HEGEL. Il Logos è sistema.

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Per i lettori di questo blog: questo è un intervento che procede lungo il cammino del nostro tentativo di sviluppare una filosofia della complessità. Non legge Hegel per la filosofia della storia o quella del diritto e nei risvolti politici e non approda alla sua derivazione marxiana. Non usa Hegel per giungere all’oggi e non conclude nulla se non il rinforzo della convinzione che è poi la limitata premessa da cui si parte. La precisazione è data per non far spendere tempo prezioso a chi non è interessato a queste coordinate. Per gli eventuali interessati: l’intervento è pubblicato in una unica soluzione, anche se sviluppa una certa lunghezza. Le note, anche se affaticano la lettura, ampliano le ragioni del discorso. Tutte le citazioni di Hegel o i riferimenti al suo pensiero sono abbastanza generali da non richiedere una scolastica citazione della fonte. Questo, più che un saggio, è un ragionamento ancora aperto alla ulteriore comprensione, esso si svolge in parte I: Tesi e sviluppo; II: Interpretazione; III: Hegel e la complessità. 

I.

Premessa: Per tentare un primo approccio al pensiero di questo ostico filosofo, scegliamo di iniziare da un punto che ad Hegel non sarebbe piaciuto affatto. Hegel disdegnava le biografie degli individui, essi erano catalizzatori inconsci  e casuali di un “fluire delle idee” che era ciò che più gli interessava. Noi invece partiremo proprio dalla biografia, non quella evenemenziale, ma da quella intellettuale. La nostra tesi, molto congetturale e dal basso di una conoscenza che si auto-dichiara incerta,  sarà che un campo quadrato delimitava l’opera del nostro, un campo di cui ogni lato ha costituito uno stimolo, un limite da superare, un tema su cui differenziarsi, pur tenendone conto. Per unire tanta eterogeneità occorreva un sistema ed un ordinatore che gli desse la struttura ed il senso ed al contempo, ne proponesse una sintesi di ordine logico superiore.  Sembra quasi che Hegel avesse chissà se consciamente o meno, ben presente tutti e quattro i lati di questo campo, entro il quale voleva costruire un “pensiero grande”, forse “il pensiero più grande” o come diceva Anselmo[1]ciò che di più grande non si può pensare”. Anselmo alludeva a Dio, ma solo perché non conosceva Hegel. E’ dall’incontro tra questa ambiziosa volontà a priori[2], il campo quadrilatero proposto e l’esigenza di sublimarlo in un sistema ordinato di logica superiore, che secondo noi nasce la filosofia ed il mondo di filosofare di Hegel. Ma come?

Kant: il primo lato era dato da Kant. Aveva 34 anni Hegel quando morì Kant e tre anni  dopo pubblicò la sua Fenomenologia dello Spirito. Non si poteva non ammirare la lucidità kantiana eppure Kant presentava un formidabile ostacolo. Kant aveva sostanzialmente posto un divieto al prosieguo della metafisica. La sua Dialettica trascendentale, binaria e non ternaria, mostrava il destino di naufragio di ogni speculazione che applica il motore logico della Ragion pura ad oggetti mentali forniti non dalla percezione sensibile, quindi dal mondo, ma dalla ragion pura stessa. In seguito, l’oscuro (perché poco noto) K. L. Reinhold aveva cercato di sottolineare il valore della filosofia kantiana, ma era incappato in un grave travisamento laddove lesse la kantiana cosa in sé, come puro concetto (!). Lo seguirono Schulze, Maimon e Beck e le bordate dei filosofi della fede, poi arrivò Fichte e così la volontà poté dove non avrebbe potuto la ragione. La  “volontà a prescindere”, era quella di continuare a filosofare come si era sempre fatto sino ad allora, scorrazzando felici nei vasti campi della metafisica. Si eclissò la filosofia del limite e una nuova aurora festeggiò il ritorno dell’illimite. Capita così che l’idealismo tedesco si sviluppi a prescindere e nonostante Kant, in omaggio ad Hegel, potremmo pensare addirittura in opposizione. La temperie culturale tedesca dei primi del XIX° secolo, per altro riflesso di uno stadio storico vivace e trasformativo dell’Europa in generale e della Germania nel particolare, tutto suggeriva tranne che ammutolire contriti davanti al grande divieto kantiano, quindi si fece finta di niente. Hegel non era tipo da fare finta di niente e se, come si può supporre, avesse davvero voluto emergere a grandezze “assolute”, con Immanuel  doveva fare i conti. Li fece in due modi. Da una parte (auf) tolse il pensiero di Kant, nel senso che vi si oppose dialetticamente in più punti, quasi un sistematico contrappunto data l’articolazione del pensiero del signore di Konigsberg. Dall’altra per “conservare, superando” (hebenhebung), chiamò Immanuel il suo terzo figlio (il secondo “ufficiale”). Per i non addetti “Aufhebung” (togliere e conservare, superando) era il termine col quale Hegel, definiva la sua dialettica ternaria che deve la sua riduzione sloganistica in Tesi-Antitesi-Sintesi, ad un assai poco noto filosofo tedesco Heinrich Moritz Chalybäus (1796-1862) in vena di semplificazioni divulgatorie. Detto più seriamente sebbene succintamente, Hegel usò una metafora sul voler imparare a nuotare prima di buttarsi in acqua per dire che Kant criticò la ragione prima di conoscerla (?) e che comunque bisognava ridare la metafisica ai tedeschi perché “un popolo senza metafisica è come un tempio senza santuario”. Mah, veramente neanche queste due battute polemiche danno conto del regolamento di conti tra i due. Al cuore del problema c’era la posizione, il punto di vista. Kant pensava noi si fosse della stessa sostanza del mondo ma non si fosse il mondo, imagesHegel invece lì voleva arrivare, all’identità tra noi e mondo. Però qui non possiamo e vogliamo effonderci in particolari, teniamo solo a mente che Hegel, fedele alla sua procedura dialettica, non negò radicalmente l’illuminismo ed in particolare Kant, ma dialetticamente cioè incorporandolo in un sintesi di ordine superiore. Una sintesi in cui l’illuminismo non aveva l’ultima parola ma la cui parola non era persa ed era in qualche modo “conservata”, sebbene superata. In altri termini, come aveva già bene espresso nel XII° secolo Bernardo di Chartres[3], salì su Kant, per dirigere lo sguardo da una altra parte o meglio, smembrò ciò che conseguiva dal punto di vista di Kant e lo riutilizzò in parte per sviluppare ciò che si produceva dal suo punto di vista. Questa natura sistemica del pensiero e la sua dipendenza dal punto di vista, oltrepassa la semplificazione della meccanica dialettica. Negazione e/o contraddizione sono sì strumenti usati per il lavoro del pensiero, ma l’artigianato sistemico è un po’ più articolato e complesso che non l’applicazione di una singola regola aurea.   

Scienza: il secondo lato del quadrato che definiva il perimetro dell’ambizione hegeliana, era la scienza. La scienza aveva una serie di grossi problemi  secondo il nostro. In realtà era Hegel ad avere un grosso problema ovvero il fatto prosaico che la scienza era il pensiero che trasformava il mondo e che aveva donato all’Inghilterra una primazia assoluta che i tedeschi, assieme all’intenzionalità francese, soffrivano non poco. Ma la scienza dava ad Hegel un cruccio ancor più grosso e già lo tesso Kant e poi Fichte (Dottrina della scienza, 1794) si erano misurati nei rapporti di forza tra scienza e filosofia sul concetto di verità. Nella scienza essa si presentava come “verità oggettiva” o come “verità” propriamente detta. Con la sua deduzione o meglio induzione, la formalizzazione matematica e soprattutto la replicabilità della legge individuata in appositi esprimenti od osservazioni, essa stava stabilendo lo standard della verità genericamente intesa. Questo era un problema, oltretutto aggravato dalla sostanziale ricezione kantiana, che fare? Ecco allora che per la prima volta con Hegel, la filosofia diventa interamente “scienza”. La scienza è la figura della verità e poiché per il nostro, la verità esiste solo nel Concetto, il Concetto è scienza. Il Concetto è la sostanza del mondo, la Ragione autocosciente, l’Idea assoluta od infinita. L’intero sistema hegeliano è finalizzato a fornire la verità assoluta, assolutamente certa e necessaria per cui produce scienza.  imagesESU9ASW3Laddove la cosa gli sembrò promettente, ovvero possibile, chiamò il suo capolavoro sulla logica “Scienza della logica” e quello successivo che divenne poi l’esposizione sistematica dell’intero sistema “Enciclopedia delle Scienze Filosofiche”. La prefazione della FdS è titolata: “La conoscenza scientifica” e la stessa intera opera aveva un primissimo titolo come “Sistema della scienza” di cui la FdS doveva esser la prima parte. Più volte, nei testi, torna sull’argomento a ribadire e precisare, forse per convincersi lui stesso.  Come per Kant, l’illuminismo, anche per la scienza propriamente detta e come poi vedremo anche per la religione, Hegel aveva in progetto una fusione per incorporazione, un grande Aufhebung[4], che riportasse tutti i pensieri umani dall’intera storia della filosofia alla religione, dalla storia umana e delle umane istituzioni a tutti i fatti estrinseci, inclusa la natura, a culminare nel suo discorso (Logos). Tra idee e fatti Hegel aveva trovato un mediatore che li univa non come parti (μέρη) dello stesso intero, ma addirittura come membra (μέλη)[5] dello stesso corpo (il che aveva una valenza organica maggiore, quindi per come si esprime il nostro, “concreta” ossia “vera”): lo Spirito. Lo Spirito era l’anima del sistema. Lo Spirito?

Religione: eccoci allora al terzo lato dell’assedio hegeliano, la religione. Digerito Kant e la scienza, Eraclito, Aristotele, Proclo ed anche se criticato nella sue Lezioni di filosofia, Plotino ed in genere il neo-platonismo, Aufhebungato anche Spinoza, cosa fare della religione? Hegel aveva studiato in collegio a Tubinga (Hegel per titolo, era un teologo) e da giovane aveva scritto ben quattro libri sulla religione, di cui una vita di Gesù, libri pubblicati postumi solo ai primi del ‘900[6]. La religione doveva entrare nel suo sistema, prima messa a posto come evoluzione dello Spirito che passa dalle forme più primitive del passato (tra cui la religione degli ebrei che produce la famosa “coscienza infelice” della Fenomenologia) alla religione cristiana e protestante nello specifico, di modo che questa fosse il “compimento” del percorso evolutivo della religione propriamente detta. images SdL 2Tra l’altro notò come anche Dio, Cristo e Spirito Santo fossero legati da una relazione dialettica , nella Trinità. E curioso appare il possibile parallelismo tra la sua dialettica ternaria e la Trimurti induista che ha la tesi in Brahma che è il creatore, l’antitesi in Shiva che il distruttore e la sintesi in Vishnu che è il conservatore.  Ma poi la religione stessa non poteva che andarsi a collocare appena un gradino sotto il soglio di Dio. Eccola infatti spuntare nei momenti fenomenologici che intravedono la fine del percorso di compimento del pensiero che pensa se stesso ed a premessa di quella Scienza della logica ritenuta  una sorta di teologia della ragione e presentata come: ”l’esposizione di Dio o come è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito[7]. Ma il suo trattamento finale lo troviamo al penultimo gradino della scalata dell’Enciclopedia dove esprime, come rappresentazione,  il secondo e penultimo momento del cammino dello Spirito assoluto . Cosa c’è all’ultimo gradino? Ma che domande: la filosofia! Lo Spirito assoluto che è Dio, ovvero Ragione autocosciente ed Hegel che ne è il suo profeta (maligni insinuano il contrario, ma noi non li seguiremo).

Romanticismo, Idealismo, Germania: l’ultimo lato che proponiamo di considerare per comprendere la composizione dei limiti da superare (mantenendoli s’intende) per il nostro ambizioso architetto dell’Idea assoluta (dicasi assoluto tutto ciò che è sciolto da legami, condizionamenti e riserve relativizzanti, ciò che è vero sotto ogni aspetto, in sé per sé) è ciò che possiamo chiamare “lo spirito dei tempi”. Fu egli stesso a farci notare questa esigenza dicendo che la filosofia, in fondo, è “il proprio tempo appreso con il pensiero”. Ora, lo spirito dei tempi era triangolato da alcuni fattori. Il primo era la temperie romantica. Questa manifestò per prima l’ambizione alla totalità, approcciata con l’intuizione immediata e riflessa nell’estetica che è anche crogiuolo di conciliazione dei particolari. Hegel condividerà l’ambizione alla totalità ma, dopo un primo momento giovanile in cui individuò “l’amore” come conciliatore (“distruzione dell’opposto nell’unificazione“), passò poi definitivamente alla ragione ed alla sua visione complessiva che è la filosofia, il vero crogiuolo della conciliazione, perché autocosciente.  Il secondo fattore era la forma specifica dell’ambiente filosofico del tempo, nel quale trovare posizionamento. imagesS6QTEXTDLa distanza da marcare verso le filosofie del sapere immediato e della fede (F.H.Jacobi) e quelle del sentimento e della religione (F.Schleiermacher), preoccupazione tale da comparire nella Premessa alla FdS, fu la prima mossa. La seconda fu quella di “togliere e superare” gli altri due idealisti. Fichte venne criticato perché lasciava in essere il dualismo, produceva “cattivo infinito” ed era eccessivamente in sé (soggetto). Schelling arrivava all’assoluto come con un colpo di pistola, non distingueva le vacche tra loro e tra loro e la notte e quindi non dialettizzava ed in definitiva, era troppo sul per sé (oggetto). Ma l’ingredientistica idealista con cui Hegel  pensò di produrre buon infinito (che comprende il finito dileguandolo…), unità di soggetto ed oggetto, distinzione e processo per pervenire all’Assoluto, non con il colpo di pistola ma con la fatica del concetto ovvero con il processo dialettico, ha negli altri due molti presupposti (svolgimento triadico, assoluto, soggetto, polarità, conciliazione reale ed ideale e molto altro) .   La terza era il particolare momento di incubazione uterina della futura nazione tedesca, nel passaggio storico specifico dei primi tre decenni del XIX° secolo. Rendere organico il disorganico sembra la perfetta descrizione di ciò che si presentava come compito a chi pensasse di passare da un popolo culturale frazionato nei 39 Stati della Confederazione tedesca ad un popolo-nazione-Stato unico[8]. L’unica via che potesse portare la Germania a pari con Francia ed Inghilterra nel rango che le competeva per destino manifesto. Del “filosofo ambizioso” però non si può non notare anche il fatto che egli fu il filosofo che più gloria raccolse in vita, questo sì, in “assoluto”. E’ questo un fatto abbastanza straniero alla storia dei filosofi e dei rapporti tra loro ed il loro tempo, una collezione di ostracismi, cicute, suicidi assistiti, pire ardenti, prigioni, povertà e marginalità, raramente andata oltre una distratta e tollerante ignoranza. Bisogna notare che su questo, i tedeschi, si distinsero per una maggior predisposizione al rispetto dei loro filosofi, già con Leibniz, Wolff, Fichte (poi allontanato dalla cattedra per un misto di ateismo e supposto giacobinismo), ma poi anche con Heidegger, Husserl ed anche in seguito, se si eccettua la parentesi nazista. Eccedono Kant, per il quale ci fu rispetto e reverenza dovuta forse anche alla forma monumentale delle sue tre Critiche, ma che non si trasformò, lui in vita,  in vera incorporazione. Lo stesso sviluppo dell’Idealismo negli ultimi anni di vita di Kant, testimonia di questa non digestione. Ed eccede ovviamente Nietzsche ed in vita, ovviamente Marx. Hegel però ebbe una incorporazione sociale del tutto speciale e ci si può domandare quanto questo abbia agito come eteronomia sul suo pensiero o meglio sul suo sviluppo. E’ questa la questione che pose giustamente a suo tempo Schopenhauer su i “filosofi delle università” e l’autocastrazione che deriva dal loro inserimento “organico” nella rete delle condizioni limitanti il già limitato potenziale del nostro libero pensiero.  Come già notato altrove in questo testo, Hegel non pubblicò più nulla di sistematico o sul suo sistema, dall’inizio del periodo berlinese dai suoi 48 ai 61 anni. Il sistema del Divenire dialettico era nato già adulto ed armato come Atena dalla testa di Zeus. Hegel non applicò mai riflessivamente le leggi della dialettica alla sua tesi sull’Assoluto così da ingenerare il dubbio che essa fosse non solo la Verità, ma anche l’ultima verità, quella “che più ultima non si può pensare”, il compimento.  Destino postumo volle invece che il pensiero dell’Uno-Molteplice che si sa e si comprende finalmente come tale, verrà di nuovo scisso in tre, con le tre interpretazioni religioso-politiche dei suoi successori. L’Assoluto tornò ostinatamente Relativo, poiché essendo tale il punto di vista, quella che si sviluppa è, nella realtà (l’unica possibile ed interessante, “l’esistente”), una Fenomenologia dello Spirito relativo.

Come si formò il sistema? Kant, Illuminismo, ma anche il Romanticismo e l’Idealismo tedesco, la scienza ma anche la religione, la storia dei fatti umani, politici, giuridici, della stessa natura, dell’arte, nonché ovviamente quella della filosofia, il soggetto e l’oggetto, la coscienza e l’autocoscienza, l’Intelletto analitico e la ragione sintetica, il finito e l’infinito, insomma tutti gli enti della dimensione -spazio- (reale e mentale che in quanto razionale è reale), vennero amalgamati in una TOE (Theory of everythings) del concetto, sistematizzata, argomentata, resa viva dalla Legge Dialettica, motore del divenire quindi anima della dimensione -tempo-. Questo imponente edificio, forse il più ampio, ambizioso e completo la speculazione umana abbia mai prodotto, è quel pensiero che il giovane Hegel ebbe nelle sue grandi linee, già a meno di metà dei suoi trent’anni. Da segnalare che il bisogno di sistema di Hegel nasce anche da una sua naturale predisposizione all’enciclopedismo, ad un certo eclettismo istintivo che in gioventù lo aveva portato a curiosare in molte direzioni. La pulsione al Tutto in Hegel, era tanto razionale, che reale.  Se proviamo a sfidare l’immaginazione e domandarci come abbia fatto, da dove abbia cominciato il giovane di Stoccarda per passare alla storia del pensato come uno dei più grandi, per molti “…il più grande, che più grande non si può pensare…” possiamo fare una ipotesi: dalla fine.

Eraclito: Hegel dichiarò che “Non c’è proposizione di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica”. Torneremo forse una altra volta su una analisi dettagliata della lettura comparate tra i 126 frammenti e il sistema hegeliano, basti anticipare che la dichiarazione di Hegel è, secondo noi, da prendere molto seriamente, alla lettera. Sembra che Hegel abbia fatto un vero e proprio restauro organico del puzzle dei pezzi mancanti di Eraclito su cui molti si sono cimentati ma sempre prendendo qualcosa sì e qualcosa no, utilizzando Eraclito come testimone antico e stimolatore per nuove aperture. Hegel ha fatto di più, molto di più. Egli ha restaurato l’impianto di Eraclito e lo ha usato come scheletro su cui comporre il suo sistema organico, un sistema che superasse, inglobandoli trasformati, i concetti forniti dal quadrato del suo contesto intellettuale e culturale. Hegel ha scorto in Eraclito un tesoro di inestimabile valore in termini di originalità perché tra Eraclito e Parmenide si formò una biforcazione originaria[9]. images FdSDa quella biforcazione originaria, nacque la lunga vita della filosofia occidentale, scegliendo con Platone, la via di Parmenide (e Pitagora), la via dell’Essere. Cammino asfaltato dal neoplatonismo e reso autostrada senza svincoli dal cristianesimo e da ultimo, messa a disposizione del Soggetto, da Cartesio.  Hegel riporta in vita Eraclito utilizzando praticamente quasi tutto del filosofo di Efeso e lo amalgama con tutto il resto della tradizione, con il primo trasforma la seconda, innova continuando, di modo da rilanciare la traiettoria speculativa della filosofia occidentale e se stesso per identificazione,  su un nuovo punto arricchito, un nuovo raggiungimento: l’Essere nel Divenire la sua Essenza. Questo Essere in Divenire è Dio, il Mondo e l’Io, unificati nello Spirito assoluto che è il Logos eracliteo, il vero punto archimedeo , l’Uno che retroagisce su ogni singolo momento precedente del Tutto. Questa è l’unione di reale e razionale, leggibile nella via all’in su ed in quella all’in giù, questo è il Logos, Uno, che tutto determina e da i cui tutti, è determinato (Eraclito, DK 41). Questa forse fu l’intuizione originaria che illuminò l’ambizioso svevo, dare sostanza al misterioso Logos eracliteo e da questo punto di fuga certo, discendere la fenomenologia del Tutto. Questo Logos “che è sempre”, il punto unificante ed unificato che sormonta la concezione filosofica di Eraclito, in Hegel è l’Essere che diventa assoluto quando dopo lunghi movimenti innescati dalla negazione, movimenti che producono figure antinomiche se letti astrattamente, quelle maledette coppie dei contrari la cui credenza dicotomica da parte dei suoi concittadini faceva  ammattire il povero Eraclito, dopo questo lungo lavoro del Divenire dialettico, diventa pensiero del suo stesso pensare, si sa, giunge alla verità, diventa assoluto, il Tutto autocosciente[10], il Vero, il Concetto. Il Logos, il cui sistema è identità di Io e mondo, in divenire.

II.

Interpretazione: Dispiace a questo punto rovinare questo bel momento che le spinte pelviche dell’eros speculativo  di  Hegel ci hanno regalato come orgasmo dei neurotrasmettitori della sessualità logico-linguistica, ma dobbiamo tirare un filo di conclusione, non per carità su tutto Hegel, ma solo sulla struttura della ipotesi che siamo andati sin qui facendo. Sembrerebbe possibile ipotizzare che il giovane Hegel la cui ambizione era pari all’intelligenza, arrivò a definire il misterioso Logos eracliteo con un termine medio che risolveva finalmente l’ostinato dualismo del nostro essere nel mondo. Un mondo in cui poi Heidegger ci ricorderà “veniamo gettati” e quindi ci pre-esiste. Un mondo che, nostro malgrado, un dì lasceremo senza più provare nulla, neanche nostalgia. Questa incommensurabilità tra noi e mondo è fonte di dolore per noi. Ci ricorda la nostra precarietà esistenziale e ci ricorda soprattutto che dovremo morire, cosa spiacevole da pensare per un organismo sviluppatosi in milioni di anni in quanto autocosciente, miliardi in quanto cosciente, come sfida provvisoriamente vinta, come isola di Essere in un fiume di costante Divenire, in cui non ci è dato immergerci due volte. L’intera nostra evoluzione bio-esistenziale, resiste a questo pensiero che facciamo di tutto (giustamente) per non pensare. Pensiero o meglio, rimozione ostinata di quel pensiero da cui scaturisce sicuramente la religione e buona parte anche della filosofia e dell’arte, sebbene non tutta (e forse neanche tutta la religione).

untitledvQuesto termine medio che univa noi ed il mondo e tutte le altre coppie originate dal nostro istintivo dualismo esistenziale, Hegel lo inventò nello Spirito, metà fatto e metà pensiero; metà reale e metà ideale, in sé Uno, vero, infinito. Esso veniva fuori a sanare la dualità in quanto tale, in quanto forma a priori della nostra ragione derivata dalla nostra posizione bio-esistenziale, come superamento che però, non poteva  esser immediatamente causa sui, come Hegel accusò di pensare lo Schelling . Hegel notò la negazione (ancora Eraclito “Ho indagato me stesso” DK 101, nel senso che Hegel vi si accostò forse riflettendo sul meccanismo con cui egli stesso approcciava i quattro lati del suo quadrato da trasformare da limite a perimetro su cui edificare l’edificio che lo elevasse al dio filosofico, fece una analisi riflessiva che è poi ciò che gli riusciva meglio) si formò forse, per la prima volta, la convinzione che la logicità ha “una” forma (che poi era quella propria della sua mente, ma che aveva già fatto capolino con Fichte e Shelling sebbene il piattino fosse stato preparato nella riflessione kantiana) e “quella” forma divenne la dinamica triadica. Hegel formalizzò la dialettica in un momento di autocoscienza. Essa superava la sospensione del giudizio scettico “non più l’uno, dell’altro”, portandolo a “l’uno e l’altro in un di più”. La Verità esisteva, solo che era sempre un po’ più in là di dove la cerchiamo.  Ma poiché quella logica doveva essere la stessa del mondo, essa diventò  la Legge per cui lo Spirito diviene in ognidove.

Purtroppo l’ansia di verificazione, la pressione delle certezze scientifiche, la necessità di dover sormontare ed inglobare l’intera storia del pensiero umano a lui precedente ed addirittura la religione[11], mantenendola ma retrocessa a rappresentazione non riflessa, lo portò a costruire a ritroso tutto il percorso che noi leggiamo come se l’inizio si ponesse da sé ed il lento e labirintico sviluppo del santuario della religione razionale dello Spirito si sviluppasse come “dal seme il fiore e dal fiore il frutto”. “L’inizio” in Hegel è stato subito ravvisato come suo punto delicato, già dalle critiche di F. A. Trendelenburg (1802-1872) e questo perché non è un vero inizio, uno spontaneo ed ingenuo dar cominciamento da qualche parte[12], una vera mancanza di presupposto, ma un Letto di Procuste preordinato in cui doveva avere sede la generazione della dialettica tramite l’accoppiamento di Essere e Nulla, il cui frutto sarà il Divenire[13].  Molti passaggi di questa retroapplicazione del finale già scritto e l’ossessione di fare della dialettica non si sa se triadica o trinitaria, una legge newtoniana (nel senso di unica, semplice e vera in assoluto) risultano forzati, anche per molti adoratori del teologo di Stoccarda. “Inizio” non meno problematico della “fine” che mai si è capito se dovesse essere intesa coincidente con Hegel e la Germania prussiana o no. Problema derivante dalla incongruenza strutturale tra il metodo che non si vede ragione per la quale non debba rimanere in opera in eterno e il sistema che invece ha telos nella piena soddisfazione del concetto che si autocomprende con Hegel stesso.

Inoltre, la ripetizione della forma triadica in ogni dove è francamente stucchevole e la sua presunzione di assoluto ne falsifica contestualmente la credibilità. Ricorda quei neofiti della psicoanalisi i quali vedono rimozione in ogni negazione. Hegel ha sovraesposto il suo meccanismo che è una perla del pensiero, perla che però di per sé non fa una collana e laddove si pone tale, strozza il collo che doveva ornare. Oltretutto, bisognerebbe (e forse lo faremo in seguito) tornare sulla dubitabile coincidenza di negazione/contraddizione[14] perché oltreché non assoluta, non unica, forse così formulata, probabilmente non è neanche vera.

Infine, come si conviene a colui che ha preso a modello un filosofo (Eraclito) definito dalla dossografia successiva “l’oscuro”, Hegel è assai faticoso nelle formulazioni. E la sua autoidentificazione con l’esoterico Aristotele non migliora la cose. Va bene la “fatica del concetto” ma si ha l’impressione che Hegel abbia creato dei concetti come mattoncini di Lego e poi si sia divertito a raccontarci quanto belle cose si possono fare usandoli nel playground del suo pensiero, che però è anche la struttura del mondo. La sua struttura concettuale sistemica è la stessa di quella linguistica: autofondata (sperando che l’auto-fondazione si trasformi in auto-consistenza). Le definizioni dei suoi concetti rimandano ad altri suoi concetti ed in mancanza di una stele di Rosetta, ci si deve abbandonare ad una introiezione olistica (“assuefarsi a poco a poco”, è questo il consiglio che ci dà il suo traduttore, Benedetto Croce, nella sua  prefazione alla EdSF) ma senza garanzia di aver alla fine fatto combaciare la nostra interpretazione, con la sua intenzione. Intenzione non lontana da una certa convinzione sul valore dell’esoterismo nella conoscenza: ciò che è  comprensibile è banale e popolare (Locke), ciò che non lo è, è concettuale, ergo, elitario. Esoterismo che coincideva alla lettera con quello di Eraclito, propria di chi si doleva della “mancanza di concetti nel popolo” per come la disse Hegel stesso. Così, “la verità ama celarsi“, diceva Eraclito, atteggiandosi a Pizia del dio Logos. Questa forma non è che l’involucro esteriore di una convinzione profonda di tipo ermetico-teosofico. untitledzDi fronte ad un codice così cifrato la cui chiave Hegel interra nel vasto testo,  la mente corre a quel Wittgenstein che pensava (esagerando) che non esistessero veri problemi filosofici, ma solo problemi linguistici. Del resto, qualsiasi sacerdote sa che il linguaggio, se ben utilizzato per suggestionare, è precondizione per la fede e quella di molti hegeliani, a volte anche i più smaliziati, sembra proprio una fede sulla razionalità dell’Assoluto (pochi) e la generatività di una dialettica mossa dall’indomita negazione (molti). Una fede che non richiede “ma cosa intendi esattamente con…?” poiché introietta la propria minorità davanti al “mistero”, il mistero della fede, appunto. Così il sacerdote di Stoccarda officiò la messa del Concetto nella sua “Chiesa invisibile” (giovanile sogno comune condiviso con gli amici Shelling ed Holderlin) che recava sul frontone d’ingresso: “il mistico è razionale e il razionale è mistico”.  Rimango convinto che più che in Marx[15], fa bene allo Spirito hegeliano un bel bagno nell’antropologia di Feuerbach, poiché molto della sua forma è marcatamente di natura teologica (e del resto Hegel ripete in più punti che le due sono identiche nell’oggetto e diverse solo nel linguaggio e nell’attitudine critica) e non è facendo corrispondere a questa forma una sostanza di Ragione che se ne esce. Anzi…

 III.

Hegel, Logos e Complessità: Questo articolo su Hegel nasce da un lavoro di interrogazione che chi scrive sta compiendo, avendo come oggetto il possibile sviluppo di una filosofia della complessità, complessità che come premesso, è l’oggetto di questo blog e di ciò che vi scrivo. Giungo ad Hegel, da varie vie, tra cui il sospetto ancora non da me argomentabile come si dovrebbe, che molto pensiero di quella che conoscevamo come sinistra e che possiamo anche ora chiamare con un altro nome se si preferisce, pensiero che deriva da Marx, abbia al suo interno dei nodi hegeliani che ne limitano lo sviluppo e ne condizionano l’applicabilità. aMarx stesso ha dato vita ad una Scolastica, non ad una tradizione che poi giunge a nuove sintesi. Ciò mi ha fatto supporre che la contraddizione, la sempiterna negazione, l’unilateralità destruens senza costruens,  la vera e propria fede che l’applicazione continua ed unica di questa posizione detta “dialettica”, sia infertile, ingenerativa, non apra al divenire ma solo al ruotare su se stessi, com’è poi nel concetto di “rivoluzione” [16], un girotondo, solo molto tribolato. Storditi dalla parvenza di verità della contraddizione simmetrico-dialettica, alcuni hanno creduto di trovare in Hegel il più strutturato pensiero contro l’individualismo liberale (liberalismo)  da cui deriverebbe il capitalismo (analisi per altro, in Hegel, molto lucida) e per la legge del nemico del mio nemico è mio amico, son divenuti devoti, anche della chiesa hegeliana. Ma non si è mai vista una chiesa che dispensi emancipazione, non è per questo che le chiese esistono. Inoltre, si nota una asimmetria lacunosa tra la presunzione di significanza dei concetti e la semplificazione con  cui varie generazioni di marxisti hanno interpretato il mondo. Interpretazioni che hanno affollato gli scaffali delle librerie, mentre fuori il mondo continuava ad andare secondo loro, in senso “irrazionale”, quindi non “reale”. Una forma di nevrosi della negazione.

Dispiace, il portato emotivo,  anche per chi scrive, di questi termini, di queste idee, del pensiero di coloro che son morti credendoci o anche solo vi hanno dedicato la vita (che forse è anche di più) è forte. In questi casi, la Ragione si fa antipatica, fa attrito con i sentimenti. Ma Eraclito diceva che non bisogna agire e pensare come figli dei propri genitori e Kant ci invitava a pensare, ognuno di noi, con la propri testa. Beh, mi sembra che i risultati odierni di un secolo e mezzo di lotta per l’emancipazione umana in Occidente, spingano a seguire questi consigli, a volgere lo sguardo nuovamente  verso  le -terrae incognitae-, a salire sì sulle spalle di questi giganti ma con curiosità nuova verso ciò che non è stato ancora pensato e a ripensare il Tutto, daccapo. Se la filosofia è “il proprio tempo appreso con il pensiero” e se il nostro tempo è il tempo della Grande Complessità, alla luce di questo concetto dobbiamo vedere come riamalgamare il pensiero dei giganti sulle cui spalle pensiamo utile salire per allargare e precisare i nostri nuovi orizzonti[17].

Critica:La filosofia è necessariamente sistema” diceva Hegel. Nel suo svolgere il lavoro di riamalgama in genere, la filosofia preleva dei pensati dai sistemi precedenti e li unisce in nuove forme di sistema. Così fece Hegel con Eraclito, Platone, Aristotele, Plotino, Proclo, vario neoplatonismo fino a Bruno, Spinoza, Kant, Fichte, Shelling e molti altri (Herder ad esempio,  ma anche e soprattutto i mistici Meister Eckhart, Jakob Böhme e la tradizione ermetica, nonché quella scettica) e ce lo disse rivendicandolo come programma giustificato “La filosofia che è ultima nel tempo, è insieme il risultato di tutte le precedenti e deve contenere i principi di tutte”. Così per altro aveva fatto l’altro grande idealista, Platone, cercando la quadra in cui assorbire i punti di vista di Parmenide, Pitagora, Eraclito, Socrate. Il sistema hegeliano è propriamente una filosofia della filosofia, applicazione del principio di riflessione ai vari prodotti emersi nella storia delle riflessioni, messi a sistema sotto nuovo ordinatore.  Quello che allora bisognerebbe superare è la forma del sistema hegeliano quello che si può e si deve mantenere è una collezione di pensati, di cui quel sistema è ricco, ma inserendoli in una struttura diversamente organizzata. Questo “sherry picking” però va condotto con giudizio perché certi concetti sono giustificati solo nella misura in cui li si trova in una trama di pensieri connessi in quel determinato sistema, usare parti di Hegel, senza il sistema di Hegel, è assai pericoloso. E la alienazione del metodo dal sistema, non è operazione esente da rischi.  Va notato che già immediatamente dopo la sua morte, il suo sistema è stato smembrato, le membra son diventate parti perdendo lo “spirito”, ed assai complicata è la riconduzione dei pensieri successivi (i figli delle parti) a questa origine dissolta. Mai come in Hegel il pensiero necessiterebbe di una comprensione ed accettazione olistica. Sulla sua così definita comprensione facciamo fatica a fare esempi realizzati, sulla accettazione invece possiamo dire che in nessun caso a lui successivo si realizzò. Né si realizzò un destino dialettico per cui l’intero sistema potesse porsi come momento astratto da lavorare attraverso quello dialettico, per giungere ad una nuova stazione speculativa. Il sistema del soggetto riflettente sembra aver avuto idiosincrasia a divenire a sua volta oggetto e questa indisponibilità ha fatto supporre fosse la verità ultima, che nel “prendere o lasciare” è stata lasciata.

Il sistema hegeliano si fonda su due perni  che vediamo problematici: a) l’assunzione di identità tra ideale e reale in quanto animati dalla stessa logica; l’assunzione dell’ipotesi “il logico è ontologico e viceversa” in quanto legge; b) una logica intesa in versione unica come processo dialettico; la forma triadico-trinitaria come l’unica vera dialettica; l’assunzione di principio che sia la dialettica in genere (anche nelle forme duali) a produrre divenire, tanto nel pensato, quanto nel realizzato. Quello che noi vediamo problematico non è questo o quel pezzo ma i due perni che danno ragione dell’intero impianto hegeliano.

A nostro avvio la sintesi progressiva degli “o – o”, trasformati in “e – e” non conduce a risalire una grande piramide di concetti che culmina da qualche parte, in una qualche unicità. Pensare che questa sia una “risalita della piramide” presuppone l’esistenza di una piramide dando per scontato il concetto di gerarchia (che è nel nostro pensiero, non certo nel mondo) e susseguente “telos” e fine a cui tenderebbero le cose. Porre l’ipotesi esista questo “significato di tutti i significati” fuori noi, è l’atto-madre dell’unica vera fondamentale nostra alienazione, il non appropriarsi della nostra responsabilità a fare il nostro mondo. Da qui la nostra irresponsabilità per le azioni che compiamo e la cecità per le loro conseguenze.  La risalita della piramide è nei fatti e conduce sì ad una sempre maggiore unità alla quale però corrisponde inversamente sempre minor significato. Il significato, spesso, è denso nel molteplice, rado nell’unificato[18]. Ciò vuol dire, a nostro avviso, che dire Tutto è Uno” è vero, sì, ma non troppo significativo. E’ questo il limite del monismo olistico.images1A7OTHGY Hegel lo sapeva e quindi diede a questo Logos-Uno il supersignificato di Spirito (Uno, spirito, vivente), ma questa è una attribuzione gratuita, una ipotesi non corroborata che si trasforma in una definizione “ad hoc”, che pone ad arbitrio un conciliatore poiché il problema che doveva risolvere era appunto conciliare. L’intero sistema hegeliano è un gigantesco diallele di cui egli presuppone l’autoconsistenza  e del resto è lui stesso a dircelo nell’Introduzione alla Enciclopedia laddove dichiara che la filosofia si mostra come “un circolo ritornante in sé“. Potremmo anche con lui concordare nel negare che questo circolo sia da giudicare “vizioso”, ma lui dovrebbe concordare nel trattenersi da dirlo Verità, Realtà, Assoluto. La sua tesi che svariando la definizione di filosofia (e di dio) già di Aristotele, “pensiero che pensa se stesso”, non solo si arriva alla verità ma che questa è consustanziale tra io e mondo, rimane giudizio ipotetico che la scelta a piacere di figure inveranti sciorinate nella FdS, non invera affatto. Il significato massimamente etereo del concetto, soffre di precisione quando viene portato a valle, nel mondo empirico, come la perfezione geometrica dei cristalli di ghiaccio, svanisce nella varietà delle condizioni termodinamiche. Il molteplice del mondo resiste alla sua miniaturizzazione concettuale. Questa tensione irrisolvibile tra sintesi e spiegamento del concetto si trova tra la massima densità e precisione della Scienza della Logica da una parte e la controversa applicazione di metodo e sistema al Diritto, alla Natura, alla Religione, all’Estetica, alla Storia ed alla Filosofia stessa. Hegel pubblicizza l’eracliteo “la via all’in su è la stessa via all’in giù”, ma la sua è -nei fatti- la sola via che dall’in su del concetto scende a valle in cerca di conferme, accettando queste e rifiutando ciò che non gli va incontro (come il figlio illegittimo) in base al principio a priori per cui ciò che non è razionale, non è reale (che poi è un “dover esser” camuffato da “oggettivo”), senza mai aver ben definito cosa è “razionale”. Infine, questa diacronia a senso unico, non interseca la verifica sincronica. I vari campi indagati sono tutti compresenti nel reale ed agiscono e sono agiti sincronicamente dall’individuo che a sua volta è il vero “bisognoso dell’Uno”. La faccenda è quindi, più complessa e come al solito, irriducibile oltre un certo limite.

Lo sguardo complesso, contempla il Tutto che tende all’Uno strutturalmente ma la funzionalità interna a questo Uno è assai molteplice. Sono queste molteplici relazioni, l’anima del complesso. Il suo essere sistemi di sistemi, un Tutto governato dal principio di adattamento interrelativo, quindi dalla plurale possibilità, non dalla necessità. Nella dialettica (che non è una forma del mondo ma del nostro categorizzare il mondo) alla contraddizione poi, si affianca la cooperazione, la convivenza, la riconsiderazione dentro nuovi contesti, la coevoluzione, la tolleranza dell’attrito a fini superiori, i sistemi binari, la simbiosi e molto altri ancora. Occorre  molta prudenza a concettualizzare i sistemi, la loro forma è soggetta a riduzione ad unum (per lo stesso fatto che vi apponiamo un nome=identità), ma questo non può corrispondere ad una riduzione ad unum del loro significato. “Capitalismo” ad esempio, non solo è un sistema altamente complesso, ma nella varie società umane è un sistema tra sistemi (sociali, politici, culturali, religiosi, geografici, storici, militari etc.). Dialettizzare i sistemi, trattandoli come monadi in sé per sé è improprio, è un riduzionismo. E con il riduzionismo, il significato si dilegua inversamente alla precisione. Sono mondi arbitrariamente strappati dal loro contesto interrelativo per porceli  in attenzione sulle limitate capacità del nostro pallottoliere logico e così razionalizzarli, dandoci l’impressione di poterli computare in pieno dominio.  La necessità hegeliana poi, è la versione logica delle leggi newtoniane, Hegel volle fare un sistema newtoniano con leggi metafisiche, cioè logiche (limitandone almeno la potenza di predicibilità), ed entrambe le tradizioni hanno figliato eserciti di alacri riduzionisti operosi, intenti a semplificare il complesso con ricette e prescrizioni sempre molto sicure di sé nella loro precisione, quanto poco efficaci nella loro applicazione. Dell’assoluto del Tutto non si può e non si potrà mai esser certi e il suo esser Uno può esser d’interesse per dio, del relativo delle interrelazioni si è invece più che certi ed è per altro una certezza a livello del piano umano, quello che più ci interessa.

Conclusione provvisoria: Hegel è un pensiero troppo grande e complesso per essere racchiuso in questa, sommaria e non sempre benevola, ricostruzione congetturale. Le grandi questioni che si è ambiziosamente ma anche coraggiosamente posto (i rapporti tra ideale e reale, tra pensiero e mondo concreto dei fatti economici, storico, politici, sociali, il sistema ed il metodo, la relatività del vero molteplice ed il suo contrasto con la fede in quella verità che è per noi naturale unificare) sono il suo lascito più prezioso.   Molte spezzoni del suo vasto ed articolato pensiero meritano grande considerazione, ripresa ed ampliamento, anche con lui occorrerà riflessivamente applicare l’Aufhebung. In fondo quello che realmente fa la filosofia successiva rispetto alle opere dei precedenti pensatori è spostare il punto di vista. Da questo spostamento non nasce mai nulla di totalmente nuovo e diverso, ma qualcosa che riamalgama diversamente i precedenti pensati, questa ri-sistematizzazione (che può prendere anche le forme disordinate di uno sviluppo a-sistematico) lascia la vecchia intelaiatura, tiene alcuni pensati, li riassembla con nuovi in una forma dipendente dal nuovo punto di vista. E non deve esser letta come una critica il fatto ipotizzato che Hegel cominciò dalla fine, sebbene poi ne abbia raccontato l’esito come se questo si sviluppasse in forma genetica. Ogni filosofo si forma ad un certo punto una convinzione salda sul punto di vista, pre-comprende il finale della sua speculazione e passa il resto del tempo a vedere se l’”allora” che discende dal suo ipotetico “se”, sostiene questo primo.  imagesYP8RPIE5Si gettano reti nel mare e poi si vede che cosa si è pescato anche se molte volte la moltiplicazione dei pesci fatta dalla ragione ansiosa soccorre risultati altresì, molto meno perfetti. “L’inizio” invero è pura intuizione della fine.  Questo metodo è certo giudicabile approssimativo secondo gli standard idealistici sulla verità che la filosofia occidentale si diede già al tempo dei Greci, ma è quello più concretamente in opera in venticinque secoli ed ha altresì dimostrato di produrre molto, utile, fertile ed intelligente pensato.

C’è  anche chi[19], conoscendo il pensiero di Hegel molto meglio di me, ha provato a connetterlo ad una possibile tradizione di filosofia della complessità in termini di retroazioni, ricorsività ed ologrammi e su questo aspetto, come su altri, bisognerò tornare. La nostra via all’in giù, questo partire dai contesti per vedere come possano aver condizionato il testo, voleva solo tentare una prima comprensione olistica, un imperfetto impatto col suo intero. Un intero che rimane un mistero difficile da spiegare. Il mistero di come così tanta intelligenza e ricchezza di pensiero, abbia generato un sistema che ha espulso e repulso la nozione stessa di sistema dalla filosofia occidentale per il successivo più di un secolo e mezzo. Dal nichilismo all’esistenzialismo, dal rannicchiarsi sul linguaggio al post-moderno, con la sola eccezione della Weltanschauung philosophie e di certo strutturalismo, sembra che il sistema di pensiero, una forma mentale che esiste, volenti o nolenti in ognuno di noi come immagine di mondo, sia diventata motivo di negazione e di imbarazzo[20]. E’ la mancanza di questo sistema a lasciarci balbettanti davanti alla recente manifestazione di grande complessità, il mondo sembra eccedere di molte volte, la nostra facoltà cognitiva. In mancanza di questa presa del mondo nel pensiero, consegue sicuro disadattamento.

Forse Hegel è stato colto dal destino della Nottola di Minerva nel senso che doveva scrivere l’epitaffio della grande stagione metafisica, forse ha preteso troppo nel definire l’Uno del Logos, forse la complessità del molteplice non richiede riduzione assoluta ma comprensione relativa. Il rapporto Uno-Tutto sembra soggetto ad un principio di correlata indeterminazione (precisare “a”, sfoca “b” e viceversa). Forse il Divenire è lo stato ontologico di default che si produce in mille modi e non ha una unica dinamica e ciò che è eccezione è l’Essere che vi prova a resistere. Da cui il concetto di adattamento in luogo di quello di evoluzione. Forse ha sbagliato a chiudere un sistema che se rimaneva aperto, invece di ingabbiare l’uomo nella complessità con la illusione di domarla con la Logica, avrebbe contribuito a domare la complessità nell’uomo e nel rapporto uomo-mondo. images SdLIl “concreto” è sì ciò che è posto anche considerando le sue interrelazioni, ma il -concreto di tutti i concreti- non è detto esista e che abbia significato, vi sono scivolamenti aporetici nel dire Tutto, come nel dirlo Infinito. Forse la nostra scissione esistenziale e l’infelicità che ne consegue è da superare occupandoci di noi e del mondo finché ne abbiamo la possibilità, sopportando il dispiacere per la nostra futura scomparsa dal gioco e non abbandonandoci alla consolazione di una filosofia dell’ermafrodito logico. Forse “l’Amore” comparso nella sue giovanili riflessioni è il miglior analgesico da prescrivere, nel mentre la Logica soccorre la nostra comprensione del mondo prima di impegnarci nella sua e nostra trasformazione, reciprocamente adattativa, in base ad una realistica ed articolata idea di uomo e di mondo, che punti alla minor infelicità relativa.  Forse la volontà di potenza intellettuale che lo animava fu buona spinta per l’esercizio filosofico, ma un limite che lo ha condizionato sia a ritenere che il sistema del Tutto ed il sistema in quanto tale, esistesse in una unica versione, sia a comprendere il Tutto al suo massimo livello di significanza. Una significanza che forse è solo un nostro bisogno cognitivo ed esistenziale e non è detto risieda come proprietà dell’Uno-Tutto in quanto tale.

Vedremo, ci torneremo, dovremo tornarci su… .

[L’articolo fa parte di un percorso di ricerca intorno all’ipotetica formazione di una Filosofia della Complessità che è partito dal postulato dell’identità Complessità = Mente, è seguito  in una notazione sulla Logica, è passato a riconoscere un “prima” in Eraclito, è poi tornato sulla Logica e qui ha lambito il pensiero di Hegel. Il viaggio continua… ]


[1] Anselmo d’Aosta o di Canterbury, 1304-1109.

[2] Hegel pubblica la Fds a 37 anni. La FdS presenta già pronto il sistema hegeliano, il quale subirà modesti rimaneggiamenti, ampliamenti, piccoli spostamenti lungo il successivo sviluppo, ma la cui struttura sistemica rimarrà sostanzialmente invariata. Per ampiezza e tematica, si può definire la FdS, l’opera prima del filosofo. Da dove giungeva quindi un impianto così articolato, vasto e completo? I modi di procedere per giungere ad un impianto di tale sistematicità sono due, dall’alto o dal basso, per via induttiva o deduttiva. Quella abduttiva è più problematica. Dal basso significa che si parte da qualche punto o da più punti e ci s’incammina lungo un lungo lavoro di sviluppo delle idee che costantemente dialogano per trovare posto in una struttura interconnessa, concettualizzandosi sempre più. Questa struttura ha necessità di interconnessione poiché è interna al pensare del singolo filosofo che ha geneticamente operante in sé il principio di non contraddizione e di comprensione totale, al pari di chiunque umano.  Di questo lavoro ci possono essere anticipazioni o modelli provvisori e l’esito finale è esplicito, ovvero l’opus magnum che in genere arriva alla fine del processo (e della vita del pensatore) o può anche non esserlo, nel senso che sono poi i critici e gli esegeti a porlo in rilievo ex post. In entrambi i casi (soprattutto nel secondo) l’opera tenderà più o meno al sistema ma il sistema sarà ampiamente impreciso e tendente alla lacuna o alla contraddizione. Dall’alto significa operare con il giudizio ipotetico, ovvero con l’operatore logico “se…allora”. Porre in cima un assunto e derivare da questo assunto una articolata catena di conseguenze, sciorinare un sistema da una premessa vincolante che è quasi sempre un postulato della ragione ( il “diallele” degli scettici). La forma di questo operare è deduttivo-sillogistica ed il sistema che ne consegue ha forme di solida architettura ed ingegneria delle parti e dell’insieme. Hegel seguirà alla FdS, la Scienza della Logica pubblicata tra i suoi 42 ed i suoi 46 anni. Subito a seguire, L’Enciclopedia che compendia come recita il titolo, l’intero impianto. Tra i suoi 48 ed i 61 anni, giunti i quali morirà, Hegel pubblica solo i Lineamenti di Filosofia del Diritto. Nella Prefazione di questi, si trova l’affermazione che “ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale”. Noi sosterremo che questo fu l’implicito assunto inziale dal quale mosse il giovane Hegel per dedurre l’intero sistema, un assunto che traduceva in concetto il Logos-Uno di Eraclito. Il giudizio di “a priori” quindi s’intende come lucida volontà, a priori, di impostare un sistema, basandolo su un postulato semmai da inverare nella sua applicazione, componendolo sinteticamente osservando e comprendendo, modificandoli in modo da renderli sistematicamente compatibili, i quattro lati del quadrato di significati all’interno dei quali si poneva l’impresa hegeliana. untitlednQuesto assunto “costruttivista” fu invero assai precoce poiché se ne può scorgere la genesi negli scritti giovanili religiosi composti tra i 23 ed i 30 anni in cui si forma la convinzione dell’identità tra spirito divino e spirito umano, tra idealità e realtà. E nel Frammento di sistema dei 30 anni, la filosofia ha già ricevuto dalla religione il testimone che dovrà portare alla conciliazione di tutti gli opposti. Dopo verrà triangolato anche il mondo, naturale e storico. Ma è a 31 anni, l’anno dell’ottenimento della docenza a Jena (e nella cui dissertazione per l’abilitazione all’insegnamento compaiono, gemelli, due attacchi fondamentali alla scienza di Newton ed al criticismo kantiano) che Hegel compie il passo finale, teorizzando “La ragione libera e il suo fatto sono una unica cosa, e la sua attività è il suo puro rappresentarsi”, ma con la premessa  che “Deve sorgere il bisogno di produrre una totalità del sapere, un sistema della scienza” che sia l’autocoscienza della ragione assoluta. Questo sistema è la filosofia, l’identità tra Dio e uomo si allarga al mondo, la dialettica è la sua legge logica ed al contempo il motore del divenire razionale. L’Uno diventò Spirito ed egli fu pronto a dedurne il romanzo. Hegel rese reale la sua decisione razionale.

[3] Riferisce Giovanni di Salisbury (1120-1180), nel suo Metalogicus questo pensiero di Bernardo: “noi siamo, rispetto a gli antichi, come nani sulle spalle dei giganti: possiamo vedere più in là di essi solo perché possiamo sollevarci alla loro altezza”. Cit. in Storia della filosofia di Abbagnano, vol I, pg. 440-441. Il detto ha poi avuto longeva fortuna ed è oggi attribuito a più d’un filosofo successivo. Esso esemplifica che il nuovo pensiero, riamalgama pezzi del vecchio con l’aggiunta di qualcosa di nuovo e nel pensiero stesso e nella forma (e posizione) con cui è connesso ad un sistema di pensiero. In pratica, il terzo momento del processo dialettico hegeliano. La storia del metodo dialettico anche se non triadico, scende i gradini neoplatonici, fino a Platone stesso, prima a Zenone di Elea ed ad Eraclito. In predicato, se il processo è negare-comprendere e superare sempre e solo come poi pretenderà Hegel o una varietà di relazioni tra cui anche il più generico considerare-riamalgamare (comprendere) e superare. Noi propendiamo per la versione più indeterminata, di cui la meccanica-dinamica della dialettica hegeliana sarebbe un caso specifico. Si opera infatti all’interno di sistemi mentali non solo e sempre nei concetti e la logica dei sistemi è più complessa di quella dei concetti. Poi come al solito si può dire che il sistema sia un concetto, ma come altrettanto al solito si può dire che esso ci sembrerà singolare visto da fuori o plurale visto da dentro (ci si ritorna nella nota 18).

[4] La Filosofia della Natura è la seconda parte dell’Enciclopedia. Il problema della Scienza normale, per Hegel, è di esser ferma al fenomeno e di produrre indagine intellettiva non speculativa. Hegel si mostra contrario anche ad ogni approccio evoluzionista perché, come è stato fatto notare più che una pluralità di linee di separato sviluppo evolutivo, si deve concepire il divenire come un recupero dell’unità, momentaneamente dispersa, recupero arricchito di autocoscienza. Di contro, io credo che sia proprio il concetto di evoluzione ad avere dei problemi, sia lo si intenda a salire, sia a scendere e risalire. Se vi immaginate osservatore e studioso alieno di una Terra senza l’uomo, difficile ravvisare una evoluzione se non in senso di diffusione e specializzazione di alcune linee biologiche. untitled LSFMa le più longeve sembrano replicarsi immodificate e quindi non si può dire neanche che esista solo una evoluzione della complessità che anzi, più è tale, più è fragile nei confronti dei grandi e rapidi cambiamenti. Ricordo che in Darwin, il concetto più chiaro era quello di adattamento, non di evoluzione che fu una interpretazione di Spencer. Le “razze favorite nella lotta per la vita” erano quelle più adattative, ma che l’adattamento porti evoluzione in senso teleologico è indebito. Una prossima contrazione violenta delle disponibilità d’acqua porterebbe la Terra ad essere dominata da cammelli e dromedari, la qualità dell’adattamento richiesto è stabilita dalle condizioni ambientali generali e queste non hanno senso specifico. Evoluzione è un concetto antropomorfo, quindi relativo.

[5] IL concetto della differenza tra parti (μέρη) e membra (μέλη) è segnalato in “Eraclito”, Roma, Donzelli editore, 2004 da H. G. Gadamer come continuum che da Eraclito passa a Platone ed Aristotele e da questi a Kant ed Hegel.  In Hegel però prende anche un significato politico poiché l’impianto sistemico hegeliano è unico per tutte le occasioni. Nel 1817 Hegel commenta le discussioni costituzionali avvenute nell’assemblea degli Stati generali del regno di Wuttemberg. Le sue idee sulla composizione della rappresentanza sono del tutto organiciste. Dall’organicismo politico possono discendere diversi filoni come le applicazioni spagnole ai tempi di Franco o portoghesi ai tempi di Salazar o quelle che non si poterono realizzare della Repubblica Sociale Italiana per prematura decadenza della stessa. Dall’altra, vari tipi di comunitarismo che influenzano una certa parte della più recente tradizione marxista. In Hegel l’idea del circolo di circoli ha un chiaro sapore gerarchico e nelle forme giuridico-politiche, culmina nell’Uno-re. Non credo sarebbe dispiaciuta ad Hobbes.

[6] La ricezione di Hegel fino ad allora, manca di visibilità di questa importante premessa anche se molti commentatori critici (es: Feuerbach, Marx etc.) non ebbero bisogno di conoscerla nei dettagli per avvertirla come trama portante del suo pensato.

[7] Espressione forse influenzata da una precedente che “l’amico” Goethe aveva dedicato alle partiture del Clavicembalo ben temperato di J. S. Bach “Un colloquio di dio con se stesso, poco  prima della creazione” o come poi si esprimerà più diffusamente sull’intera opera di Bach “una eterna armonia in dialogo con se stessa”. I pochi momenti poetici della scrittura dello svevo sono prestiti da Goethe o da Holderlin o suggestioni da Shelling.

[8] Questo punto è molto più rilevante dello spazio che vi dedichiamo. Su di esso vanno dette due cose. La prima è che Hegel ha sul problema una posizione concettuale. imagesfI critici che ricordano che i movimenti nazionalisti coevi ad Hegel lo giudicavano non amico della causa della nazione germanica deducono erroneamente dal fenomeno il concetto. Hegel era interessato alla struttura concettuale dei problemi e non vi alcun dubbio esso fosse non interessato ma del tutto preso dal problema della frammentazione germanica. Questo ci porta alla seconda considerazione. Dato il timing degli eventi, delle sue riflessioni e della sua biografia, si può supporre che sia stato proprio questo argomento a convincerlo più di ogni altra cosa, della necessità di rendere Uno, il Molteplice. Stiamo dicendo che fu proprio questo l’argomento che lo porterà alla convinzione più forte sull’identità di reale e razionale. La Germania non era ancora reale perché non era razionale e non era razionale perché alla forma culturale (il popolo tedesco) non corrispondeva la forma giuridico-politica-militare. Egli si convinse in termini realisti (nota la sua passione per Machiavelli) che solo un uomo del destino potesse spezzare la resistenza dei particolarismi ed in questo senso possono essere letti anche i suoi rapporti con la Prussia. Ciò che si rendeva possibile sul piano storico infatti, era che fosse la Prussia ad operare questa invasione per l’unificazione, ma la Prussia più volte deluse questa possibilità. Da qui la sua posizione interna ma a volte ambiguamente dissonante con lo Stato prussiano. La Prussia era una possibilità che non divenne mai probabilità, almeno finché Hegel visse. Poi arrivò Bismarck e con “sangue e ferro” forgiò la nazione tedesca. Ad Hegel, Bismarck sarebbe apparso una astuzia della ragione ed in effetti lo fu.

[9] Questa biforcazione non è detto fosse in sé, ovvero fosse contenuta nelle due oggettive strutture dei rispettivi “Sulla natura”, titolo dell’opera unica, sia di Eraclito, sia di Parmenide, almeno per quanto ci è stato tramandato negli sbriciolati testi. Come al solito, fu Platone ad operare prima la dicotomia, poi la scelta di quale via intraprendere. Non fu certo su questo che Aristotele si distinse da Platone e da ciò seguì lo sviluppo della filosofia occidentale.

[10] Nella Metafisica (1074b-15, 1075a-10) Aristotele aveva già definito Dio “pensiero che non pensa a nulla inferiore a se stesso” e divina era quindi la facoltà umana di pensare, di pensare Dio e di pensare pure la sua essenza così espressa. Questo era Dio ma questo era anche l’essenza della filosofia. Ed ecco come la risolse Aristotele, la faccenda dell’Uno-Tutto che è poi l’oggetto privilegiato della metafisica stessa: “Resta ancora un problema: se ciò che è pensato dall’Intelligenza divina sia composto. In tal caso, infatti, l’Intelligenza divina muterebbe, passando da una all’altra delle parti che costituiscono l’insieme del suo oggetto di pensiero. Ed ecco la risposta al problema. Tutto ciò che non ha materia non ha parti. E cosí come l’intelligenza umana – l’intelligenza, almeno, che non pensa dei composti – si comporta in qualche momento (infatti, essa non ha il suo bene in questa o quella parte, ma ha il suo bene supremo in ciò che è un tutto indivisibile, il quale è qualcosa di diverso dalle parti): ebbene, in questo stesso modo si comporta anche l’Intelligenza divina, pensando sé medesima per tutta l’eternità.” Questo è propriamente, lo Spirito hegeliano, l’Idea Una che concilia tutte le molteplicità, reali ed ideali, nella loro comune appartenenza alla Ragione. Con un passo della Metafisica di Aristotele, simile e di poco precedente a questo, Hegel termina l’EdSF

[11] Le tre Prefazioni dell’Enciclopedia, ricordano di come i rapporti di convivenza tra religione e filosofia fossero delicati. Così i rapporti stessi tra filosofo ed il suo mondo concreto. La fine della piena vigenza del paradigma dio inizia dal XV° secolo, ma ancora ai tempi di Hegel, esso regnava invisibile a governo della società e della sua immagine di mondo. Questo per dire che inconoscibile rimarrà la vera convinzione del cauto Hegel su i rapporti di verità tra Dio e Ragione. Vera convinzione che a tratti fu un problema quand’egli ancora in vita, ma sedata dai suoi protettori asburgici che pragmaticamente avevano al centro della loro attenzione il credo politico. Dopo la sua morte invece, si produsse solo una fitta schiera di atei.

[12] E’ nella natura del giudizio ipotetico non poter fondare a priori il “se” da cui scaturisce l’”allora”. Nessuna forma di ragione può essere fondata se non retroattivamente e secondo Godel, neanche così, ma ricorrendo ad un secondo sistema logico. Da cui la sua essenza relativa, continuamente negata lungo tutto lo sviluppo della Ragione occidentale. Ne abbiamo parlato qui.

[13] Questa faccenda dell’Essere – Nulla – Divenire è importante, al di là di Hegel, ma assai complicata da spiegare. In breve, la filosofia occidentale, come detto nel paragrafo su Eraclito, imboccò la via dell’Essere e lo intese come opposto del Divenire. Probabilmente Eraclito pensava che l’Essere fosse Divenire. Probabilmente sia Eraclito, sia Parmenide che su questo è ben chiaro, escludevano proprio il concetto di Non Essere o Nulla. Come al solito, il problema lo creò Platone. images3U6FZBD8La metafisica classica dicotomizzando Essere e Divenire si pose invece il problema di come l’Essere spuntasse fuori dal Nulla, da cui Dio come creatore o demiurgo. Questo problema è antichissimo, se ne trova traccia addirittura nel primo libro dei Veda che dai più cauti è oggi stimato al 2000-1800 a.c.. I Veda risolvono il problema del divenire col “desiderio”, concetto che troviamo a volte citato  nell’ Hegel giovane, nonostante il suo successivo disprezzo per la cultura orientale. L’obiezione originaria (tra quelle a noi note) che l’Essere non può esser stato generato (se non da un suo esser “prima”) e quindi è increato, è di Parmenide. Per Eraclito invece pare si possa dire che il Divenire, come Mutamento, è una proprietà propria dell’Essere (o il contrario che è lo stesso) “…ma sempre era è e sarà…” [DK30] e altro, fuori dell’Essere/Divenire, non è previsto. Per Kant, il Nulla è “concetto vuoto senza oggetto” ovvero una cosa che possiamo pensare ma come diceva Wolff è “ciò a cui non corrisponde alcuna nozione”. Un caso in cui ciò che è (o sembra?) razionale è irreale. Come l’Infinito. “Perché  i mortali furono del parere di nominare due forme, una delle quali (il non è)– non dovevano e in questo sono andati errati -[e] ne contrapposero gli aspetti e vi applicarono note reciprocamente distinte…” da i frammenti (DK) di Parmenide. Il “non dovevano” sembra alludere ad un divieto sull’affidabilità di una logica che dà sostanza alla negazione. La ricerca fisica sul vuoto quantistico sembra dare ragione a Parmenide, anche ai fisici risulta che il nulla, non è.

[14] Enciclopedia §81: “Il momento dialettico è il sopprimersi da sé di siffatte determinazioni (quelle date dall’intelletto che determina come “la cosa è e sussiste per sè”) finite e il loro passaggio alle opposte”. Opposte? La negazione scaturisce certo dalla determinazione, nel senso che è implicita per il nostro ragionare, come Hegel ricordò citando Spinoza. Ma la negazione è una determinazione assai vaga, non determina l’opposto, il simmetrico contrario. Se io dico “Quello non è un uomo”, non ho mica detto che è donna o gatto o spaventapasseri o vigliacco o chissà cos’altro. Se la determinazione è una negazione, la negazione non è di per sé una determinazione, se non in un senso molto sfocato e comunque non produce l’opposto ma la relativizzazione del determinato. Questo è un punto delicato perché sono molti coloro i quali hanno pensato che battersi contro il capitalismo avrebbe aperto lo spazio per la nascita di qualcos’altro. Ciò è vero in linea di principio, come condizione di possibilità, ma non di necessità, cioè l’aprire lo spazio non porta di per sé alla nascita di alcunché. Quanto all’opposto, il simmetrico contrario, va trattato con cautela perché spesso esso è il prodotto del motore logico. Il motore logico prevede questa posizione binaria come “guscio vuoto” ma non è detto che ciò con cui noi la riempiamo sia esistente, né tantomeno possibile. A generale premessa va posto il primato dell’ontologico sul logico.

[15] Non possiamo avventurarci nella decifrazione dei rapporti tra Marx ed Hegel come poi ribadiremo più avanti. Per incapacità. Però a prima vista, ci sembra che Hegel non fosse in realtà un vero e proprio “idealista” stereotipato. Anzi, la sua tensione a tenere correlato pensiero e realtà (idealismo oggettivo) è una delle cose più interessanti che vi si possa trovare, ancora oggi. Marx ha stereotipato la logica a testa in giù di Hegel, problema in cui è facile incorrere data l’ambiguità scivolosa del non chiarito rapporto tra negazione e contraddizione (la prima parte di questa frase è una tesi presente nella filosofia di C. Preve). imagesLFZ5H5UEEsiste invece distinta, la polarità tra la funzione concettuale della filosofia in Hegel e l’XI° Tesi su Feuerbach. Questo è un caso curioso perché a noi sembra che Marx certo avesse ragione sul punto, ma che la contraddizione in questo caso, è in Hegel. Sembra che una tensione inconscia esista nel pensiero politico di Hegel, che egli stesso ritenesse esistente questa dialettica tra pensiero ed azione nel mondo, ma che poi non la dichiarò ed anzi dichiarò il contrario per ragioni che forse avevano a che fare con il suo ruolo pubblico ed in conseguenza di coerenza con la negazione primigenia tra essere e dover essere derivata dal suo approccio dialettico a Kant. La distinzione esistente – realtà, porta ad un atteggiamento che più che giustificazionista della seconda (vattelapesca come definire la razionalità della realtà) è passiva verso il primo. Ma se l’esistente attende di divenire reale, lì c’è una aspettativa.

[16] Il congiungimento dell’entusiasmo scientista con l’aspirazione al cambiamento emancipante nell”800 è ben rappresentato dalla definizione del pensiero di H. data dal russo A. Herzen (1812-70) quale: “algebra della rivoluzione”. Agghiacciante.

[17] In G. W. F. Hegel, System und Geschichte del Philoophie, vol I, pg. 148 citato in Valerio Verra, Introduzione ad Hegel, Roma-Bari, Laterza, 2010, pg. 190, Hegel introduce il concetto di principio ordinatore. In una porzione specifica di tempo, in una determinata fase politica-sociale-culturale-economica, si esprime un solo spirito, un solo principio, che la filosofia può e deve cogliere. Le prime sono tutte manifestazioni articolate nei loro specifici, del secondo. Né si deve – e la specifica è importantissima – cercar di capire se le prime determinino la seconda o la seconda le prime poiché essi sono tutti momenti di un unico e solo carattere: lo spirito sostanziale di un popolo, di un periodo, di un tempo. Noi riteniamo che questo spirito del nostro tempo sia la Complessità e da qui muoviamo per cercare di far posto a questo concetto in quella riflessione filosofica, mancando la quale, non  si apprende il proprio tempo e non apprendendo il quale, non può esserci adattamento. Diversamente da Hegel, non pensiamo questo necessario per solo “giustificarci” ciò che in cui siamo immersi, ma per dotare la nostra cognizione delle coordinate necessarie a sviluppare adattamento, quindi trasformazione sincronica, tra noi e mondo. Il concetto di ordinatore era già presente nella definizione di sistema, in Kant (CdRP).

[18] Questa non è una legge, non almeno prima di chiarire una differenza sul punto di vista. Facciamo un esempio: io possono dire che il vivente è tripartito tra vegetale (organico non conscio), animale (organico conscio), umano (organico auto-conscio). A questo punto, dal punto di vista dell’organico posso dire che il vivente è organico, ma dal punto di vista della produzione di intenzionalità, il vivente non è una unica forma ( è non conscio-conscio-autoconscio). Dal punto di vista dell’uno (il vivente è organico) il significato è meno denso che dire dal punto di vista dell’Uno-Molteplice: il vivente organico ha differenti gradi di intenzionalità. Che è come dire che è la differenza nell’unità che dà la densità. Quando J. Lovelock lanciò l’ipotesi che la Terra fosse un vivente a cui appose il nome di Gaia, si poteva accettare questa definizione solo dal punto di vista organico, il ché è appunto “vero” ma di non eccessiva significanza. Non lo è perché dire che la Terra è come un enorme vegetale da considerare non astratto dal suo ambiente con il quale costituisce un intero è dire appunto una cosa “vera” ma non così rilevante (anche se per mentalità astrattiva cartesiana-scientista, lo è e molto). E’ come dire che la Terra è un unico ecosistema fatto di ecosistemi. Dedurre da ciò che Gaia avesse intenzionalità era invece errato in via di principio ed assume le forme ridicole dalla new age tipo Avatar, è animismo. Completamente errata è invece la concezione organicista hegeliana. E’ questo un caso di fallacia della analogia. Dire che individui, società civile e Stato sono una totalità organica è trasferire una caratteristica del vivente al non vivente, nel caso oltretutto “un non vivente ideale”. Hegel fonda il suo pensiero su questo errato presupposto dell’identità tra reale ed ideale attraverso il razionale. Hegel non solo opera questa indebita osmosi di concetti tra vivente e non vivente, tramite l’analogia degli organi, ma persevera oltre ogni limite quando porta ad identità la facoltà intenzionale autocosciente. Per trovare questa unità autocosciente ed intenzionale nel sistema politico-sociale infatti, non può che rifugiarsi nel “re”. Dove altrimenti avrebbe potuto porre l’unità autocosciente, il culmine della sua totalità organicista? E’ come per i cristiani che similmente debbono presupporre l’unità autocosciente in Dio. Da ciò la giustificazione di ogni forma di gerarchia.  La metafora qui agisce come schema di proiezione che l’uomo lancia sul mondo per ridurre la sua ansia ontologica che, come abbiamo detto, è semplice e scusabile (sul piano esistenziale non gnoseologico) ansia di morte. Non scusabile è invece la dannosa catena di conseguenze che deriva dalla falsa attribuzione di qualità di sistema organiciste ed intenzionali tra vivente e non vivente, reale ed ideale. imagesI1JZCGI1Il massimo di comune che si possa dire tra queste diverse forme dell’ente è semplicemente che esse sono tutte sistemi il ché ha significanza ma limitata al suo stretto perimetro gestaltico o formale. Per trovare ricchezza di significanza occorre scendere i gradini della differenza, allontanarsi progressivamente dall’Uno ed avvicinarsi vieppiù al Molteplice. Come già detto, la Cosa si può dire Uno o Molteplice a seconda che il punto di vista discrimini un valore di comune (poco significante ma unico, in genere formale) o un valore di differenza (più significante ma molteplice, in genere sostanziale). Questo punto di vista è legato alla posizione relativa, esterna all’oggetto esso è Uno, interna all’oggetto esso è Molteplice. Detto dall’esterno, si può dire “questo è Uno” ma ciò implica che il Tutto non sia Uno poiché tra noi e l’oggetto siamo già in Due. Detto dall’interno “questo è Uno” si fa professione di fede perché non sappiamo quale possa essere il perimetro di questo Uno. E’ il problema delle vacche nella notte, è una tipica forma di  indeterminazione correlativa tra due variabili o si definisce la notte (nera) o le vacche (a colori). Ne discende che la Cosa in sé per noi è indicibile senza prima aver scelto un relativo punto di vista dal quale dirla, che sarà sempre un “non dirla tutta”. L’in sé per sé non esiste, è astratto dal punto di vista e solo a questo punto può ambire all’assoluto, cioè “al punto di vista di dio”, ma questo non è umano se non per un umano che pensa di essere dio. A noi interessano umani che cercano di essere più umani.

[19] F. Chiereghin, Rileggere la Scienza della logica, Firenze, Carocci editore.

[20] Su questo, avanza una ipotesi Costanzo Preve nel suo “Marx lettore di Hegel e…Hegel lettore di Marx”, editrice petite plaisance, 2009, sostenendo che la negazione della verità susseguita ad Hegel, sarebbe una momentanea rimozione, provocata dal manifestarsi della piena potenza del capitalismo che farebbe, della mancanza del punto fisso, la ragione della sua stessa, dilagante, forza.  Si può però leggere la stessa cosa per altra via. La prima modernità nacque in contrasto simmetrico alla vigenza del punto fisso della verità di Dio, la seconda prese dolorosamente atto che dio era morto o almeno si era dissolta la sua posizione ordinativa. untitled eK. Lowith sostiene che Hegel compì l’ultimo tentativo di ripristino del ruolo della verità. Dio era verità e razionalità, nonché realtà ma così definendo, il tramonto di dio si sarebbe portato appresso anche il tramonto della verità aprendo la fase esistenzial-nichilista. Questa potrebbe esser letta come fase di “lutto della verità” dove cioè i sistemi di pensiero mantengono l’ordinatore verità al loro capo, ma come un guscio vuoto, una assenza carica di angoscia. Fase che potrebbe esser superata riformulando sia il concetto di verità, sia la sua posizione nel sistema. Ciò porterebbe anche a leggere la società capitalista come la prima versione di una vita umana occidentale senza dio o almeno senza dio come ordinatore dell’intero sistema di pensiero. Come tutte le fasi primitive, il capitalismo, che come ha evidenziato W. Benjamin mantiene la struttura della religione cambiandone i contenuti, andrebbe evoluto in altro ma non certo opponendogli una altra verità con pretese di ripristino impossibile dell’assoluto. Ad occhio, la strada dovrebbe esser quella di dissolvere la sua stessa struttura religiosa ed imparare a vivere come umani tra umani. La via dell’emancipazione umana è un giungere alla consapevolezza di sé, non come dio, ma come umano. Sembra facile, ma come diceva Brecht “è il facile che è difficile a farsi”.

Informazioni su pierluigi fagan

64 anni, sposato con: http://artforhousewives.wordpress.com/, due figli, un gatto. Professionista ed imprenditore per 23 anni. Negli ultimi venti e più anni ritirato a "confuciana vita di studio", svolge attività di ricerca multi-inter-transdisciplinare da indipendente. Il tema del blog è la complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e filosofica. Nel 2017 ha pubblicato il libro: Verso un mondo multipolare, Fazi editore. Ogni tanto commenta notizie di politica internazionale su i principali media oltre ad esser ripubblicato su diverse testate on line. Fa parte dello staff che organizza l'annuale Festival della Complessità e pubblica su specifiche riviste di sistemica. Tiene regolarmente conferenze su i suoi temi di studio, in particolare sull'argomento "Mondo e complessità". Nel 2021 è uscito un suo contributo nel libro collettivo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" a cura di Carlo Formenti, Meltemi Editore. A seguire: "Europa al bivio. Tra radici e sfide" a cura di Vincenzo Costa, Marcianum press, 2024 Venezia e "L'era multipolare: competizione o cooperazione" a cura di Gabriele Germani, La Città del Sole, 2024, Napoli.
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Una risposta a HEGEL. Il Logos è sistema.

  1. ravecca massimo ha detto:

    I giochi di specchi, i processi ricorsivi, di cui il moltiplicarsi all’infinito dell’immagine di un oggetto tra due specchi piani paralleli è un esempio. Sono alla base dell’intelligenza, del genio. Così come si è manifestata in Gesù di Nazaret, Leonardo da Vini e Michelangelo Buonarroti. I loro stessi volti nella maturità erano simili, come in una camera degli specchi. Cfr. ebook (amazon) di Ravecca Massimo. Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo. Grazie.

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