto dentro un fortissimo senso di coappartenenza con gli Stati Uniti d’America. Gli italiani consideravano gli USA il Paese più amico in assoluto ben il 44% pensava questo, più di Russia, Cina, Francia e Germania e di non poco. Oggi invece, questa percentuale è al momento scesa al 27%, ben meno del nuovo sentimento di neo-fratellanza europeo-occidentale. È la prima volta in settanta anni che l’Italia si sente più europea che americana e scommetterei sul fatto che questo trend continuerà ad approfondirsi.

Annusa l’aria al volo il direttore di una testata on line ora anche stampata settimanalmente, TPI. Una testata con una sua indipendenza che non la fa comunque essere nel campo “alternativo”, ma neanche del tutto in quello “mainstream”. L’articolo di fondo di Gambino titola: “Perché in questa guerra non possiamo non dirci anti-americani”. Gli USA vogliono indebolire se non far collassare la Russia e non è detto questo sia del tutto anche il nostro interesse. Gli USA vogliono egemonizzare l’intera Europa subordinandola ai propri interessi e spaccarla tra parte orientale ed occidentale e questo non è un nostro interesse. Gli USA vogliono colpire indirettamente per il momento la Cina e questo, ancora, non è il nostro interesse specifico visto che l’altro Europa è niente più che un mercato e logica del mercato vuole che vi siano forti interessi a sviluppare scambi con la Cina e l’Asia in generale che per via di ragione geografica non rappresenta, né mai potrà rappresentare per noi un problema. È da Marco Polo che rappresenta invece una opportunità, ma se si studia “Le vie della Seta” dello storico P. Frankopan anche ben da prima di Polo. Segue una densa analisi di come l’ordine mondiale versione americana, sia sempre più contradditorio e semmai utile solo agli americani e soprattutto come questa loro utilità confligga sempre più con la nostra.

Riguardo la domanda che sembra esser l’unica che ci dobbiamo porre, ne consegue ciò che ha sostenuto anche il gen. Tricarico ed altri tra i pochi che hanno voce indipendente in questi tempi bizzarri: Biden alzi il telefono e chiami un tavolo diretto di trattativa con Putin che non aspetta altro poiché tutto quanto sta succedendo riguarda più loro giochi di potenza di primo livello che non l’Ucraina ed il nostro inviargli o meno armi e tagliarci i consumi di energia sprofondando in profonda recessione e prossimo conseguente disordine sociale, con finale arruolamento in una Terza guerra mondiale che noi europei occidentali non vogliamo in alcun modo. Dobbiamo quindi mandare armi a Zelensky o un telefono a Biden?

La domanda da farci allora è “a chi stiamo andando appresso?”. Gli USA hanno in programma un potete riarmo del mondo e quando ci sono le armi, di cui sono i leader mondiali di produzione, poi queste vanno usate. Hanno sovvertito in un attimo alleanze consolidate con mezzo pianeta, tra cui il mondo arabo e buona parte di quello asiatico, inclusa l’India. Hanno fatto impazzire i prezzi dell’energia facendo infiammare l’inflazione. Hanno tentato di spaccare l’ONU, tra l’altro non riuscendoci. Dopo averci rimbambito per trenta anni con le meravigliose sorti progressive della globalizzazione, dopo essersi rimpinzati di soldi a livello delle loro esigue élite, ora hanno deciso che noi europei dovremmo commerciare solo con loro perché tutti gli altri sono “impuri”. Hanno un Presidente con un figlio che trafficava con investimenti in gas e laboratori bio in Ucraina e chissà che Zelensky e la sua cricca non lo ricatti con carte imbarazzanti. Un Presidente che ha sfondato il minimo storico di gradimento già sfondato da Trump, una macchietta presa in giro da mezzo mondo perché si vede che l’età non gli consente più di dirigere i molteplici e complessi interessi del suo Stato-potenza. Ma se è evidentemente incapace di svolgere i suoi compiti chi altro li svolge per lui? È stato eletto questo “dietro di lui”? Che agenda ed interessi ha? Un Paese che ha la più asimmetrica distribuzione di ricchezza interna del mondo occidentale e la conseguente più ampia popolazione carceraria del mondo, cosa ha di fondo “in comune” con noi? Un Paese che ha fatto 34 conflitti armati dal dopoguerra, per non parlare dei “colpi di Stato” e “regime change”, nonché varie proxy-war.

Si chiama geopolitica perché la geografia e la geostoria contano. Gli Stati Uniti sono su un’altra piattaforma continentale, così i canadesi. Gli inglesi sono su un’isola che dalla favola di Mandeville in poi (ma già da Enrico VIII) guarda all’Europa in maniera problematica e per nulla famigliare. Australiani e neozelandesi sono in mezzo ad un altro oceano e pure in un altro emisfero. Personalmente non amo le definizioni in negativo (una identità non si determina per esser “anti” un’altra) quindi non mi sento antiamericano. È sudditanza psico-culturale anche questo porre l’altro come qualcosa verso il quale si deve esprimere la differenza per trovare la propria identità.

Penso invece ci si trovi in una nuova ed interessante congiuntura storica, quella in cui occorre domandarci: “noi” chi siamo? Prima di elaborare, discutere e condividere una intenzione, la risposta al fatidico “che fare?” dovremmo capire chi è il soggetto, chi è questo “noi”. Un mio vecchio amico, diceva che più che di “progresso”, dovremmo porci il problema dell’”emancipazione”. Prima di domandarci da che parte andare e cosa fare, domandarci chi siamo anche perché è rispondendo a questa domanda che ogni altra va di conseguenza.

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OH, MON DIEU!

Nella foto, Mrs Europa rimane colpita da qualcosa che i nuovi dioscuri ucraini a difesa dei valori della civiltà occidentale hanno voluto mostrarle, il succo della antica civiltà a cui apparteniamo è tutta in questa foto.

Allarghiamo il frame. S. Karaganov intervistato dal Corsera (capo del Centre for Foreign and Defense Policy di Mosca) ha detto che quella contro l’Ucraina è una guerra in buona parte anche contro l’Europa. Ma il tono dell’articolo risente molto delle contingenze tematiche che ha voluto dargli in Corsera secondo le scansioni concettuali della propaganda odierna. Ripulendo queste parti di nessun vero interesse, proviamo a ridire quello che ha detto Karaganov in altra maniera.

L’Europa è al contempo una definizione geografica ed una definizione politica. Quella geografica arriva sino agli Urali ed include quindi la Bielorussia, il grosso del popolo russo ed un pezzetto di Kazakistan, più Armenia, Georgia e Azerbaijan al confine sud-est caucasico. Una cinquantina di stati, un quarto di quelli del mondo, sebbene la popolazione sia solo un decimo. La definizione politica invece riguarda solo 27 Paesi per un misero 5,4% della popolazione mondiale. L’attuale conflitto, oltre ai contenziosi specifici russo-ucraini, a quelli storici di potenza militare tra USA e Russia e quelli del “gioco di tutti i giochi” tra Stati Uniti e Resto del mondo, se prendiamo il solo punto di vista russo, è anche se non soprattutto un conflitto tra la definizione geografica e quella politica di Europa.

Europa è il problema da cui scaturì una Prima ed una Seconda guerra mondiale, nonché i quattro decenni di Guerra fredda, così come oggi è lì dove minaccia di potersi palesare il prima impensabile “non c’è due senza tre”. Due i problemi di Europa: 1) l’estremo frazionamento che ha portato in una storia di almeno cinque secoli a produrre una pletora di staterelli corrispondenti o meno ad una più vasta pletora di etnie -vere o presunte- quali non si ritrova in nessuna altra parte del mondo per densità di un piccolo spazio; 2) tale ricchezza varietale, come sempre avviene in questi casi di complessità, è stata la causa di una invidiabile ricchezza storico-culturale, che ha anche un corrispettivo economico, ma non davvero politico. Quella che chiamiamo “Unione” è una semplice confederazione economica, un’area di libero scambio che ora anela anche di dotarsi di una forza armata, una area di libero scambio armata, un assurdo storico che poteva venire in mente solo ai liberali.

Dal 1991, Europa va letta nei suoi Stati rispetto al problema russo, visto che UE non è mai stata, né mai sarà un soggetto geopolitico. L’intera Europa balto-orientale è stata, comprensibilmente, una area profondamente anti-russa. Qui si deve certo considerare l’esperienza Patto di Varsavia, ma anche la paranoia di vivere accanto ad un Paese immenso, militarmente praticamente invincibile, con 6000 testate nucleari. Non si sottovaluti questa condizione, è obiettiva. Forse questa parte di Europa esagera a volte, ma pone anche un problema reale: quale convivenza con uno Stato immenso, demograficamente da solo un terzo del resto del sub-continente, nucleare e con -storicamente-, talvolta, una propensione ad esondare dai suoi confini? A questa domanda, l’Unione ha fatto fatica a rispondere.

Ci hanno provato gli Stati di seconda fascia lungo l’asse longitudinale est-ovest. La Germania ha intrattenuto con la Russia, negli ultimi trenta anni, rapporti di interdipendenza. Storica poiché risalente al XVIII secolo, la relazione culturale GeRussia, alla base poi come logica geopolitica anche del patto Molotov-Ribbentrop sostenuto da tutti i geopolitici tedeschi del tempo ed infranto dal solo Hitler che di geopolitica capiva niente e ne ha pagato le conseguenze. Nel tempo recente, i sedici anni di Merkel, hanno fruttato discrete relazioni ufficiali e calde relazioni ufficiose, tra cui il primo ed il secondo North Stream al cui capo sedeva addirittura un ex-Cancelliere, G. Schroeder. Lo schema, ad un certo punto, prevedeva un South Stream, a cui capo doveva sedere Prodi, ma la forte contrarietà americana e dell’Europa nordica mossa da Berlino, ha cassato il South Stream in favore del raddoppio del North Stream.

Europa ha anche questa condanna, nessuna delle sue parti ragione come sistema, ma solo come parte che se ha convenienza si comporta come parte di un sistema, se non ce l’ha ritira fuori l’egoismo strategico nazionale.

I buoni rapporti tra Italia e Russia erano la seconda declinazione di questa seconda fascia longitudinale, inclusa la oggi censurata vendita di armi italiane ai russi fatta da Renzi. La Francia lo stesso, fino alla temeraria dichiarazione euroasiatica di Macron del 2019 su una Europa da Lisbona a Vladivostok. Ci sono poi altre declinazioni tra OSCE, G8 e tentativo di normalizzare le relazioni strategiche coi russi e molto altro ma saltiamo per sintesi.

Fino a qui, l’allargamento della NATO ad est non era di per sé un grande problema. Si ricordi che i baltici NATO confinano per due terzi con la stessa Russia da ben diciotto anni e nei fatti non gli è mai fregato niente a nessuno, russi compresi.

Problemi sono nati proprio con la questione ucraina, quella che risale almeno al 2014 se non prima. Anche qui abbiamo un comportamento ondivago della Germania e di altri paesi europei pupazzi degli americani, ma alla fine, i russi volevano salvaguardare la strategia della relazione coi “partner europei” come ostinatamente ha continuato a chiamarli Putin fino ad un mese e mezzo fa. Tant’è che quando s’è provato a diplomatizzare la questione coi famosi “Accordi di Minsk I e II”, i due garanti super-partes scelti da ucraini e russi, furono proprio Francia e Germania. Fermiamoci un attimo sul punto.

Saprete forse che tali accordi non furono rispettati si dice da entrambe le parti. Non entriamo nel merito, non ci interessa, ci interessa un altro aspetto, anzi due. Il primo è che se leggete gli accordi capirete perché non sono stati rispettati, sono redatti in alcuni punti essenziali in modo così vago ed ambiguo che era ovvio portassero a due diverse interpretazioni laddove le intenzioni reali non erano sincere. Il secondo è che non rispettato l’accordo non è successo nulla da parte dei garanti. Ora, se vi ponete come garante di un accordo, avreste voi per primi dovuti spingere ad una sua più chiara definizione altrimenti garantite cosa? Poi, se non lo rispettano, avreste dovuto sanzionare pesantemente le parti, se fate l’arbitro dovete fare l’arbitro sanzionatore altrimenti che ci state a fare in campo?

Da allora, l’atteggiamento europeo è stato una lenta discesa impotente verso la minorità di fatto verso il protagonismo strategico americano che ha investito uomini, mezzi, azioni dirette ed indirette per creare l’anti-Russia a Kiev. In Ucraina, in questi anni, si è formata una dorsale di liberali, filo-anglosassoni, filo-fascio-nazi-nazionalisti come al solito arruolati come manovalanza per i lavori sporchi, con l’intento di provocare i russi e non solo. Oggi questa banda di golpisti soft che ci viene presentata come punta avanzata e militante della “democrazia occidentale”, è diventata improvvisamente il nostro fronte avanzato da sostenere addirittura militarmente, un vero e proprio scandalo politico e geopolitico che però non si può denunciare pena l’ostracismo più o meno violento dei liberali in momentanea sospensione della stessa liberalità. Del resto, è teorizzato alle origini del pensiero liberale, in Locke, il fatto che ciò che vale dentro il sistema liberale, non vale quando il sistema liberale combatte con il proprio esterno. Il liberale in conflitto esterno è previsto a livello teorico diventi illiberale per cause di forza maggiore.

I russi hanno provato negli ultimi mesi a giocare l’ultima carta rivelatrice per stanare gli europei vs gli americani, la famosa piattaforma che doveva portare ad una conferenza internazionale di chiarimento per una pace rifondata. Ma gli europei sono rimasti in impotente silenzio ed i russi ne hanno tratto le conseguenze. Alcuni leader europei hanno fatto telefonate, hanno fatto colloqui, hanno provato a tenere in piedi trattative, ma il fatto è che gli europei non hanno alcun peso negoziale, non possono decidere loro cosa avviene e non avviene in Ucraina o nell’ambito NATO. Gli europei singolarmente presi e se non ci sono americani nei paraggi, fanno e dicono certe cose, ma se ci sono gli americani fanno e dicono quello che gli americani dicono loro di fare e dire.

A questo punto, i russi ne hanno tratto dolorosa conseguenza. Che gli europei a questo punto si dibattano nelle loro contraddizioni per cui finanziano ed armano gli ucraini con un decimo di quanto pagano ai russi per il gas. Si prendano il peso delle sanzioni che faranno male loro almeno quanto ai russi se non di più. Si prendano gli aspettati milioni e milioni di profughi da gestire con la solita imbarazzata ritrosia. Per non parlare dei riflessi deflattivi e depressivi dei prezzi delle materie prime alimentari e minerali. Si rendano conto che sono solo pupazzi in mano al puparo anglosassone, versione americana o britannica, già proprio i britannici che li hanno lasciati senza rimpianti con la Brexit.

Gli europei non esistono, per questo non riescono a gestire la contraddizione tra la loro definizione geografica e quella politica che poi politica non è essendo un mercato da domani pure armato, stante che il dominio del mercato e delle armi è comunque anglosassone.

Cinque secoli di protagonismo storico e culturale europeo, naufragano in questo triste spettacolo di una signora dell’élite cosmo-tedesca con la bella “mise en plis” di ordinanza ben pensante che prova orrore per ciò che una banda di farabutti ucraini le mostra per indurre sdegno, riprovazione e armi, armi, armi.

Nel 1795, Kant provò a tratteggiare qualche ragionamento a base di ciò che potesse promettere una “Pace perpetua”, poteva esser una base da attualizzare e da precisare a condizioni di un mondo oggi ben diverso da quello di fine XVIII secolo. Ma oggi Kant lo leggono solo quelli del Battaglione d’Azov, “oh, mon dieu!”.

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QUANDO CHI STA PERDENDO SI PORTA VIA IL PALLONE.

In un precedente post abbiamo usato una immagine simbolo del mondo come un pallone oggetto di giochi di contesa. Oggi continuiamo con la metafora del sogno di possederlo tutto questo pallone-mondo e laddove la realtà intralcia i sogni, si può arrivare a sottrarre l’oggetto stesso del contendere. Se non vincerò al gioco di quel pallone, mi porto via il pallone o lo buco, così nessun altro potrà giocarvi, fine dei giochi.

Ieri abbiamo assistito in mondovisione, forse per la prima volta che io ricordi, ad una seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il nostro miglior uomo, nostro in quanto occidentali, ha arringato piuttosto arrabbiato il Mondo dicendo che se questa istituzione planetaria non è in grado di istruire un processo tipo Norimberga, se non è in grado di estromettere la Russia ed il suo fastidioso diritto di veto dal Consiglio di Sicurezza, allora tanto vale che l’ONU si sciolga ed ammetta la sua inutilità ed impotenza, lasciando il campo a qualche nuova forma ordinativa. Dopo settantasette anni, l’Assemblea dell’Umanità è stata arringata e sferzata da un ex comico ucraino che dopo aver invocato ripetutamente atti che porterebbero alla Terza guerra mondiale, dopo aver arringato e sgridato o parlamenti occidentali distribuendo via Zoom voti dei buoni e dei cattivi, dopo aver detto al parlamento degli ebrei israeliti di decidere da che parte stare nella grande battaglia finale del Bene contro il Male nella piana di Armageddon, arriva a dire al Mondo che deve sciogliere questa sua unica istituzione che ne riflette la globalità, visto che non riesce a decidere da che parte stare.

A fine marzo 2022 si contano 59 guerre attive di varia intensità nel mondo, ma solo la sua conta. Quella in Libia ha fatto pare 15.000 morti mal contati così come quella in Yemen, la ventennale in Afghanistan ha fatto 50.000 vittime civili, forse 200.000 in Iraq, quella in Siria ha fatto circa 500.000 morti, ma nessuno ha mai avuto la possibilità di andare all’ONU a lamentarsene.

Il corrispettivo di Zelensky nel sistema finanziario globale, il nostro miglioro uomo in quel ambito, quel Larry Fink CEO di BlackRock, ha serenamente sancito quello che già i più sapevano ovvero la fine della globalizzazione. Il denaro si traferirà sul digitale e la transizione energetica va spalmata ad anni se non decenni, nel mentre si torna al carbone o si sdogana in fretta il nucleare. I prezzi aumenteranno violentemente, ma molte produzioni prima disperse nelle catene del valore globale torneranno entro i confini dei sistemi di civiltà. L’Europa dell’est, ad esempio, potrebbe diventare il posto migliore in cui riportare produzioni appaltate in Asia, contando su poche regole e basso costo del lavoro. Ma se qualcuno in Africa o in Sud America si mostrerà buon amico del nuovo sistema occidentale, potrà meritare anche lui qualche delocalizzazione.

Nel frattempo, il sistema occidentale scopre improvvisamente che tutto ciò porta a doversi difendere dalla barbarie circondante e quale miglior difesa dell’attacco? Eccoci, quindi, tutti obbligati a riarmarci, siamo improvvisamente tutti in guerra. Tutti ora a studiare i missili ipersonici, bio-armi, cosmo-armi, psico-armi, info-armi e chissà cos’altro.

La guerra è una istituzione umana che, contrariamente a quanto alcuni ritengono, compare tardi nella nostra storia. La più antica prova di un massacro da scontro armato che abbiamo, data a soli 13.000 anni fa. Se ne trovano pochissimi altri esempi sino a che l’atmosfera territoriale in quel della Mesopotamia si scalda, più o meno a partire da 6000 anni fa. Lì si manifesta quella densità territoriale che in rapporto allo spazio e sue risorse, è il motivo per cui facciamo guerre ovvero pratica di violenza tra gruppi umani. Da allora, non abbiamo più smesso.

Finita quella ucraina scommetto sul Polo Nord, tanto lì non ci sono spettatori e ci si potrà darsele di santa ragione. Ci sono 412 miliardi di barili di petrolio e gas fossile, praticamente il 22% delle riserve globali, per un valore totale di 28.000 miliardi di dollari, più uranio, terre rare, oro, diamanti, zinco, nickel, carbone, grafite, palladio, ferro e le insidiose rotte della via della Seta del Sauron pechinese appoggiate dagli orchi russi.

Gli Stati Uniti debbono risolvere l’impossibile equazione del come mantenere un sostanziale controllo diretto ed indiretto sul Mondo onde preservare il loro comodo rapporto tra una esigua popolazione (4,5% del pianeta) ed una cospicua ricchezza (25% del Pil mondiale). Questo, nel mentre l’85% del mondo, cioè il non-Occidente, cresce in demografia e ricchezza, da decenni e per previsti decenni futuri. Il mondo si è molto densificato negli ultimi settanta anni, quindi, che si fa?

La guerra, appunto. Prima si rinserrano le fila del sistema occidentale, poi si rompe il consesso mondiale a vari livelli (la rottura delle c.d. organizzazioni multilaterali dall’ONU al WTO, continuerà nelle prossime settimane a mesi, potete giurarci), poi ci si trova nel più semplice formato “Civiltà vs Barbarie”, poi sarà quel che sarà.

La costruzione del blocco delle democrazie di mercato procede spedito a dimostrazione del fatto che tutto questo è stato a lungo prima pensato, poi preparato, ora eseguito con visione ed intenzione assai decisa. Catturata l’Europa, ora la NATO si rilancia in chiave globale. Alla riunione NATO del 6 aprile, si è messo in agenda la possibile disdetta dell’accordo del 1997 che istituì il Consiglio permanente congiunto Nato-Russia che vietava all’Alleanza di schierare ordigni nucleari nelle repubbliche ex Patto di Varsavia. Svezia e Finlandia stanno per rompere gli indugi per entrare operativamente nell’Alleanza portando la minaccia diretta a San Pietroburgo. Nel documento finale compaiono aggregati alle intenzioni nord atlantiche, gli AP4 (Asia-Pacifico-4 ovvero Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Giappone) dopo che gli USA ed UK avevano già stretto l’alleanza militare diretta con Australia. Il Giappone, dopo lunga preparazione delle opinioni pubbliche che va avanti da qualche anno, sta valicando l’autoimposto limite al riarmo. Poi sarà l’aggiornamento dei Paesi a cui è concessa l’arma atomica. Il lungo post WWII è terminato, le potenze perdenti ora sono inglobate funzionalmente nel dominio a centro americano e così pioveranno miliardi per il riarmo di Germania e Giappone.

Tutto questo si sta svolgendo davanti ai nostri occhi attoniti. Villaggio globale, multiculturalismo, globalizzazione, soft power, governo mondiale, comunità di destino, cura della casa naturale comune planetaria ed una susseguente arruffata collezione di concetti che ancora un mese fa facevano sistema dogmatico di riferimento di ogni buon occidentale dal cuore d’oro, via. Ora il gioco diventa improvvisamente duro e quindi è il momento in cui i duri cominciano a giocare. Cominciando dal portarsi via il pallone perché o si fa parte della SuperLega delle democrazie di mercato di pelle bianca o non si gioca più. Si spara.

Non vi piace? Vabbe’, è previsto, almeno all’inizio un po’ di smarrimento è concesso. Ma vedrete che tra qualche mese, dopo bombardamenti psico-valoriali 7/24, finirete col schierarvi con Rampini. Basta con questa lagnosa autocoscienza critica occidentale, siamo la Civiltà guida ed un sordido mondo sempre più trafficato ci assedia. Tutti quindi a difendere le mura della città stante che, com’è noto, la miglior difesa è l’attacco. A livello di sistema-mondo, il motto ora è “la Russia fuori, la Cina sotto, nuovi alleati dentro”. Il regolamento di conti finale si sta preparando in gran fretta, per un Nuovo Secolo Americano questa è l’ultima chiamata e la risposta che vediamo approntarsi promette fuochi artificiali di grande effetto. Del resto senso comune dice che “non c’è due senza tre” e la prima impensabile WWIII, fa capolino all’orizzonte degli eventi che mai avremmo voluto vedere.

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IN CHE GIOCO SIAMO CAPITATI?

Useremo qui “gioco” nel senso di -interrelazioni competitive tra giocatori secondo regole per raggiungere uno scopo-. Dal “Grande gioco” (Medio Oriente – Asia) alla “Grande scacchiera” di Brzezinski, al mio più modesto “Gioco di tutti i giochi”, le questioni geopolitiche sono spesso state metaforizzate con questa definizione di “gioco”. La stessa Teoria dei giochi allude a questi sistemi di interrelazioni e può valere tra individui come tra gruppi. Nel senso comune, gioco ha tutt’altro sapore, ludico, disinteressato, di intrattenimento, di divertimento. A taluni, quindi, potrà risultare antipatico trattare guerre, conflitti e tragedie inevitabilmente umane con un termine così leggero. Ma, come detto, qui si usa il termine nel senso analitico. Il “gioco” in cui siamo capitati è dunque questo:

1. L’Occidente (Europa + Anglosassoni) è in una dinamica che dura da settanta anni in cui diminuisce costantemente il suo peso demografico (oggi solo al 16% sul totale mondo) ed in cui a minor velocità, ma non minor costanza, perde anche quote di peso economico e geopolitico. Questo perché il resto del mondo è costantemente e significativamente cresciuto negli ultimi settanta anni. Tutto ciò è previsto continuare con una certa ineluttabilità per almeno i prossimi trenta anni.

2. Tutto ciò si riflette su una inedita forma di ordine mondiale, l’ordine a più varietà detto “multipolare”. Da quello che sappiamo in cultura della complessità (tra cui la Teoria delle reti), che sia biologia o ecologia o sociologia ovvero in ogni campo che studia forme di vita, tutti i sistemi molto complessi oscillano intorno ad una media auspicata come forma di equilibrio (tipo omeostasi) e le loro dinamiche interne si ripartiscono tra più sottosistemi a più varietà. Ve ne sono di vari livelli e peso, con maggiori i minori connessioni, ma come nel caso della biodiversità, sistemi molto complessi sono resilienti nella misura in cui sono molto distribuiti. Sebbene ad alcuni dia fastidio la parola “resilienza” essa è omologa a resistenza solo che resistenza è concetto più proprio dei sistemi non vitali (ad esempio quelli fatti in ferro o cemento o altra materia), resilienza è più propria dei sistemi che assorbono perturbazione senza rompersi per poi ripristinarsi all’equilibrio che avevano prima della perturbazione, com’è nei sistemi vitali, a base cioè di varietà biologiche.

3. Questa maggior distribuzione di un ordine multipolare non è una scelta, è naturale laddove dai 2,5 mld del 1950 siamo passati ai 7,5 mld (e più) di esseri umani del 2020 con passaggio anche da sessanta circa a duecento Stati sovrani. Da 7,5 mld, diventeremo poco meno di 10 mld al 2050. Sono di pari aumentate le interrelazioni tra le varie parti, quindi in poco tempo, si è andato formando un sistema molto complesso che sta relativizzando il peso occidentale.

4. Tutto ciò insidia nel fondamento la forma della nostra civiltà che proprio dal dopoguerra ha vissuto un periodo in cui, partendo da un dominio sul mondo ancora molto forte che ereditavamo dai secoli precedenti, ciò che chiamiamo “era moderna”, ha poi assistito ad una sua lenta contrazione, con previsioni di ulteriore contrazione nella misura in cui vaste parti del mondo si emancipano e cominciamo ad avere interrelazioni incrociate tra loro di tipo cooperativo. Hanno relazioni di tipo cooperativo non perché siano “più buoni” di noi che invece tendiamo ad avere relazioni competitive, ma perché partono tutti da posizioni basse di potere ed interessi. Negli ultimi anni, si è venuta a formare una grande rete di questi sistemi non occidentali, dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa a cui oggi si sommano anche altri come Turchia, Messico, Indonesia o Pakistan, vari africani etc.) a molti altri, soprattutto in Asia che conta il 60% del mondo, con una sorta di naturale alleanza d’intenti: quella di promuovere l’avvento -che tanto ci sarà comunque- di un ordine multipolare che dia loro maggiori chance di sviluppo con un certo grado di autonomia.

5. Tale questione ha un lato drammatico non tanto per la civiltà occidentale nel suo complesso, ma per una sua componente, quella anglosassone ed in particolare americana. Gli Stati Uniti, infatti, dipendono più di chiunque altro dalle rendite di posizione che avevano nel 1950 che sia l’ordine World Bank – IMF o il dollaro o Wall Street o il primato tecnologico e quindi quello militare o il soft power (ma solo dopo l’hard power). Abituati ad ordini bipolari di cui loro erano il polo dominante, o addirittura vagheggianti un ordine unipolare, il multipolare è per loro un gioco che, comunque verrà giocato, promette perdita di dominio, potere, ricchezza. Ricordo che sono solo il 4,5% del mondo sebbene ancora facciano il 25% del Pil mondiale. Molto di questa esorbitante quota non è data da capacità competitive intrinseche come Cina, Giappone, Germania, India etc., ma da rendite di posizione dominante. Il tutto assomiglia molto alla posizione di semi-monopolio nelle questioni dei mercati. Trasferita nel campo geopolitico, il monopolista è disposto a condividere potere da oligopolio ma non da libero mercato e relativi ordini emergenti quali teorizzati nel concetto “mano invisibile”.

6. Arrovellatisi a lungo su come far fronte a tali eventi che, come detto, hanno una certa ineluttabilità, gli americani hanno di recente introdotto una versione di gioco che chiamano “democrazie vs autocrazie”. La faccenda non è così precisa, India e Brasile sarebbero in teoria democrazie mentre alleati dell’America come l’Arabia Saudita o la stessa Turchia nella NATO lo sono ben di meno. Ma il grande pubblico occidentale di queste cose sa meno di niente, è facilmente sensibile alle semplificazioni, gli slogan, la ripetizione ossessiva di concetti anche quando sono incredibili come “X lava più bianco”, viepiù si tratti di ideali. Si noti come, al di là delle imprecisioni, in verità i conflitti competitivi di potenza, avvengono del tutto al netto qualcuno sia o si ritenga essere “democratico” o meno. Nei conflitti di potenza, a volte si è adottato il vestito “civiltà vs barbarie” o “cristiani vs infedeli” o “sciti vs sunniti” o “popolo in missione per conto di Dio vs resto del mondo”, ma il vestito serve solo a coprire logiche materiali molto meno nobili.

7. Questo è il primo livello del gioco in cui siamo capitati, il più importante, il livello in cui si gioca la partita tra vari tipi di ordine uni-bi-multi polari. Il secondo livello è quello per il quale, gli Stati Uniti hanno da vari anni messo nel mirino la Russia come loro avversario più insidioso. Questo perché pur stando il fatto che il gioco è a più livelli (politici, geopolitici, economici, finanziari, culturali), i conflitti di potenza tra Stati sono regolati storicamente con le armi. In termini di armi, i russi sono molto inferiori agli USA, ma quel gioco specifico è determinato dall’ultima arma che potete mettere sul tavolo quando sarete spalle al muro. Tale ultima arma è l’arma atomica ed in quel specifico asset, russi ed americani sono pari. Questo porta gli uni e gli altri a doversi evitare dal conflitto diretto perché inizierebbero, anche non volendolo, a salire giocoforza i gradini della scala conflittuale in cui nessuno dei due può perdere se non perdendo la reputazione di potenza, motivo per il quale prima di perderla si arriverebbe ad usare l’arma proibita, quantomeno per pareggiare. Questo urta molto gli Stati Uniti anche perché i russi amano impicciarsi dei giochi militari di potenza americani aiutando a volte l’Iran o la Siria o la Libia o altrove secondo logica “il nemico del mio nemico …”, cosa per altro ricambiata come nella prima invasione russa dell’Afghanistan, del Caucaso o nel Centro Asia.

8. Ecco allora che gli Stati Uniti in proprio o versione NATO, hanno approntato da molto tempo la trappola di tutte le trappole: l’Ucraina. Una anti-Russia al confine della Russia quanto di più urticante possa esistere. Dopo le tante scaramucce indirette, l’Ucraina rappresenta il trappolone più promettente per le strategie competitive americane. E ciò ci porta al terzo livello, la guerra in Ucraina.

9. I russi hanno abboccato al trappolone non perché siano stupidi o pazzi o abbiamo il cancro alla tiroide, ma perché in termini concreti di pericolo strategico e di difesa reputazionale non potevano fare altro. Ad alcuni poco pratici del campo, “reputazione” suonerà strano. Non si tratta della reputazione della propria bellezza o giustezza o attrattività o idealità, si tratta della semplice reputazione di potenza, le fiches più importanti al gioco della competizione tra Stati in dimensione mondo. Non sono necessarie per esser giocate sempre, è il solo poterlo fare che fa ottenere reputazione di potenza.

10. A questo punto, giocatisi invece la reputazione che conta per noi occidentali che vestiamo i conflitti di potenza con aspirazioni ideali e valori, i russi sono diventati gli “intoccabili”, dei fuoricasta. Gli europei che condividono la massa continentale con russi, cinesi, indiani, musulmani ed africani (AfroEurasia) non potranno più avere relazione alcuna col nemico o i nemici degli americani da cui dipendono per varie ragioni ed in varie forme e quindi dovranno accorparsi al sistema americano molto di più di prima, a livello diciamo del dopoguerra. Non hanno infatti possibilità di giocare il gioco secondo propria intenzione, anche perché non hanno una unica intenzionalità. Così, dal primo al terzo livello di gioco, il nuovo sistema occidentale tornato ai fasti degli anni ’50, sarà in un campo di nuovo bipolare con tutti gli amici di qua e tutti i nemici di là, format guerra fredda con fine della globalizzazione ed il suo ridicolo “villaggio globale”, il riarmo, l’economia e finanza che prova a tagliare i ponti da ogni interdipendenza in cicli di feedback di rinforzo del sistema occidentale vs resto del mondo. Tutti a difesa dell’essenza dell’occidentalità. Quel sistema politico-economico che con sprezzo del ridicolo ama chiamarsi “democrazia di mercato”, una forma di potere oligarchico che però si veste da democratico per ratificare la propria conferma di “elezione”. Oligarchia sta per “potere dei pochi”. La nostra essenza ordinativa è difendere questo “potere dei pochi” come fosse l’interesse dei molti.

11. Nessuno si pone il problema di come aumentare i nostri tassi di democrazia interna, viepiù siamo tutti impegnati a difenderne la sua pallida versione occidentale dalle “aggressioni esterne” delle autocrazie. E’ il nemico esterno che detta le priorità e ci fa sentire tutti amici interni. Tanto poi in Occidente “democrazia” non ha né partiti che la promuovano, né intellettuali che la pensino in modo sistemico.

12. Ecco perché la guerra russo-ucraina è l’unica cosa che dovete osservare ovvero prender parte per “l’aggredito contro l’aggressore”, in gioco ci sono i valori occidentali. Tali valori ideali meritano il sacrificio di quelli più prosaici che pensavamo prima i più importanti. Dovete armare e finanziare gli ucraini che combattono nella piana di Armageddon per il Bene contro il Male e ringraziarli pure. Dovete tagliare il gas, prender milioni di profughi, sopportare l’aumento delle materie prime, inflazione, disastro economico, alimentare e sociale, disordine ai massimi livelli in AfroEurasia, tra cui le già precarie coste del Mediterraneo perché è in ballo l’ordine del mondo per i prossimi anni. Viepiù lo farete, viepiù i russi per raggiungere i loro imperscrutabili motivi strategici dovranno compiere atti immondi -veri o presunti nessuno potrà esserne certo per decenni- che distruggeranno ulteriormente la loro reputazione generale. Pagheranno in reputazione generale il loro ostinato perseguimento della difesa della loro reputazione di potenza. In più dovranno dissanguarsi materialmente, rischiare di non vincere e giocarsi anche la reputazione di potenza sul piano strettamente militare, dubitare in profondo sulla loro mossa, mettere in dubbio la loro stessa leadership. Se arriveranno spalle al muro, gli americani giurano che secondo i loro calcoli da Teoria dei giochi, non useranno l’arma della disperazione e quindi non sceglieranno “Sansone e tutti filistei” ma un più pragmatico, “meglio vivi che morti”, pagandolo in perdita relativa di potenza. Secondo loro è un rischio ben calcolato e poiché sono convinti che il calcolo è tutto nella vita, hanno adesso tecnologie e saperi per ottenere la massima calcolabilità. Il “caso ucraino” diventerà lezione per ogni altro vorrà sfidare qualche anno in più di dominio occidentale.

Attirati nella trappola ucraina, i russi dovranno perdere punti di reputazione, generale e di potenza, separandosi violentemente dagli europei catturati egemonicamente in un nuovo patto atlantico (la cui versione commerciale comparirà a breve), stabilendo il nuovo format “democrazie vs autocrazie” che bipolarizzi il mondo rallentando l’avvento dell’ordine multipolare. Sottraendo ai multipolari la fondamentale sponda militare russa. Ed è per questo che gran parte del mondo sembra non avere la nostra stessa sensibilità per quello che sta succedendo in Ucraina. Loro giocano al primo livello non al terzo.

L’eccezionale ed inquietante mobilitazione culturale, informativa e politica dei nostri oligarchi, è arma necessaria per compiere questo ambizioso disegno strategico che dia almeno un decennio (o più) di centralità di potenza-mondo agli Stati Uniti rinnovato centro gravitazionale del sistema occidentale in grado di mantenere ampie forme di dominio diretto o indiretto sul Mondo.

E di questo gioco che dovete scegliere come “fare il vostro gioco”, non il terzo livello o il terzo più il secondo, ma il primo più il secondo più il terzo, tutti assieme.

Detto ciò aggiungiamo però una avvertenza. quanto detto è un gioco serio, concreto e reale di cui siamo tutti pedine e giocatori, non spettatori terzi. A dire che il giudizio che date a tutto ciò, per non dire delle eventuali strategie che sceglierete, è meno semplice di quel che appare. Se ad esempio pensaste migliore l’idea che il vostro sistema naturale che è l’Italia, in tutto ciò abbia invece vantaggi in chiave multipolare, dovreste domandarvi se ha il peso per poter giocare quella partita. Se pensante che non lo ha ma lo avrebbe in teoria l’Europa, dovreste domandarvi come è possibile, anche solo in teoria, una strategia geopolitica per una cosa che non è uno Stato. Se pensante allora che l’Europa dovrebbe diventar uno Stato, dovreste rendervi conto la cosa non è nel novero del possibile, anche volendolo (e non lo vuole nessuno). Quindi c’è un problema di definizione del soggetto-giocatore da mettere in agenda. Se non pensiamo al soggetto, non avremo facoltà di poter scegliere alcun gioco.

Non è detto neanche che mandare armi in Ucraina sia sbagliato. In fondo anche l’esercizio di potenza russo è inquietante, in questa situazione -semplicemente- non avremmo dovuto trovarci, come non avremmo dovuto trovarci nella situazione pandemica o quella climatica. Ma poi mandare quante armi e di che tipo, condizionate a quale uso? Fino alla “vittoria finale” come annuncia Zelensky? Fino alla distruzione di tutta l’Ucraina e degli ucraini? E che senso ha il nostro comportamento che ha ignorato tutto quello che è lì successo almeno da otto anni, se non prima, svegliandoci solo quando gli eventi sono precipitati? Anche questo senso di urgente dovere nel partecipare finale, quando tale dovere dovevamo forse esercitarlo molto prima, andrà ripensato. Non si dovrebbe sentire l’urgenza oggi quando non la si è sentita prima o meglio, visto che la sentiamo forte oggi dovremmo anche criticarci sul perché non l’abbiamo sentita prima.

Come detto, allora, forse in certe situazioni dovremmo cercare di non trovarci perché “dopo” è tardi. Il nuovo mondo complesso ha questa doppia, inedita, caratteristica: tocca fare strategie per tempo e perseguirle per dominare gli eventi attesi in previsione. Fare previsioni e conseguirne strategie, due cose che non siamo culturalmente abituati a fare. Viviamo un mondo sempre più complesso in maniera eccessivamente inconsapevole, arriviamo tardi quando le condizioni di possibilità si sono strette all’emergenza, così saremo costretti a vivere nell’emergenziale permanente, con tutti i relativi stati d’eccezione per cause di forza maggiore che ne conseguiranno.

E non è detto neanche che sia sbagliato riarmarsi un po’. Queste del mondo multipolare sono “relazioni” e non si possono intonare se cooperative o competitive solo per decisione di un singolo relato. L’Egitto ha più della metà dei suoi cento milioni di abitanti sotto i 24 anni e nei prossimi mesi non avranno cereali da mangiare, potrebbero diventare un po’ aggressivi ed hanno una consistente forza militare, stanno lì davanti a noi e condividono il Mediterraneo. Ma se poi pensate che il riarmo dovrebbe agire a livello europeo, dovrete come detto sciogliere le questioni intorno alla costituzione non unitaria cioè intenzionale geopoliticamente, dell’UE. Forse dovreste prender atto che i nuovo assetti NATO stanno diventando sempre più anglo-nordici mentre noi siamo mediterranei. Allora forse dovremmo pensare ad un polo militare tra europei mediterranei e chissà se facendo cose militari assieme, non ci venga poi possibile e conveniente pensare di farne altre, trovando così una strada che ci suggerisca una soluzione al problema più generale del soggetto cui accennavamo prima.

Se foste “pacifisti” dovreste considerare che il mondo vi chiede cosa fare alle condizioni in cui si trova, se lo foste davvero avreste allora dovuto impegnarvi molto di più negli scorsi anni e decenni per far si che il mondo prendesse una piega cooperativa che non ha. Se non vi occupate del mondo poi non potete pretendere di dirgli come dovrebbe essere per soddisfare i vostri ideali di principio. Infine, se voleste invocare la pace, forse dovreste comprendere meglio a chi rivolgervi, capire quanti livelli di conflitto ci sono e tra chi. Fino a che Biden non alzerà il telefono, come già avrebbe dovuto fare e come si è sempre fatto nella guerra fredda tra i due arcigni contendenti, invitando i russi ad un tavolo di confronto su gli ordini mondiali, la guerra continuerà perché questo è quello che vuole l’America. Ma questa guerra infinita alla Russia è anche la nostra guerra?

Forse qualcuno dovrebbe rimettersi a pensare il concetto di Occidente come sfera di civiltà originariamente europea e quindi pensare a due Occidenti che hanno parti simili e parti dissimili (se non altro perché si ambientano in due geografie, quindi due geostorie ben diverse). Tale “distinzione degli occidenti” andrebbe prima portata avanti culturalmente, capire quanto le nostre culture sono ormai mischiate con canoni anglosassoni e quanta continentalità abbiamo perso. Ormai pare abbiamo tutti capito che siamo incappati in una svolta epocale, che stato ha allora il mostro pensiero? Vedete una svolta epocale anche nei nostri sistemi di pensiero o arriviamo all’appuntamento con sistemi vecchi che dovrebbero capire cosa nuove?

Se altresì pensate noi si debba prender atto degli andamenti del mondo ed accettare un ridimensionamento pilotato, allora dovreste ricavarne una nuova teoria della società in quanto le nostre società basate su ordinamenti economici si sono fondate su ordini precedenti in cui eravamo parte dei dominanti. Se invece pensate che la strategia americana coincide col vostro specifico interesse, siete a cavallo e non dovete farvi alcuna domanda e darvi alcun pensiero, basta vi lasciate andare all’odio per il nemico esistenziale, magari quello che la butta sul “complesso”.

Insomma, il gioco è complesso e “complesso” significa “intrecciato assieme”, tutte queste e molte altre cose sono intrecciate assieme, se ne tirate l’una vien fuori l’altra e poi un’altra ed un’altra ancora. Il gioco è complesso perché il mondo lo è diventato sempre più ed in poco tempo secondo gli standard degli andamenti storici. Per adattarsi a questo mondo bisognerà fare analisi e previsioni ed elaborare strategie per tempo altrimenti rimarrà solo il triste conforto della critica a fatti compiuti. Un lusso che si pagherà molto caro ammesso che un clamoroso fallimento adattivo sia un lusso il cui prezzo si possa davvero “pagare”.

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PUPAZZI E PUPARI.

Alla sua elezione nel 2019, Zelensky ricevette un caldo benvenuto da parte di una organizzazione che si chiama: UKRAINE KRISIS M.C. Questi, pubblicarono una lunga lista di “linee rosse” che il nuovo presidente non avrebbe dovuto oltrepassare, pena la perdita di consenso internazionale occidentale che vale a due livelli: il grande pubblico, il piccolo vertice dei “portatori di interesse” ovvero governi e loro diramazioni, tra cui i finanziatori, protettori, armatori della giovane democrazia ucraina. Il documento era sottoscritto da una lunga lista di organizzazioni ucraine e non che troverete in fondo al testo. Il movente era dato dal fatto che su quel primo mese di governo del neo-presidente, eletto su una piattaforma anti-corruzione e di relativa pacificazione con la Russia, l’organizzazione aveva da ridire allarmata. Tanto da scrivergli non dei ragionamenti politici o punti di vista legittimi, ma una chiara lista della spesa di “linee rosse”, da non superare in alcun modo, un diktat insomma, l’oggetto di un contratto.

1. CHI FINANZIA L’UKRAINE KRISIS? L’elenco completo è nell’allegato. Segnaliamo con distinzione: International Renaissance Foundation (IRF membro del network Open Society Foundation di George Soros); il National Endowment for Democracy (una stella di primaria grandezza della galassia di fondazioni ed ONG americane tese a “promuovere” con ogni mezzo la democrazia ed il mercato, non l’una o l’altro ma l’abbinata perché controllando il mercato si controlla la democrazia); la NATO; istituzioni della Lega del Nord Europeo-Anglosassoni (olandesi, svedesi, norvegesi, finlandesi, polacchi, canadesi, estoni, cechi, tedeschi ed americani a capo di tutto).

2. QUALI ERANO LE LINEE ROSSE DA NON OLTREPASSARE SEGNALATE A ZELENSKY? Una selezione delle tante cose che il neo-Presidente NON avrebbe dovuto fare pena a perdita di finanziamenti e protezione comprendeva:

– Consultare il popolo con appositi referendum per decidere come negoziare con la Russia.

– Fare negoziati diretti con la Russia senza i partner occidentali

– Cedere qualsivoglia punto nei negoziati con la Russia sulle varie questioni (NATO, Donbass, Crimea, allineamento internazionale etc.) non cedere neanche un millimetro di territorio, non riconoscere a Mosca alcun punto per il quale l’Occidente ha elevato sanzioni alla Russia (Crimea).

– Ritardare, sabotare o rifiutare il corso strategico per l’adesione all’UE e alla NATO

– Ripensare la legge sulla lingua, l’ostracismo a media e social media russi, dialogare coi partiti di opposizione filo-russi (poi di recente messi direttamente fuori legge, sono 11), venire a patti politici con precedenti figure coinvolte nel governo Janukovich (democraticamente eletto e rovesciato col colpo di Stato del 2014), lanciare operazioni giudiziarie contro il governo precedente di Poroshenko (appoggiato dagli stessi firmatari) contro il quale Zelensky vinse le elezioni con il 30%.

Il documento è regolarmente on line. Datato 23 maggio 2019 (il secondo turno delle elezioni ucraine che elessero a sorpresa Zelensky era il 21 aprile, un mese prima). L’ho trovato seguendo un semplice link della pagina Wiki del IRF di Soros. Tempo di ricerca 2 minuti.

Si noterà in tutta evidenza che pur essendo del 2019, tocca gli stessi punti a base oggi del conflitto e relative, impossibili, trattative di pace. Se ne volgete il testo dal negativo al positivo, è in pratica buona parte della piattaforma 3+2 avanzata dai russi per risolvere il conflitto.

Io non sono un giornalista ma come studioso faccio certo ricerche per comprendere gli eventi. Ma evidentemente “fare ricerche” per inquadrare fenomeni non è giudicato necessario nel regime democratico di mercato, viepiù dalla sua “libera stampa”. Ma io non sono un “democratico di mercato”, sono un democratico radicale cioè uno che pensa che la democrazia dovrebbe essere l’ultima istanza di decisione politica di una comunità.

La giovane “democrazia” ucraina è sovrana o condizionata? Condizionata da chi ed a quali fini geopolitici? Da quanto tempo? Nell’interesse ucraino deciso da ucraini o nell’interesse di chi altro, deciso da chi altro, veicolato con quali modalità “democratiche”? Cosa sanno gli ucraini nei vasti numeri del perché sono stati invasi da una forza armata del temuto vicino con il quale avevano un longevo e complicato contenzioso, stante che va ripetuto che -per quanto per noi ovvio- non c’è “diritto” formale che giustifichi che uno Stato invada l’altro armato? Ma l’elenco delle linee rosse non era poi, per buona parte, il contenuto dei vaghi “Accordi di Minsk II”? Ed a Francia e Germania che sovraintendevano quegli accordi, ciò era ed è noto o no? E cosa succede nei fatti bruti e non sul piano del diritto formale, quando si crea una situazione di questo tipo? Le migliaia di morti e milioni di profughi che fuggono dalla propria precedente vita ora in macerie, vedono migliorata la propria posizione esistenziale dal fatto che il piano del diritto formale condanna senza appello questi eventi che tanto si producono lo stesso sul piano del realismo concreto? E converrebbe oggi agli ucraini basarsi sul diritto formale o sul realismo concreto per tentare risolvere la situazione? E siamo sicuri che la giovane democrazia ucraina possa, se lo volesse, agire sul piano del realismo concreto quando i suoi sponsor necessari (ricordo che l’Ucraina, prima della guerre era al 133° posto per Pil pro capite, mentre oggi è sostanzialmente uno stato fallito tenuto in vita dai finanziamenti americani ed europei) vogliono solo che rimanga l’eterno testimonial dell’infrazione russa del diritto formale? Per cui non c’è alcuna “pace” possibile, perché non è questa nell’interesse degli sponsor? E come giudichiamo questi sponsor che per proprie mire geopolitiche sacrificano uomini, donne e bambini ancorché questi vittime in prima battuta dei russi? E come agiscono questi sponsor della democrazia di mercato in Italia e non solo nei recenti “tempi speciali”, ma nei tempi normali dei decenni della nostra vita democratica post-bellica? Ed in Francia? Ed in Germania?

E’ quando i più sembrano avere incrollabili certezze di giudizio che conducono all’azione, che occorre farsi qualche domanda.

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